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(Lc 1, 46-55):
“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre.”
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La tradizione indica il villaggio
di Elisabetta nella località di Ain Karim, “fontana generosa”, che si
trova a sette chilometri da Gerusalemme: sono poche case immerse in una
refrigerante vegetazione.
In quel villaggio, una donna,
avanzata in età e sterile, è nella gioia per una nascita ormai insperata, e un
uomo, vincolato ad un improvviso mutismo, ha
il volto umiliato.
Maria, che
aveva ricevuto nel glorioso annunzio dell’angelo la notizia del prodigio
avvenuto in casa di Elisabetta, si presenta alla porta della parente con un
saluto al quale fa eco una improvvisa sequenza di gioia: (Lc 1,44-45) “Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta
ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio seno. E beata colei
che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”.
Queste parole, confermanti quelle dell’angelo, producono in Maria uno
stato di beatitudine, che immediatamente riferisce a Dio ogni lode udita.
Il ricordo e la meditazione delle Scritture, che parlano del Messia e
del mondo di pace di cui sarebbe stato portatore, avevano riempito le ore di
Maria dopo l’annunzio dell’angelo; e ora, nella luce della conferma
beatificante di Elisabetta, trovano sintesi, sistemazione e chiarezza in quelle
che è il più umile, il più riconoscente ed elevato di tutti i cantici.
Nel cantico, la preghiera raggiunge un vertice mai prima raggiunto e
che sempre emergerà solitaria, accanto alla cima unica e sovrana della
preghiera di Cristo.
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(Mt 1, 19-21): “Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto.
Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: ‹Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dalla Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati›
”. |
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Dopo i tre mesi trascorsi nella casa di Elisabetta, Maria torna a
Nazaret con segni visibili di una gravidanza.
L’incontro con Giuseppe, che era all’oscuro delle meraviglie avvenute,
fu segnato da quella che si può chiamare la “passione” di Giuseppe.
Di fronte alla improvvisa sofferenza di Giuseppe, Maria sentì che
avrebbe dovuto usare un tono di giustificazione nella descrizione di
quell’avvenimento per il quale trovava a fatica parole, e si persuase che il
Signore volesse provvedere lui ad illuminare lo sposo.
Quanto tempo durò l’angoscia di Giuseppe? Certamente più giorni.
Nel cuore di questo giusto, si scontrarono violenti due amori: quello
per Maria e quello per la Legge, che prevedeva in quel caso il “libello di ripudio”. Con tale libello l’accusata doveva presentarsi
in tribunale per il giudizio; la Legge poi (Dt 22,23-24) prevedeva la
lapidazione, anche se poi, in pratica, c’erano molte strade per evitarla.
Giuseppe, non potendo in ogni caso continuare il legame con Maria, che,
stranamente per lui, non gli diceva nulla, non si spiegava, decise di
ripudiarla in segreto senza infamarla con un libello pubblico.
Mentre Giuseppe veniva con questo dolore preparato a ricevere
l’annunzio straordinario, Maria soffrì il riflesso del dolore dello sposo.
Maria fu provata nella fiducia: Dio “tardava” ad
illuminare lo sposo.
“Figlio di
Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è
generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Queste parole raggiungono Giuseppe nel sonno, in un sonno agitato,
sanando il dramma di non poter conciliare l’amore per Maria con l’amore per la
Legge.
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(Lc 2, 6-7): “Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo Figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”. |
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Betlemme, “la
casa del pane”, in antico chiamata
Efrata “la fruttuosa”, era la patria di Davide (1Sam 16,4; 17,2). Si
trovava a nove chilometri a sud di Gerusalemme, e distava da Nazaret
centocinquanta chilometri.
Il profeta Michea aveva detto di lei (Mi 5,1-3):
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“E tu,
Betlemme di Efrata,
così piccola per essere fra i
capoluoghi di Giuda,
così piccola per essere fra i capoluoghi di Giudea,
da te mi uscirà colui
che deve essere il dominatore in Israele”.
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Il lungo viaggio non trovò al suo termine il conforto di un alloggio: “non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7).
I due sposi trovarono un riparo dal gelo della notte in una delle
grotte scavate nel calare, che si trovavano subito fuori del villaggio.
Una di quelle grotte, ad uso riparo per gli animali, divenne la casa
natale del Figlio di Dio.
L’evangelista Luca ci presenta Maria avvolta nel silenzio, nella
povertà, nel freddo. Giuseppe appare fuori dell’orbita soprannaturale di quel
momento.
L’incarico di attestare il parto verginale lo ha assolto l’evangelista
Matteo, applicando a quell’ora il vaticinio di Isaia, letto nella traduzione
greca dei LXX (Is 7,14):
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“Ecco la
Vergine concepirà e <partorirà> un figlio
che sarà chiamato Emmanuele”.
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Luca gli fa eco, premurandosi di sottolineare che Maria fu sola, senza
le aiutanti il parto, e che fu immediatamente in grado di dare le prime cure al
Figlio: “Lo avvolse in
fasce e lo depose in una mangiatoia”.
Nessun dolore ebbe Maria: l’ineffabile gioia del parto che
Eva aveva perso ella la visse, elevata dalla consapevolezza della divinità del
suo nato.
Lo
squallore, i sassi e la paglia si trasformarono in veste regale, alla presenza
della “grande luce” (Is 9,1).
Questo
quadro di beatitudine è sapientemente aperto a tutti noi da questa importantissima nota: “Diede alla luce il suo Figlio primogenito”.
Si deve
subito dire che il termine “primogenito” non è qui messo al solo scopo di preparare il successivo racconto
della presentazione al tempio (Lc 2,23), e che occorre allontanare la distorta
idea sull’espressione biblica “fratelli
di Gesù”, che vorrebbe compromettere la
perpetua verginità di Maria. Quest’ultima espressione è usata per indicare i
legami dell’amicizia: Giacomo e Giuseppe sono chiamati “fratelli di Gesù”,
mentre risultano chiaramente figli di altra Maria, moglie di Cleofa.
Giacomo,
l’apostolo che è chiamato “fratello
del Signore”, risulta di altro casato (Mt 10,3;
Mc 3,18; Lc 6,55).
E’ poi
comune anche oggi sentire un predicatore esordire con un “miei cari fratelli”.
La
parola “primogenito”, dopo queste chiarificazioni, brilla in tutta la sua pienezza,
sintonizzandosi con quanto dice la lettera ai Romani (8,29): “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha
anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli
sia il primogenito tra molti fratelli”, e la
lettera ai Colossesi (1,18): “Egli è
anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di
coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose”, e la
lettera agli Ebrei (1,6): “E di nuovo, quando introduce il primogenito nel
mondo…"; e l’Apocalisse (1,5): “Gesù Cristo, il testimone fedele, il
primogenito dei morti e il principe dei re della terra”.
Il “primogenito” di
Maria è unico secondo la maternità fisica, ma non secondo la maternità
spirituale.
Il
Vangelo ci vuol dire che, nella grotta di Betlemme, Maria è già nostra madre, e
questo con un’intensità e una profondità insospettate.
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