POVERINO, QUANTO SOFFRI”  
     
Era a letto immobilizzato quando una suora del reparto gli annunciò che c'era una religiosa di nome Nina, mamma Nina di Carpi, che lo cercava. P. Raffaele ebbe un moto di gioia, mista a curiosità, poi, si disse: “Come mai va a cercare di me che non la conosco?”. Si mise quindi in atteggiamento di difesa. P. Raffaele aveva già sentito parlare di mamma Nina e in termini celebrativi: si diceva che facesse miracoli. A queste voci aveva dato un limitato peso, sapendo bene come la gente è pronta a infiorettare le cose.
Mamma Nina, per chi non la conoscesse, è la fondatrice della “Casa della Divina Provvidenza” a Carpi. Tale istituto raccoglie ed educa cristianamente fanciulle bisognose. La sua vita è stata singolare perché, madre di sei figli, dopo essere rimasta vedova ed aver visto sistemati i figli, costituì un piccolo istituto di ispirazione francescana. Vestì l'abito religioso il 19 marzo 1938. E' morta il 3 dicembre 1957.
Quando, dunque, mamma Nina entrò nella stanza, p. Raffaele aveva l'aria interrogativa: “Sia lodato Gesù Cristo”. “Sempre sia lodato, mamma Nina”. “Padre, mi deve scusare; dato che sono emiliana ho voluto vederla, ho voluto salutarla. Ho fatto male?”.
P. Raffaele da Mestre
 
Mamma Nina si presentava con una umiltà disarmante, con lo sguardo e il sorriso di una mamma. Cominciarono a parlare del più e del meno: “Mi sembra di guardare un mio figlio: ne ho sei sa, padre! Mi lasci parlare in dialetto, padre, sento che lei mi può capire; quando parlo in dialetto mi sento me stessa, padre”. Quando mamma Nina se ne andò, gli lasciò il suo crocifisso.
Mamma Nina ritornò a trovare p. Raffaele, mentre si trovava a letto paralizzato nello spasimo di una paresi che gli stava bloccando il diaframma. Entrò e disse soltanto: “Poverino, quanto soffri”. Poi uscì, lasciando però nel cuore di p. Raffaele l'onda della sua maternità.
Un altro incontro con mamma Nina avvenne nel 1954, in occasione di un'operazione di p. Raffaele, probabilmente quella nella quale uscì con la lingua arrotolata in gola. Soffriva veramente tanto.
Aveva quaranta di febbre, quando mamma Nina entrò nella sua stanza. Si avvicinò e gli pose una mano sulla fronte: “Coraggio, Raffaele! Mah! Che Gesù ti dia tanta forza, perché soffri tanto. Come fai a soffrire così?”; poi se ne andò.
Un'altra volta, mentre p. Raffaele stava leggermente meglio gli disse: “Appena guarirai, verrai a predicare alle mie ragazze il ritiro?”. “Ma come farò? Sono tutto paralizzato: non posso più guarire”. “Però se Gesù ti dovesse guarire, lo farai?”. “Sì, te lo prometto”.
In uno degli incontri con mamma Nina, che seguirono alla dimissione di p. Raffaele dall'ospedale al Lido di Venezia, spicca un fatterello che ci manifesta l'acuta capacità di osservazione che aveva p. Raffaele. L'episodio avvenne nella cappellina della Casa di Carpi. P. Raffaele si accorse che mamma Nina era come rapita da qualcosa che stava vedendo e, al termine della Messa, le si avvicinò dicendole: “La Madonna che state vedendo ha dodici stelle, ma io ne vedo una sola”. Mamma Nina ci cascò: “No! Ne ha dodici”. Poi visto che p. Raffaele aveva scoperto il suo segreto disse: “Mamma; quanto sei furbo!
 
LE ANIME SI CONQUISTANO CON LA SOFFERENZA”  
Nel Maggio del 1956 p. Raffaele passò alla “Casa della Madonna” di Novara, facente capo al Centro Nazionale dei Volontari della Sofferenza. Il compito che gli venne affidato fu quello di direttore spirituale. In tale Casa stette solo tre mesi perché i suoi superiori vollero nuovamente far conto su di lui. Gli venne così affidato l'incarico di direttore spirituale degli studenti di filosofia presenti nel convento di Piacenza. Incarico bellissimo, al quale corrispose pienamente. Il suo amore per la forma di vita dei Cappuccini lo rendeva adatto a guidare quei giovani.
Il suo era amore autentico e non un atteggiamento convenzionale: questo gli studenti lo compresero pienamente. P. Raffaele li guidava a sottrarre le belle tradizioni dell'Ordine dalle consunzioni formalistiche mediante la viva linfa dell'amore, e stampava nel loro cuore la convinzione che la crescita cristiana si basa innanzitutto sulla confidenza in Dio.




P. Raffaele da Mestre

In questo periodo, presso i laici, p. Raffaele, si fece promotore della “Legio Maria”, della quale conobbe il fondatore. La “Legio” ha come programma il partire da Maria mediatrice, nella forza dei doni dello Spirito Santo, per la conquista delle anime.
Personalmente, poi, costruiva sempre più la sua riflessione su Cristo sulla base del mistero della croce. Nel suo intimo si stava operando il passaggio netto dalla fase di uno che soffre, perché toccato dalla cattiva salute, alla fase di uno che si offre pienamente, liberamente, in conformità col Cristo immolato; era cioè nella piena consapevolezza di quello che tante volte aveva detto: “Le anime si conquistano con la sofferenza”.
Così, mentre era in pellegrinaggio al santuario della Madonna di san Luca a Bologna, accompagnato da alcuni giovani, si offrì vittima per la salvezza delle anime. Da quel momento prove di ogni genere si abbatterono su di lui. Subentrarono, infatti, complicazioni alla colonna vertebrale che lo costrinsero ad un rientro all'ospedale al Lido di Venezia, dal quale era stato dimesso il 2 aprile 1956.
Le condizioni della colonna vertebrale si rivelarono stazionarie, cioè senza progressi verso una possibile guarigione. Venne dimesso in data 30 settembre con un corsetto ortopedico. Al rilascio dall'ospedale seguì subito un peggioramento con nuovi dolori alla vertebre dorsali; questa volta le prospettive terapeutiche si presentarono a Torino, all'ospedale Maria Vittoria.




P. Raffaele da Mestre
NON E' VERO!”
Una telefonata fece trillare un campanello in una casa di Torino: “Ingegnere, signor Riccardo, qui il padre è messo male”. I benefattori di p. Raffaele avevano visto le sue condizioni, e si erano convinti, per di più, che al Lido di Venezia non fosse stato trattato bene il suo caso. Ora volevano metterlo in cura presso il prof. Re. I superiori non scoraggiarono affatto questa prospettiva.
A Torino le condizioni della colonna vertebrale apparvero complicate per una colata ascessuale nello speco vertebrale, con menomazione del tratto di midollo a livello dell'ultima vertebra dorsale. Questa menomazione diede poi luogo al costituirsi di una ingravescente paresi degli arti inferiori, fino alla completa paralisi spastica (paraplegia).
All'ospedale Maria Vittoria, in due ricoveri successivi, intervallati da un soggiorno all'ospedale di Pavullo, p. Raffaele ebbe più interventi alla colonna vertebrale. Il prof. Re, quando lo guardava, sentiva salirgli le lacrime agli occhi. Una volta, parlando con la mamma di p. Raffaele, disse: “Dio mio, quanto soffre questa creatura!”. “Non è vero!”, rispose Raffaele.
Il prof. Re era legato a lui da una con profonda amicizia e, a volte, stava presso il letto dell'eroico paziente fino alle due di notte.
 
Non mancarono anche a Torino visite continue a padre Raffaele. Un personaggio così radicato nella fede non poteva non essere centro di misteriosa attrazione. Gesù aveva detto (Gv 12,32): “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”, e p. Raffaele poteva ben dirsi “elevato da terra”, cioè crocifisso con Cristo, per le sue tante sofferenze. Non sorprende perciò sapere che il poeta Ungaretti sentì il bisogno di confrontarsi con quel frate e veramente estesa fu la cerchia dei grandi personaggi che negli anni successivi andarono da lui. Tra questi, molti personaggi degli studi televisivi di via Arsenale 21. Si recarono da lui l'attrice Vanessa Redgrave e Franco Nero. Dopo la morte di padre Pio, anche Carlo Campanini fece capo a padre Raffaele. Andò da p. Raffaele anche Enrico Medi, chiedendogli di stabilirsi a san Giovanni Rotondo per sostituire padre Pio; ma la cosa era canonicamente impossibile. P. Raffaele da Mestre
Raffaele era giunto veramente a donare se stesso, ma in Cristo, con Cristo, per Cristo; aveva tanto lavorato su se stesso per giungere a questo, vedendo con lucidità le sue carenze: “Scopro così l'insufficienza del donare me stesso, anzi vedo che, donando me stesso, dono un surrogato pericoloso e dannoso”.
Nell'aprile del 1962 rientrò all'ospedale di Pavullo; poi subì diversi trasferimenti da un ospedale all'altro, nella continua ricerca di terapie adeguate e di soggiorni assistenziali. Lo troviamo, così, nel maggio del 1962, presso la “Villa san Camillo” dei Fatebenefratelli a Forte dei Marmi; poi, nel settembre del 1962, di nuovo, a Pavullo, per l'insorgere di una tubercolosi renale, che richiese l'asportazione di un rene; nel gennaio del 1963, alla clinica Grandenigo di Torino, poi, di nuovo, a Forte dei Marmi; in seguito, lo troviamo in Svizzera presso l'ospedale ortopedico di Losanna, e nell'ospedale cantonale, pure di Losanna, dove ebbe un intervento alla vescica.
P. Raffaele da Mestre
Nel marzo del 1964 ritornò alla clinica Grandenigo di Torino. In tutti questi spostamenti una volta si trovò per qualche giorno in una ricca casa che lo ospitava. Tutto bene, poi la sorpresa: un giorno la padrona di casa si mise a camminare nuda per la casa, e p. Raffaele era lì. P. Raffaele non stette a pensarci due volte, la fulminò con parole di fuoco, e tutto rientrò nella decenza, anche se il clima di prima ormai era solo un ricordo.
Nonostante i continui spostamenti p. Raffaele aveva sempre lavoro pastorale, poiché molti non esitavano a fare lunghi viaggi pur di incontrarlo e sentire i suoi consigli. Per sapere dove fosse ricoverato occorreva, però, un vero servizio di investigazione, perché gli spostamenti p. Raffaele non li comunicava che a pochissimi; ma ogni fatica era ricompensata, perché si usciva dal dialogo con lui carichi di vita; egli infatti era per la vita, amava la vita.
Era vittima, ma vittima piena di gioia, quella gioia che Francesco d'Assisi chiamava “perfetta letizia”. Essere vittima non consiste propriamente nel soffrire, ma nel saper soffrire in intensità d'amore per Dio e per gli uomini.
 
NON CI SI CAPISCE NIENTE”
A p. Raffaele, durante tutti quei trasferimenti, sembrava di procedere nel buio: contrattempi, dolori e incomprensioni, tentazioni e aridità spirituali. A tutto reagiva, stringendosi con tutto il suo volere alla tavola di salvezza della fede, come un naufrago rimane stretto al galleggiante che lo sostiene. Anni dopo, esortando un giovane a temprarsi, gli dirà: “Se ti capita una di queste prove...Non ci si capisce niente!“.
In seguito, esaminerà le imperfezioni dell'umano relative a questo periodo: “L'umano che cerca di comprendere, di dare, di sacrificarsi, di pagare, quasi si potesse essere dei surrogati di Cristo. Di qui tutte le illusioni e le suggestioni e i fallimenti; e nel cuore l'abisso del vuoto si fa voragine! Il fallimento porta alla disperazione, all'inutilità, all'abbattimento passivo. La vita interiore un ricordo del noviziato“. Si sentiva invitato ad una trasformazione totale di sé in Cristo, mentre valutava come il suo rapporto con la gente fosse vuoto, dannoso addirittura. Così, prolungando il suo esame scriveva: “Venendo a contatto con il prossimo per l'apostolato ho avuto l'impressione che la mia fede fosse solo un formalismo, una struttura, qualcosa di disumano, di anacronistico, di strapazzante. Crisi che ha intaccato la radice della fede: credo perché Dio lo ha detto, perché Dio si è fatto uomo per essere più uomo di me. Intaccando questa radice è prevalsa la razionalizzazione ad oltranza, la naturalizzazione con perno l'io e non Dio“.
Che cosa significano queste parole? P. Raffaele, durante il soggiorno al Lido di Venezia, si era trovato repentinamente immerso nel mondo, e questo lo aveva sorpreso con i suoi problemi, le sue posizioni sociali, i suoi atteggiamenti di buona fede. A tutto questo aveva reagito con la preoccupazione di far notare che non credeva da sprovveduto; cosa buona, ma si trovò a registrare un trascinamento verso una razionalizzazione ad oltranza che gli tarpava l'intima unione con Dio. “Credo perché capisco e vedo, e non perché è il Signore che parla”, continuò nel suo esame di sé.
P. Raffaele non voleva affatto screditare il valore della ragione; solo avvertiva che anche quella doveva trovare il suo centro esistenziale nella fede. Il suo lavoro interiore era ormai rivolto a far sì che la fede, intesa come luce di trasformazione, prendesse pieno possesso del centro del suo essere.
 
ECCO L'ANCELLA DEL SIGNORE”  
   
Alla clinica Grandenigo le sue condizioni divennero estremamente precarie a causa di un'infezione alle vie urinarie. Gli ospedali a cui si era già rivolto ormai non erano più disposti ad accettarlo vedendo in lui un caso cronico, così si trovò nella condizione di cercare un nuovo ospedale che volesse prenderlo in cura. P. Raffaele aveva il presentimento di una morte imminente. Quale porta si sarebbe aperta per curarlo, in un ultimo tentativo di arginare i suoi mali?
Preso da questi pensieri, si fece portare da Torino al santuario della Madonna di Loreto, rimanendo nella Santa Casa per una notte intera. Un frate gli aveva dato questa opportunità. P. Raffaele fissò in un suo memoriale queste parole: “Loreto, preghiera intensa, grido per la salvezza dell'anima”. La disperazione cercava di ghermirlo, di smantellare la sua fiducia in Dio, e lui, ancora una volta, si affidava con tutte le forze a Maria.
 
La Santa Casa di Loreto, aveva un valore particolare: era il luogo dell'incarnazione, e gli parlava anche della Chiesa poiché molti Papi avevano mostrato particolare devozione per quel luogo. P. Raffaele, non dissimilmente da santa Veronica Giuliani e san Pio da Pietrelcina, credeva che quella Casa fosse la vera casa dell'Annunciazione. In quella Casa aveva brillato la fede totale di Maria e a questa fede lui si voleva uniformare, chiedendo alla Madre di Gesù di concedergli una fede viva, ardente, come quella che lei aveva avuto, affinché Cristo vivesse in lui. P. Raffaele da Mestre
Maria gli venne incontro. Nella luce che lo inondava, vide che la sua strada era diretta verso la “Casa Sollievo della Sofferenza”, a S. Giovanni Rotondo. Là, forse, avrebbe trovato aiuto terapeutico per continuare la sua missione di sacerdote; là, poi, se la sua infezione non fosse stata debellata, avrebbe potuto morire, dopo un umile sguardo al suo confratello padre Pio.
Il suo desiderio di guarigione si trova espresso in un suo canto nel quale si vede come, stretto alla mano di Maria, egli era pronto a superare il velo della morte, ma chiedeva alla Mamma che lo facesse “tornare” per dare luce agli uomini; “ritornato” non poteva, però, avanzare senza lei.
   
  Cala la sera sul mondo
e nel grigiore
brancolano ombre tristi
cercando luce...
La tua mano mi tiene forte
sul cammino che conduce al cielo
oltre il velo della morte
tenendo alto
il lume della tua fede.
Debbo tornare, o Mamma,
ma non posso avanzare:
con te.
M'affanna il pensiero
di quelli che restano ai bordi
del mio sentiero, cercando luce.
Torniamo, Mamma, per loro.
E tienmi forte,
affinché io alzi il lume ed essi vedano
il cammino che porta al Sole
 
Il padre Generale, informato dell'intenzione di p. Raffaele, diede l'approvazione per il ricovero alla “Casa Sollievo della Sofferenza” e inviò una lettera di presentazione.
La cartella clinica della Casa Sollievo dichiara che il ricovero avvenne per un'infezione urinaria:
L'infezione urinaria si era dimostrata ribelle alle terapie finora praticate e questa è stata la ragione prossima del ricovero di detto padre in Casa Sollievo”.
P. Raffaele da Mestre