“E’ DONO DEL SIGNORE”
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Lasciò Puianello sapendo che lo attendevano esami, terapie e dolori. Questa volta non sarebbe stato un ricovero di qualche settimana o mese: era un ricovero a tempo indeterminato e quindi capace di incidere profondamente in una vita. |
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Quando arrivò all’ingresso dell’ospedale, una suora indicò agli infermieri il padiglione dove era stato assegnato: il Verona. Giunse così in fondo al viale, che fa da asse urbanistico ai vari padiglioni, vide la chiesa e, subito lì di fronte, il padiglione che lo attendeva. P. Raffaele capì che era entrato in una vera e propria cittadella.
I degenti dell’ospedale al Lido di Venezia, in quel momento, erano 1800, ai quali si devono aggiungere 600 addetti.
Chi vi entrava vi rimaneva per anni e, anche dopo il rilascio, vi conservava l'appartenenza, perché doveva presentarsi a successivi controlli.
Tanti degenti non sono una bazzecola e, quando vi rimangono per molto tempo, è chiaro che i problemi inerenti al mantenimento dell’ordine diventano una priorità.
L’immenso problema dell’ordine e della vigilanza era caduto, durante gli eventi bellici, sulle spalle delle suore delle Sante Capitanio e Gerosa; altro personale, per varie ragioni, non era stato reperibile. Gli eventi bellici erano già superati nel 1949, ma il problema dell’ordine era ormai tradizionalmente delle suore, che avevano le chiavi di tutto l’ospedale, compresa quella della chiesa, servita dai Frati Minori.
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Al tempo di p. Raffaele, la comunità delle religiose registrava il numero di ottanta ed era impiegata secondo questo piano: tre suore erano permanentemente presenti in ogni reparto; dalle 13 alle 15, però, il numero si riduceva a una.
Alla sera, dopo che le luci venivano spente - cosa che avveniva alle 21 o alle 22 - l’ospedale veniva percorso da una ronda di due suore, che avevano appeso al fianco due poderosi mazzi di chiavi. La ronda, che aveva innanzitutto lo scopo di vigilare sui casi difficili, si protraeva oltre le 24.
L’ospedale, come struttura medica, era allora decisamente all’avanguardia, con la sua disposizione a padiglioni. Oggi, però, si preferisce la sistemazione a monoblocco, per il risparmio che si ha nei percorsi.
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P. Raffaele si trovò così immerso nel mondo della solidarietà sociale, delle sicurezze e delle insicurezze terapeutiche, dei criteri assodati e delle opinioni.
In un ambiente che gli si rilevò subito privo di mistero e forte dei suoi schemi scientifici, corredati spesso da interpretazioni laiciste, come mantenere feconda la propria identità sacerdotale e religiosa? Si diede subito la risposta a questo interrogativo: la croce e Maria.
L’unico mezzo era la testimonianza di Cristo, piena e vigorosa.
Cedere in questa testimonianza significava rendersi pressoché sterili e lasciarsi afferrare dall’ansia umana della guarigione. |
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L’itinerario dolorosissimo della sua malattia ci dice quanto dovette essere grande la forza della sua fede, della sua speranza e carità. Questi alcuni punti fissati nella cartella clinica: “Spondilite dorsolombare e paraplegia; osteoartrite al ginocchio sinistro, dove si svilupparono sette fistole ossee; calcoli renali con coliche resistenti ai sedativi; vomito biliare; dolori addominali; dolori alla base dell’emitorace; trazioni con pesi; ingessature; intervento chirurgico alla gamba sinistra, che risultò accorciata di alcuni centimetri; intervento alla colonna vertebrale”. Le persone, che lo avvicinavano, gli domandavano, sorprese dal suo sorriso: “Come fa a non lamentarsi mai?”. Lui rispondeva prontamente: “E’ un dono del Signore”. Il suo sorriso era la vittoria della grazia, era il frutto di un proposito fermissimo, già anni addietro registrato in una sua meditazione: “Non parlarne altro che con Mamma…, con gli uomini passare lieto e sereno”.
Così, quando era nel dolore e doveva vincere stati di depressione, componeva e cantava salutazioni alla Madonna. Ebbe, sebbene per poco tempo, anche una piccola cetra, con la quale accompagnò il suo canto.
Non smentì mai questo suo eroico sorriso. Un giorno, uscì da un intervento chirurgico, in condizioni da non potersi guardare, perché aveva la lingua arrotolata in gola, ma come vide un padre Cappuccino che gli era accanto spaventatissimo, si mise a ridere dicendogli: “Ti preoccupi di mali che non sono tuoi?”. |
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“BISOGNA PREGARE PER LORO” |
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Si era nel clima arroventato del dopo elezioni del 1948, segnato dalle discussioni sulla sanzione di scomunica per coloro che, battezzati, si mettevano in conflitto con la Chiesa per il loro ateismo militante. Si può benissimo immaginare come fosse in quel momento il dialogo con i lontani. In una parola, era difficile mantenere agibile il ponte del dialogo, che poggiava su due piloni: il primo, quello della precisazione dell’esatto concetto di scomunica, di quella scomunica che colpiva solo gli atei militanti; il secondo, quello della parola evangelica sulla pecorella smarrita. Ci voleva un po’ di tempo per far capire che la scomunica aveva una portata terapeutica e che non era un invio all’inferno, ma un invito al ravvedimento. Il diritto canonico veniva incontro con dati precisi, che si possono così compendiare: “La scomunica è una pena ecclesiastica con la quale un uomo battezzato, colpevole e contumace, viene privato della comunione dei fedeli e di altri beni connessi, fino a che, cessando lo stato di contumacia, non venga assolto”.
Spiegare tutto questo non era facile, ma p. Raffaele, nella sua qualità di sofferente e di uomo della gioia, aveva tutte le qualità per sostenere dialoghi impegnativi. Diversi furono gli atei che riportò alla fede e ai sacramenti. Aveva con loro la pazienza della carità e la fortezza di chi è convinto che Cristo è via, verità e vita. |
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Certo, p. Raffaele quando vedeva una chiusura completa non insisteva nella proposta della fede, tuttavia non cedeva nella speranza. Quando sentiva qualche giudizio negativo sui lontani diceva: “Bisogna pregare per loro. Gesù ha detto (Lc 5, 32):
‹Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori›”.
Gli umili capivano immediatamente queste parole. Più difficile era convincere chi aveva una fede impastata di trionfalismo e vedeva come una prova di forza la scomunica, mentre, in realtà, per la Chiesa era solo un penoso intervento.
Pio XII, in data 31 ottobre 1942, aveva consacrato a Maria tutto il mondo, con particolare menzione del popolo russo. “Ai popoli separati per l’errore e per la discordia e segnatamente a coloro che professano per voi singolare devozione, e presso i quali non c’era casa ove non si tenesse in onore la vostra veneranda icona (oggi forse occultata e riposta per giorni migliori), date la pace e riconduceteli all’unico ovile di Cristo, sotto l’unico e vero Pastore”.
P. Raffaele, così, camminava nella carità del Signore, per la conquista delle anime, di “quelle più bisognose” della misericordia di Gesù, secondo la notissima giaculatoria della Madonna di Fatima. |
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“CHIUSO, IL FRATE E' IN RESTAURO” |
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Nell'ospedale i rapporti umani, oltre ad essere promossi dalla lunga degenza, erano favoriti dal lungo viale sul quale si affacciavano i padiglioni. Nei tempi di uscita quel viale diventava il luogo comune della passeggiata. Allora i cappellani si mescolavano ai pazienti per conversare, con l'uno o con l'altro, con semplicità.
Altro aspetto altamente positivo era la mancanza di ozio all'ospedale al Lido di Venezia, poiché tutti si industriavano in lavoretti che andavano dai ricami, al rivestimento di oggetti con conchiglie raccolte sulla riva del mare. Gli oggetti erano venduti all'esterno per raggranellare qualche soldino.
C'erano poi iniziative rivolte allo svago consistenti in proiezioni di film e in recitazioni di commedie, che si tenevano in un teatro in stile Liberty. La ragione per cui ogni tanto lo spegnimento delle luci avveniva alle 22 anziché alle 21 dipendeva da queste iniziative serali. |
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Il quadro umano dell'ospedale non era perciò congelato in un immenso casellario di posti letto, ma era vivo e vario. Questo spiega come presto la voce della presenza di un frate cappuccino che tanto soffriva, ma che anche tanto sorrideva, attraversò l'ospedale. Certo, era un p. Raffaele in pigiama e senza barba, ma in poco tempo, la sua cameretta divenne un frequentatissimo centro di spiritualità.
All'inizio venivano solo persone dall'esterno, che p. Raffaele aveva conosciuto in un breve ricovero al vicino ospedale di Malamocco; poi, fu la volta dell'apprezzamento delle religiose; infine, fu la volta dei malati e del personale medico e infermieristico.
L'andirivieni che si venne a registrare nella cameretta di p. Raffaele non fu però benedetto universalmente: c'erano voci che dicevano che quel frate doveva fare il malato e basta; che badasse a pregare, se voleva, senza star lì ad attirare tutta quella gente attorno a sé. |
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P. Raffaele avrebbe dovuto davvero mandar via quelle persone che andavano da lui per ricevere una parola di conforto? Egli non mancava di raccomandare che venissero a visitarlo negli orari consentiti, ma non poteva certo freddare con un rinvio chi aveva bisogno. Solo con gli sfaccendati tagliava corto.
La sua carità era tanta che, anche quando non poteva ricevere, perché in condizioni gravi, non voleva che le persone andassero via senza una nota di buon umore. Allora, faceva mettere sulla porta un cartello con scritto: “Chiuso, il frate è in restauro”. |
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Questa sua capacità di reagire con tanta positività qualcuno la classificò come spavalderia, ma si sbagliava; lui sapeva fin troppo bene che la tristezza è una belva che ne porta con sé una peggiore: la disperazione e padre Raffaele lottava con la prima per non dover poi lottare con la seconda.
Nonostante le restrizioni, a volte, un intero gruppo di persone guadagnava la porta di Raffaele, ed entrava esuberante nella stanza. Quindi, si chiudeva la porta e incominciava a bassa voce un dialogo costruttivo, per poi ascoltare, ascoltare, p. Raffaele
Le ore passavano e a volte si arrivò fin dopo che la ronda aveva cominciato il suo giro. Cosa faceva la
ronda in quei casi? Passava oltre, e infine, raccomandando che nessuno facesse rumore, accompagnava il gruppo all'uscita dell'ospedale.
Non deve meravigliare questa adattabilità della ronda, perché anch’essa, spesso, si prendeva il privilegio di fare una capatina dal padre, con la scusa di andare a vedere se avesse bisogno di qualcosa. Del resto l’ordine non poggiava sulle suore? Padre Raffaele sempre, però, fece capire loro che non voleva attenzioni speciali.
Ma, non solo benefici spirituali venivano dati nella stanzetta, poiché è testimoniata anche un’intensa attività caritativa. Infatti, tutto quello che gli veniva portato finiva ai bisognosi. C’era chi avrebbe preferito che tenesse le cose per sé, ma p. Raffaele, da buon francescano, seguiva un rigoroso programma di spogliazione. |
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Un fatterello ci illumina su come fosse radicale questo suo comportamento. Una ricca signora, dopo essersi spazientita per il fatto che i rosari che portava da Lourdes e che offriva a p. Raffaele fossero da lui, regolarmente, dati ad altri, ne portò uno benedetto da Pio XII e, per garantirsi che il padre non lo regalasse, lo fissò al letto mediante un lucchetto. La buona signora pensava che il valore della benedizione papale e il lucchetto finalmente avrebbero avuto ragione di quella tendenza irritante a disfarsi delle corone che gli portava. Quando però ritornò, vide che né la benedizione papale né il lucchetto avevano impedito a p. Raffaele di rimanere fedele ai consigli di san Francesco, pienamente approvati dai Papi. |
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Prove della sua fedeltà a Cristo ne diede molte all’ospedale, quando, senza alcuna preoccupazione di perdere la popolarità, diceva chiaro e tondo che certi comportamenti non erano secondo Dio.
Chi lo avvicinava avvertiva subito come, dottrinalmente, fosse un blocco: per lui c’era innanzitutto la verità, non le problematiche sulla verità, ed era pronto a pagare di persona, quando si trattava di difenderla.
In questi casi il male, però, sapeva organizzarsi, ed egli così si rendeva conto della povertà del suo essere e di quanto tutto il genere umano sia nelle braccia della misericordia di Dio: tutto quello che egli doveva fare era di unire il suo sacrificio a quello del Maestro; in questo pensiero riprendeva il suo sorriso.
Agli occhi esperti dei frati, che lo venivano a visitare dal SS. Redentore - convento cappuccino di Venezia e sede dello studentato - una cosa destava meraviglia: la sua apertura, la sua libertà nel rapporto con le persone. Appariva loro come un frate che schiantava le staticità comode. Gli studenti erano però quelli che, più di tutti, comprendevano il valore di quel frate che, esperto nel dolore e pellegrino negli ospedali, faceva brillare ai loro occhi il francescanesimo.
Le persone semplici rimanevano poi edificate dal suo comportamento evangelico, che non faceva distinzione di persone: esse, oggi, non esitano a dire che p. Raffaele ha preceduto il Vaticano II. P. Raffaele non era lo stoico chiuso in se stesso, che supera il dolore perché lo odia, ma era il seguace di Cristo che vince perché guarda all’Amore crocifisso, che ha dato un senso insospettato al dolore. Da questo discende tutta la sua fecondità. |
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Il resoconto del mese di maggio che predicò nel 1960 nella chiesa dell’ospedale, scritto nel registro della fraternità dei padri cappellani, ci dà la misura di questa fecondità: “Si dà inizio al mese di Maggio. Quest’anno, su mia preghiera, affidai la predicazione del fioretto a p. Raffaele da Mestre, cappuccino, qui degente da molti anni: ne fu felice! E’ da appena 15 giorni rialzato, dopo averci aiutato nelle cerimonie e nella spiegazione delle cerimonie della settimana santa, s’è assunto questo impegno per amare e onorare la Madonna. Non mi sono sbagliato. Fino a tutt’oggi al fioretto la chiesa è piena, stipata di fedeli.
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Molti devono astenersi, perché non trovano posto a sedere.
Il fioretto viene trasmesso per radio a tutti i padiglioni e si
può vedere con quanta attenzione viene ascoltato il predicatore
per le diverse corsie. Sono sicuro di una così mirabile
corrispondenza per tutto il mese”. |
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Non solo dall’altare p. Raffaele fece sentire lo spirito del Signore, compose anche alcune commedie da recitare in teatro, al fine di offrire una buona parola e tanto buon umore ai degenti. Già a Gaiato la sua carità si era impegnata al servizio del buon umore, e a Venezia vi si prodigò pienamente: ce n’era davvero bisogno tra quei malati che rimanevano all‘ospedale per anni!
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Sapeva poi scendere ad un apostolato umile e paziente, ad esempio si impegnò nell’insegnamento ad alcuni degenti del Lido di Venezia, portandoli fino al grado della licenza media; inoltre, si uniformò a tutti nell’eseguire lavoretti. Il suo lavoro consisteva nel fare immagini di Maria, fece anche una Via Crucis.
I cappellani non stavano per nulla con le mani in mano e promuovevano anche pellegrinaggi. P. Raffaele ne fece tre: due a Lourdes e uno a Fatima. Il primo a Lourdes fu proprio ricco di risvolti.
Il viaggio andò bene, ma quando, a Lourdes, si cercò di dare a p. Raffaele una posizione perché riuscisse a celebrare la Messa furono dolori: lo si mise a pancia in giù nella barella adeguata e, per sostenergli il capo, si usarono dei cerotti collegati ad un cavalletto.
Celebrata la Messa gli vennero tolti i cerotti e con essi anche qualche porzione di barba, con dolore di non poco conto. Nel viaggio di ritorno in una sosta per una coincidenza di treni i suoi accompagnatori lo misero sul marciapiede del binario e poi se ne andarono a ristorarsi. Passò un po' di tempo, poi altro ancora, fino a che p. Raffaele in barella, finì per sentirsi dimenticato e privo di assistenza, ma anche quella situazione passò. Quanto alla barba, era proprio meglio tenersela. |
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