“SOFFRIRE, SEMPRE SOFFRIRE!”
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Fra Raffaele venne ordinato sacerdote il 22 dicembre 1945, a Modena: da quel momento divenne padre Raffaele.
Aveva desiderato con tutte le forze di essere sacerdote. Ora gli stava dinanzi il compito di animare il suo sacerdozio con un grande amore a Cristo. Così scriveva, un anno dopo l’ordinazione, in una cella del convento di Pontremoli, dove era stato trasferito con l’incarico di insegnante presso la sezione del collegio Serafico: “Ora, un anno dopo, la vita prende un altro aspetto, vivo in pieno la rinuncia fatta, ma ormai non mi sento più di chiamarla con questo nome; sento e vedo che il mio essere non si sazierebbe più della gioia della carne, della poesia del cuore, delle grandezze e degli onori della scienza. Non mi basta l’essere frate e l’essere sacerdote… non sono per
‹essere›, ma per amare”. |
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Tutto è bello nel convento di Pontremoli; la sua posizione collinare lo valorizza come ambiente di distensione e di preghiera. Il fronte del convento si affaccia in alto sul paese; il retro, invece, si apre su di un ampio recinto alberato. L’unica nota stonata è la ferrovia, che passa tra il convento e il paese: ma questa viene facilmente dimenticata.
A Pontremoli, p. Raffaele non poté che assolvere saltuariamente il compito assegnatogli, perché presto si trovò costretto per lunghi giorni a letto. |
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L’anamnesi della cartella clinica dell’ospedale al Lido di Venezia, nel quale sarà ricoverato per lunghi anni, ci dà notizie precise sui dolori che ebbe a Pontremoli: “Fin dal 1946 cominciò ad avvertire dolori al rachide che, attribuiti a lombo artrite prima, a neurite poi, furono curati come tali. I dolori, talvolta così forti da farlo vaneggiare, si attenuarono, ma si irradiarono all’arto inferiore, che nel 1948 cominciò a tumefarsi”.
Così ammalato, era costretto a letto ma, appena poteva, sostava lungamente in coro, accanto al suo Signore sacramentato. Si immergeva profondamente nell’orazione e, alle volte, la gioia del cuore era tanta, che sentiva il bisogno di ringraziare, nel canto, Maria; ringraziarla per essere entrata nella sua vita. |
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“Stavo avviandomi per un sentiero, mi hai messo mano sulla spalla
mi hai detto dolce:
Non puoi, tu sei mio!
Torno!
E voglio chiudermi tutto in questa frase:
Sono tuo, e tutto ciò che è mio
è esclusivamente tuo”. |
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Provava allora un senso di libertà, che gli faceva superare le espressioni accorate, dette nello sconforto: “Soffrire, sempre soffrire, nel fior della vita, nella pienezza delle forze…, inchiodato in un letto…, abbandonato a me stesso”.
Nella sua condizione di ammalato, non potendo adempiere al suo compito di insegnante, fu causa di disagio nell’organizzazione delle lezioni. Se poi pensiamo al fatto che le diagnosi sul suo male erano incerte, si può capire come qualcuno arrivò a mettersi in atteggiamento di incomprensione. “Sei
ammalato nella testa!”, gli venne detto. Si definiva, umilmente, un emotivo e un passionale; invece, era il suo stato di debilitazione che lo portava ad una forte reattività. Così rifletteva nei suoi appunti personali: “La mia umanità è nello stato più miserabile: sento che |
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l’ipersensibilità ha talmente fuso anima e corpo che ogni impressione di quella si ripercuote totalmente in questo; ogni sensazione che questo prova penetra e fa fremere tutta l’anima. In questo stato si diviene ipersensibili in tutto, specialmente nel cuore”. Nel silenzio della stanza, guardando l’ombra addolorata del Crocefisso prodotta dalla lampada, scriveva questi appunti: “Mi sento oppresso dal dolore fisico…, che indebolisce sensibilmente tutto il mio morale… Insonnia, inedia, il tempo, tutto sembra schiacciarmi. E sono solo… sono solo. Mille progetti…, mille pensieri mi rendono ancora più solo nel mio dolore! E Maria, la mia Mamma, oh! quasi la fuggo, la sento lontana, mi sento tanto solo senza di Lei!”.
Poi si riprendeva e, fissando il suo pensiero su Maria, pieno di conforto, scriveva: “Sono partito dal principio: nell’amor di Maria avrò ogni bene; poi questo, di conseguenza, si è evoluto in un altro principio: io, per amare Maria, debbo anzitutto lasciarmi amare da Lei…; poi, sempre da Lei guidato, ho detto: Mi lascerò portare, per darle la gioia di sfogare il suo materno amore!”. |
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“MISTERIOSA GUARIGIONE DALLO SCRUPOLO” |
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La Provincia
cappuccina di Parma, in quegli anni, si stava orientando verso
il servizio ad un santuario mariano. In un primo momento, il
ministro Provinciale si rivolse al santuario della Madonna della
Battaglia di Quattro Castella, presso Reggio Emilia, che,
piccolo e sperduto in collina, forniva anche, in quel momento di
turbinio, una garanzia di rifugio. Lì vennero inviati, quali
pionieri, quattro frati, fra i quali p. Raffaele. La loro
presenza, però, durò poco, perché la Provincia non poté ottenere
in gestione il santuario. |
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Il p. Provinciale
rivolse, successivamente, l’attenzione al santuario della
Madonna del Castello di Vergaro di Piacenza; al santuario della
Fossetta di Novellara; al santuario della Madonna della Pieve e,
finalmente, al santuario della Madonna della Salute di Puianello
di Modena, dove la Provincia cappuccina poté vedere realizzato
il desiderio di un piccolo santuario mariano dalle proporzioni
francescane. La ragione dell’interessamento così premuroso da parte della Provincia cappuccina, per ottenere un santuario mariano, si doveva, oltre che alla devozione dei figli di san Francesco, all’imponente magistero di Pio XII che, con insistenza, presentava Maria alla coscienza ecclesiale.
Nel breve soggiorno al santuario della Madonna della Battaglia, che cominciò nel giugno del 1947, p. Raffaele trovò un terreno estremamente denso di stimoli alla vita francescana delle origini.
Prima però degli slanci apostolici, quel santuarietto aveva bisogno di generosa dedizione, di grande spirito di preghiera e di sacrificio. Lontano com’era da tutto, solo se vi si realizzava una vita di altissima spiritualità francescana il santuario poteva assumere il compito di centro di attrazione e poi di diffusione evangelica. Il pensiero dei superiori era stato questo: “Mandiamo là quattro pionieri, tra questi un giovane sacerdote, che ama la Madonna con straordinario fervore”. |
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In questo periodo p. Raffaele segnò con cura una data: 25-3-1948. In tale data frequentava a Parma un corso pastorale. Accanto alla data, c’è scritto: “misteriosa guarigione dallo scrupolo”.
P. Raffaele era entrato nell'antro degli scrupoli. Aveva scrupolo di mangiare troppo e troppo bene, di fare pochi sacrifici. Così il pane lo lasciava seccare nel cassetto del suo posto a tavola, e solo secco lo mangiava; e altre cose.
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La misteriosa guarigione avvenne mentre era in sagrestia a prepararsi per la Messa. Stava mettendo l'ostia sulla patena quando una luce interiore, profonda, lo liberò dal male degli scrupoli. Quel giorno andò a tavola e cominciò a mangiare. Il confratello che gli era vicino gli disse, sorpreso e contento: “Raffaele, stai mangiando!”. Ormai l’invito di Cristo (Lc 9, 23) “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” gli si presentava liberante.
La Vergine Santissima l'aveva introdotto nell’aspetto positivo della sequela di Cristo.
Nel Trattato del Grignon de Montfort, al n. 215, si legge: “La Madre del bell’amore toglierà dal tuo cuore ogni scrupolo ed ogni timore servile irragionevole: lo aprirà e lo dilaterà, perché corra nei comandi del suo Figliolo con la santa libertà dei figli di Dio”. |
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“IL SIGNORE MI HA PIEGATO” |
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Terminato il corso di pastorale, p. Raffaele venne invitato a far parte del gruppo di predicatori che organizzavano le Peregrinatio Mariae, promosse dal Vescovo di Reggio, mons. Beniamino Socche. |
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La speranza del Vescovo era di far sì che Maria fosse accolta dai cristiani con piena apertura, secondo le direttive del pontefice Pio XII che, in data 14-1-1945, aveva rilasciato queste parole: “La devozione mariana non può essere dunque una pietà meschinamente interessata, la quale non vede nella potentissima Madre di Dio che la distributrice dei benefici, soprattutto di ordine temporale, né una devozione di sicuro riposo, che non pensa se non a rimuovere dalla sua vita la santa croce degli affanni, delle lotte, delle sofferenze; né una devozione sensibile di dolci consolazioni e di manifestazioni entusiastiche; e neanche - per quanto santa possa essere - una devozione troppo esclusivamente sollecita dei propri vantaggi spirituali. Uno che sia veramente figlio di Maria deve essere agli ordini di lei in tutto, deve fare il custode, il difensore del suo Nome, delle sue eccelse prerogative, della sua causa, portare ai suoi fratelli le grazie e i celesti favori della loro Madre comune, combattere senza tregua al comando di colei che cunctas haereses sola interemit in Universo mundo”.
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Le Peregrinatio
erano state scelte come mezzo efficace di preghiera e di
predicazione, e consistevano nel portare, parrocchia per parrocchia, le immagini mariane dei vari santuari. Allo scopo si usava una jeep, facile a trovarsi nell’immediato dopoguerra. Ogni Peregrinatio si concludeva con la consacrazione delle varie comunità a Maria.
L’esperienza pastorale della Peregrinatio era allora la più clamorosa e la più riuscita: fu fatta ovunque, in tutte le diocesi e in tutte le parrocchie, con movimenti impressionanti di masse popolari. Questi successi, come è facile comprendere, davano grandi speranze; ma a chi misurava il tutto alla luce della Croce non sfuggiva il fatto che le voci che si innalzavano a Maria erano troppo insistenti nella domanda e poco nell’offerta. Le Peregrinatio insistevano, perciò, nell’esortare i fedeli all’offerta di sé; per questo terminavano con la consacrazione a Maria, ed era previsto un successivo lavoro per aiutare a vivere l’impegno, assunto nella consacrazione.
Ma, il 1948 era anche un anno in cui le passioni politiche divampavano. Si diceva che i rossi avevano eretto pali per impiccare preti e frati. In tale contesto p. Raffaele si trovò a percorrere una strada di campagna, mentre un uomo lo tallonava. P. Raffaele continuava a camminare spedito, poi giunto su di un ponticciolo si voltò di scatto verso quell'uomo e, a pugni chiusi, gli disse: “Vuoi che ti butti da questa parte o da quest'altra?”. Quell'uomo non se l'aspettava un frate di quel tipo e fece marcia indietro. Parlando un giorno di questo episodio p. Raffaele concluse: “Il Signore mi ha piegato, dopo…”.
Per un mese intero p. Raffaele si prodigò a pieno ritmo nella predicazione e nelle confessioni; poi, accadde un incidente che segnò l’inizio di un itinerario di ospedale in ospedale, intervallato da ben pochi soggiorni nei conventi.
Era il giorno dell’Ascensione del 1948 e, trionfalmente, si stava svolgendo una Peregrinatio a S. Martino in Rio. P. Raffaele si trovava sulla jeep che portava l’immagine mariana quando, a causa di un incidente, cadde nella scarpata laterale, riportando lesioni alla colonna vertebrale e ferite al ginocchio e al piede sinistro, Le notizie della cartella clinica dell’ospedale al Lido di Venezia segnalano che, al momento dell’incidente, la gamba sinistra era già minata dalla malattia.
Erano passati solo tre mesi dalla liberazione dal peso dello scrupolo, ed eccolo di nuovo sotto il peso di una grande croce. Da quel giorno la sua situazione fisica apparve molto grave e, alla fine del 1949, si diagnosticò per p. Raffaele la tbc ossea. Fu ricoverato nella Casa di Riposo di S. Martino in Rio.
La Madonna, così, lo sottraeva bruscamente al suo mandato di predicatore, evidenziato a tutti dal distintivo che il Vescovo aveva consegnato all'equipe delle Peregrinatio. P. Raffaele si sentiva fiero di quel distintivo e lo portava anche in convento. In seguito, però, commentò così quella piccola ostentazione: “Che superbia!”. Fermo nel lettuccio, dolorante nella colonna vertebrale e nel ginocchio, dal quale estrassero 60 cc. di liquido, si mise pian piano a rafforzare il suo spirito nella meditazione del mistero della Croce.
Gli risultò chiarissimo che la sua fecondità sacerdotale, a cui mai per nessuna ragione avrebbe rinunciato, doveva avere radici solo nell’umiltà, nella preghiera e nell’immolazione. Era agile e sereno a cogliere tutto ciò: era chiamato da Maria a vivere il Cristo povero, umile e crocefisso. Per lui non si trattava più di affrontare un'infermità, ma di vivere nell’infermità.
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“MA POI CI SI SENTIVA BENE” |
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Una volta ristabilito, i superiori lo reinserirono nel progetto di sviluppare un’attività mariana presso un santuario. Il santuario era quello della Madonna della Salute di Puianello.
Nel 1948, quando p. Raffaele vi giunse, il santuario non si presentava come oggi. L’abitazione era quasi inagibile, piena di fessure a causa degli spostamenti d’aria dei recenti bombardamenti. Si stavano, tuttavia, eseguendo degli importanti lavori, per rendere funzionante il santuario, che passò definitivamente alla Provincia cappuccina di Parma nel 1954. |
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Proprio nei giorni dell’arrivo di p. Raffaele venne inaugurato il viale-gradinata che, con 174 gradini, conduce al santuario. Era stato pure ultimato il grande parcheggio. Chi aveva finanziato i lavori? Nessuno! Tutto era stato fatto gratis. La retribuzione che i frati potevano dare, infatti, era un secchio di vino, che veniva distribuito con un mestolo. Le poche suppellettili per l’abitazione dei frati, che si presentava agli occhi di chiunque come una topaia, erano state donate dalla popolazione; la cella di ogni frate faceva sfoggio di un saccone di paglia e nient’altro.
Lassù, a Puianello, si respirava l’aria dell’epopea francescana di Rivotorto, e questo toccò subito lo spirito di p. Raffaele, che, come nel soggiorno al santuario della Madonna della Battaglia, vide la mano di Maria, che lo conduceva nel più profondo del francescanesimo. Lassù aveva tempo per lunghi isolamenti, perciò, nelle giornate calde primaverili ed estive, si perdeva nella pendice est, solenne nel suo silenzio. All’ombra di qualche alberello, leggeva gli scritti di san Francesco, per trarne revisione di vita e stimolo a procedere. |
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Amava poi stare nella stanzetta a meditare e a pregare.
Sempre p. Raffaele ha amato la cella monastica: la considerava non tanto un luogo di riposo, quanto un luogo di preghiera. Certo che, durante l’inverno, non era facile restare nella stanzetta ghiacciata; eppure vi restava. L’unica fonte di calore era un grosso camino, situato nel locale al piano terreno, che ora funge da sala di rappresentanza. Il camino però oggi non c’è più. Momenti bellissimi di intimità fraterna si svilupparono nell’eroica fraternità, quando la sera, dopo Compieta, i frati di scaldavano alla fiammata di una fascina, per correre poi, caldi, nel giaciglio.
Avvolto in quel clima francescano, p. Raffaele non badava molto alla sua salute e, in particolare, alla gamba malferma.
Così accadde che diverse volte fece a piedi la salita che da Levizzano va al santuario, arrivando alla cima dolorante. Quando un giorno gli accadde di raccontare questo particolare, concluse: “Ma poi ci si sentiva bene” |
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Oltre l’aria, che certamente aiutava p. Raffaele per la sua passata pleurite, c’era, come si è visto, ben poco al santuario che avesse il sapore di comodità. Così, quando le sue condizioni si rivelarono gravi, per l’avanzare della tbc ossea, che fu diagnosticata come tale solo al comparire di segni inequivocabili, fu chiaro che egli non poteva più stare al santuario.
Fu la moglie del medico condotto di Levizzano che, impietosita, volle ospitarlo, come primo provvedimento, in casa propria, così che potesse ricevere una continua assistenza dal marito.
Rimase a Levizzano per due mesi; poi divenne inevitabile il suo ricovero in ospedale. L’ospedale fu quello al Lido di Venezia, specializzato nei casi di tbc. |
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