“IO SENZA LA MADONNA NON CI POSSO STARE”
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Di nuovo il Maestro volle sapere come procedeva quel sorprendente novizio. Ed ecco, davanti a lui, fra Raffaele: “Padre Maestro, io senza la Madonna non ci posso stare”. “State attento, fra Raffaele, che non ci salti fuori un Lutero!”. Terribile frecciata, terribile e ingiusta, per l’inesattezza: Lutero mai sarebbe caduto, se si fosse dato a Maria.
Fra Raffaele uscì ferito, senza respiro; andò in coro e si mise a pregare a denti stretti, per dominare l’acutissimo dolore interiore. Terminò la preghiera con il proposito di continuare a rimanere con Maria.
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Gli scritti di sant' Alfonso gli davano, del resto, più che sufficiente appoggio per sentirsi inserito nella tradizione ecclesiale.
Intanto, un nuovo pensiero passò per la mente del padre Maestro: Il novizio non si era ingannato: la sua strada era autentica, però il tutto doveva spiegarsi con una rivelazione straordinaria che il novizio poteva aver avuta. “Mettetevi in ginocchio, fra Raffaele. Ditemi, voi avete delle rivelazioni?”.
“Padre Maestro, ho solo capito che la Madonna è mia Madre”. Il padre Maestro dei novizi finalmente si rassicurò e gli diede la sua approvazione. Ma perché tante difficoltà? Probabilmente il Maestro temeva che il suo novizio fosse sulla strada di un sentimentalismo poco illuminato.
Comunque, si può anche pensare che nel Maestro dei novizi ci fosse una certa impreparazione circa la devozione alla Madonna, anche se l’illuminante parola di sant' Alfonso de’ Liguori nel suo volumetto “Le glorie di Maria”, pieno di citazioni di autori francescani, era ben presente nelle biblioteche conventuali, mentre il trattato “Della vera devozione a Maria” del Montfort entrò nei conventi solo alla fine dell’anno del noviziato di fra Raffaele.
Queste alcune delle notissime citazioni francescane del libro “Le glorie di Maria”, che guidarono e formarono fra Raffaele:
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- San Bernardino da Siena (Tom I, serm. 5): “Allora Maria fu fatta Madre non solo di Giovanni, ma di tutti gli uomini”.
- San Bernardino da Siena (Tractatus de Beata Virgine Maria, serm. 6): “Allorché la santissima Vergine all’annunciazione dell’angelo diede il suo consenso che il Verbo eterno da lei aspettava per farsi suo Figlio, nel dare questo consenso, sin da allora domandò a Dio con affetto immenso la nostra salute, e talmente si pose a procurare la nostra salvezza che, sin da allora, ci portò come amorosissima Madre”.
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- San Bonaventura (Stim. Div. Amoris, p.3, c.14): “Se il mio Redentore per le mie colpe mi distacca dai suoi piedi, mi butterò ai piedi della sua Madre Maria, ed ivi prostrato non mi partirò, fintanto che ella mi ottenga il perdono”.
- San Bonaventura (Serm. 74 de nat. Dom.): “Come la luna sta in mezzo al sole e alla terra, e quel che dal sole riceve lo riflette alla stessa, così Maria riceve le celesti influenze dal sole divino per trasfonderle a noi su questa terra”.
- San Bernardino da Siena (Serm. 61, Tractatus Virginis, c.6): “Dal tempo che questa Madre concepì il Divin Verbo, ha acquistato, per così dire, una ragione speciale sui doni che a noi procedono dallo Spirito Santo, in modo che niuna creatura poi ha ricevuto alcuna grazia da Dio, se non per mezzo di Maria”.
- Dice S. Bernardino (Tem. 3, de B.V., serm. II): “Quando Maria, arca del nuovo Testamento, fu innalzata ad essere Regina del Cielo, restò allora indebolita ed abbattuta la potenza dell’inferno sopra gli uomini”.
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Finita la durissima prova, per fra Raffaele la permanenza nel noviziato, scandita dai rintocchi dell’orologio a pendolo, scorse sul binario delle normali difficoltà della crescita spirituale, alle quali faceva fronte con una scrupolosa osservanza dei consigli del suo confessore a una pronta obbedienza alle indicazioni del Maestro.
A fra Raffaele piaceva stare in cella a leggere e a scrivere appunti delle sue meditazioni; ma al padre Maestro la cosa non piaceva, temendo che fra Raffaele, in futuro, divenisse un
topo di biblioteca. Si mise perciò all’opera per contrastare quel pericolo; così a fra Raffaele toccarono lunghe ore di vanga nell’orto.
Il padre Maestro non mancava di certo nel suo compito di saggiare i novizi, anzi era animato dalla forte speranza di vedere un giorno un suo novizio raggiungere le alte vette della mistica.
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Una delle prove che aveva sperimentato più efficaci, era quella di umiliare, davanti a tutti, il novizio che, a turno, serviva la Messa.
La cosa avveniva in questo modo: appena il padre Maestro vedeva il novizio distratto o men che sollecito nel porgere il piattello della Comunione, glielo prendeva dalle mani, dicendo: “Non sapete far nulla”. Il piattello, già molto ammaccato, volava per terra. Al povero novizio non restava che l’umiliazione cocente di andare a raccoglierlo davanti a tutti.
C’era però ampio spazio per l’allegria, nel noviziato: guai ai musi lunghi!
Inutile dire che quei giovanotti, quando entravano in refettorio, avevano una fame da lupo, e che si dovevano non poco accontentare quando, nei periodi penitenziali, la mensa non prevedeva alcuna abbondanza.
Tutto, nel noviziato, chiamava a grandi imprese; ma a fra Raffaele, invece di predicare il fuoco, era meglio predicare la moderazione: si diede infatti a tanta penitenza che si ridusse all’esaurimento e, con l’esaurimento, subentrarono gli scrupoli, spinti fino all'esasperazione. Quando emise i voti semplici, al termine del noviziato, era soffocato dal clima di rinnegamento, fatto senza alcun respiro, nel quale si era chiuso.
Così, anni dopo, p. Raffaele, in una sua nota, sintetizzò quel suo stato: “Assurdo passaggio alla mistica, passando per un esercizio puramente esterno e soffocante. La fede non si sviluppa, anzi, caricandosi di assurde complicazioni, si perde nell’antro dello scrupolo”.
Fra Raffaele, da poco incamminato lungo la via della perfezione, viveva con impegno l'invito di Cristo a rinnegare se stesso e a seguirlo portando sulle spalle la sua croce, ma era portato a fissarsi, con estremo rigore, più sul primo punto (rinneghi se stesso), pensando, nel suo stato di scrupolo, che la sequela a Cristo si attuasse con uno
stress ascetico senza respiro. La sequela, e questo è il punto, poggia invece non solo sull’aspetto negativo della mortificazione, ma anche (e principalmente) sull’esercizio positivo dell’essere in Cristo, che è qualificato dalla tradizione francescana come “imitazione di Cristo”.
Imitare Cristo è seguirlo lungo la strada della croce, ma questa è luce e, quindi, libertà d’amore. In Giovanni (8,12) si legge infatti: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre”. Il termine ultimo della sequela, che è anche il termine primo di ogni inizio spirituale, è poi l’unione con Cristo.
S. Paolo, poi, nella lettera ai Galati (2,20) esprime con queste parole la realtà dell’unione con Cristo: “Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.
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“LEGGEVO LE VITE DEI SANTI” |
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Fra Raffaele
passò, dopo il noviziato, al convento di Parma, per il primo
anno di liceo; poi andò al convento di Piacenza per il secondo e
terzo anno. Sperava di riuscire a superare il problema dello
scrupolo, ma questo continuò ad appesantirlo. Passò poi allo
studendato di teologia nel convento di Reggio Emilia. Così
tratteggiò, in seguito, la sua posizione spirituale di quegli
anni: “L’osservanza regolare era soltanto una vana abitudine
esterna e un puntello per non crollare. |
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Il problema di uscire dal cerchio soffocante dello scrupolo assorbiva tutto e inaridiva ogni altra iniziativa e ogni slancio”.
Queste sue parole, però, vanno soppesate alla luce del rigore col quale si esaminava, poiché veramente fra Raffaele non compariva all’esterno come un isolato.
Apparteneva anzi ad una piccola iniziativa spirituale, sorta nello studentato, alla quale faceva capo una decina di studenti, che si chiamava “Milizia dell’Immacolata”, e che si proponeva di vivere sempre alla presenza di Gesù e Maria.
A Reggio Emilia, la sua mortificazione era ancora singolare, se chi si metteva con lena sulla via serafica si sentiva dire: “Fai il Raffaele?”.
Nello studio procedeva bene; anzi, voleva far confluire lo studio nella preghiera. Avvertiva, infatti, che rimanendo solo all’erudizione, senza mirare all’unificazione nella fede, gli si raffreddava lo slancio dell’ascesi.
Era stato chiamato alla scuola di S. Francesco, che raccomandava ai frati di fare convergere tutto nell’orazione, perciò si impegnò a rimanere ancorato strettissimamente alla parola del Vangelo, utilizzando la filosofia e la teologia per coglierla in profondità.
Per attuare questa unificazione nel Vangelo, e quindi in Cristo, si esercitò assiduamente alla lettura delle vite dei Santi, specie di quelli francescani.
A distanza di anni, non ebbe che da ringraziare il Signore di questo suo orientamento: ”Altri seguivano diversi interessi; io leggevo le vite dei Santi”.
Ormai era vicino ai voti solenni, con i quali avrebbe sancito la sua appartenenza a Dio nella vita religiosa. Aveva una grande poesia nel cuore, un entusiasmo che si comunicava agli altri e dagli altri si alimentava. Certamente aveva ancora tanta strada da fare, ma gli sembrava di essere a buon punto, in ogni caso si sentiva nelle condizioni di portare a termine, senza ripensamenti, quella vita. |
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Si sentiva poi un penitente, che doveva espiare le mancanze giovanili. Così i voti gli si presentavano non solo come un’occasione di offerta, ma anche come un dono della misericordia di Dio: sapeva, infatti, che la consacrazione religiosa ha la capacità di rinnovare gli impegni battesimali e quindi di farne rivivere gli effetti.
Il 4 giugno 1943 fece la professione solenne e fu per lui una svolta profonda.
Per fra Raffaele tutto era in pace e, con la pace, egli cercava di guadagnare nuovi traguardi per accordare natura e grazia, poggiando sull’assunto che la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona, purificandola ed elevandola.
Dopo qualche mese, però, si ammalò.
Gli eventi bellici avevano nel frattempo consigliato il trasferimento dello studentato da Reggio Emilia al convento di S. Martino in Rio.
La guerra però giunse anche là: un pomeriggio, mentre gli studenti facevano un po’ di riposo, vennero lanciati tre ordigni contro l’edificio. La potenza delle bombe era tale che avrebbe potuto radere al suolo tutto l’edificio; invece, ciò non accadde poiché esplosero di fronte a un muro di cemento. Nel dormitorio tutto venne messo a soqquadro. In mezzo a quello sconquasso, la Madonnina, che poggiava su un piastrino al centro dello stanzone, rimase ferma. |
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Un frate, che stava seduto su un giaciglio con le spalle appoggiate al muro, vide il suo capo circondato da una corona di schegge conficcate nella parete. Veramente la Madonna vigilava su quei figli che, da lì a poco, sarebbero stati ordinati sacerdoti. Fra Raffaele era presente e si riconfermò nel suo amore a Maria.
L'esperienza di una tale assistenza della Madonna gli suggerì il convincimento che se Maria avesse voluto, avrebbe potuto guarirlo, e se non lo avesse fatto, ciò aveva un solo significato: per lui era meglio la malattia.
La diagnosi della sua malattia fu pleurite bilaterale essudativa, alla quale, in breve tempo, seguì la peritonite. Così, in concomitanza con il trasferimento dello studentato da S. Martino in Rio a Scandiano, fra Raffaele venne ricoverato, il 22 maggio 1944, nell’ospedale di quella città.
Il suo primo apostolato, fatto di poche parole, di brevi esortazioni, lo svolse in un ospedale. |
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“LEI FACCIA LA SUA PARTE, E IO FACCIO LA MIA” |
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Il 21 aprile del 1945 l’ospedale venne attraversato da un brivido di gioia incontenibile: era il giorno della liberazione, la fine della guerra. Restavano le immani macerie delle città e il dolore di tanti cuori, ma si apriva un tempo di pace e, con la pace, la speranza di un mondo migliore.
Quel giorno fu pieno di propositi nuovi e fermi. La gente si voleva bene: era festa. Ma quanto sarebbe durata? Senz’altro ben poco, se non si affidava il dono della pace a Dio, e se non si superavano gli scoraggiamenti e le invidie, provenienti dall’arraffamento di beni materiali, che subito si produsse.
Quattro anni prima era stato reso noto dall’autorità ecclesiastica il secondo segreto di Fatima, che avvertiva che, se non si fosse fatta penitenza, sarebbe subentrata una seconda guerra mondiale, e ancora dolori per il futuro. Alla luce di quel documento profetico, risultava chiaro a tutti che, per evitare ogni futuro triste, era necessaria una vita di penitenza e di impegno a trasformare i costumi. A fra Raffaele non sfuggivano queste cose. Anzi egli era in piena sintonia con lo sforzo della Chiesa, che presentava Maria quale segno di speranza.
La malattia lo lasciò in questo clima di esultanza per la liberazione. Poi, convalescente, andò nella “Casetta di S. Giuseppe” dei cappellani cappuccini presso il sanatorio di Gaiato, a 5 km. da Pavullo nel Frignano. Il sanatorio era formato da due grandi edifici: uno privato e l’altro provinciale. La “Casetta di S. Giuseppe”, appartenente alla Provincia cappuccina di Parma, si trovava accanto al sanatorio, ad uso dei frati malaticci. Il superiore della “Casetta” era anche il cappellano del sanatorio.
L’ospedale, con le sue possibilità apostoliche, attirò ben presto fra Raffaele, che non perse tempo a mettersi in dialogo con i malati, specie con quelli lontani dalla fede. |
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In quel sanatorio era ricoverata una suora: Maria Rosa Pellesi, della Congregazione delle Suore Missionarie di Cristo. Tra consacrati non c’è bisogno di tanti preamboli; così Raffaele e suor Maria Rosa cominciarono a orientare le loro energie per il bene dell’ospedale. Suor Maria Rosa aveva 28 anni, fra Raffaele 23.
Il mezzo per aiutare i degenti? La preghiera e l’immolazione. Suor Maria Rosa era un’anima veramente generosa e, quando c’era da convertire qualche peccatore, il Signore non la risparmiava: molte volte si trovò quasi in fin di vita. Chiedeva a fra Raffaele che, quando era così prossima a morire, venisse accanto al suo capezzale a recitare il Magnificat. |
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Da parte sua, fra Raffaele non era da meno, e pur senza gli stati di debilitazione di suor Rosa, era ben pronto a fare la sua parte: “Suor Maria Rosa, lei faccia la sua parte, e io faccio la mia”.
Convinto poi che non bisognasse avvicinare i degenti mediante schemi rigorosi e impacciati, fra Raffaele si mise ad organizzare dei cori serali con gli ammalati, ai quali partecipava anche la suora. Quei cori, pieni di allegria, terminavano regolarmente nella preghiera.
Tra i due generosi di Cristo non poteva non maturare il desiderio di legarsi spiritualmente con un accordo. Così, con semplicità e rimettendo ogni cosa a Dio, si dissero che il primo dei due che fosse morto sarebbe andato a prendere l’altro dal cielo. Questo era un modo di impegnarsi nella preghiera reciproca, chiara espressione di un legame profondo. |
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