PRESENTAZIONE
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Il padre Raffaele era appena volato al cielo, il 5 dicembre 1972, che da molti e da diverse parti giunsero al santuario della Madonna della Salute richieste di una sua vita. Pur condividendo in pieno tale desiderio, si pensò fosse meglio lasciare decantare nel tempo la memoria dell’amato confratello. Ora che col passare degli anni questa, anziché diminuire, s'è resa sempre più viva, si è pensato di dare risposta a quella giusta attesa.
Circa un anno fa, ho proposto al padre Paolo Berti di scrivere la vita del padre Raffaele. Egli accettò, poiché l’aveva conosciuto e amato, e forse, anche per disobbligarsi di un debito di riconoscenza personale, che gli doveva, per essere stato da lui aiutato a farsi Cappuccino.
Il padre, giustamente, prima di prendere la penna, si è imposto un attento esame degli scritti del p. Raffaele e un accurato studio di tutte le testimonianze depositate presso il santuario. Non solo; ma si è recato in varie località, ove il p. Raffaele era stato per motivi di salute: Bologna, Cattolica, Venezia, S. Giovanni Rotondo, ecc., sia per raccogliere altre testimonianze, sia per verificare quelle acquisite.
Frutto di questa intensa ricerca e studio amoroso è il libro che viene qui presentato.
L’autore, volutamente, tace nomi di persone e di luoghi e dati agiografici, non assolutamente indispensabili, e non indugia in descrizioni poetiche, immaginifiche e sentimentali, ma con stile agile va direttamente alla sostanza e mira a darci lo spirito, o la vita intima, del p. Raffaele. Gli preme illustrare e mettere bene in luce la figura del p. Raffaele, più che la cornice del biografato; con l’intento, anche se non dichiarato, ma reale, di suscitare attorno a lui ammiratori sempre più numerosi, e, soprattutto, autentici imitatori.
Il sottoscritto, che per nove anni - 1940-49 - fu superiore Provinciale dell’indimenticabile p. Raffaele, può dire che il traguardo è stato magnificamente raggiunto.
Ragione per cui ripete, qui, un grazie cordiale e sentito al p. Paolo Berti per questa sua fatica; e prega la Vergine Santa che, per il suo innamorato p. Raffaele, lo ricompensi e lo benedica, insieme a coloro che, attratti da queste pagine, si metteranno risolutamente sulla luminosa e salvifica “Via Mariana” percorsa dal servo di Dio.
Padre Bonaventura Romani da Pavullo, cappuccino
25 marzo 1981, festa dell’Annunciazione.
"VIENI AD ASCOLTARE LA MESSA”
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“Chi è padre Raffaele?”. E’ questa la domanda che nasce spontanea a chi sale al santuario della Madonna della Salute e rivolge lo sguardo al ritratto dal volto sorridente, poggiato su una spessa lastra marmorea, che porta scritto un nome: padre Raffaele.
I registri civili riportano, circa l’identità del nostro Cappuccino, questi dati: Ferruccio Spallanzani, nato a Mestre il 15-3-1922 da Noè Spallanzani e da Argia Bergamini.
Questa differenza di nome, che può sorprendere qualcuno, è dovuta ad una tradizione cappuccina, che, volendo sottolineare il passaggio dal secolo alla vita religiosa, imponeva il mutamento del nome e, invece del cognome, voleva l’indicazione del paese di origine. Così, nei registri della Provincia cappuccina si legge: padre Raffaele da Mestre.
Nato a Mestre, p. Raffaele è di origine emiliana: la famiglia era in quella cittadina, che allora non era affatto il polo industriale odierno, per motivi di lavoro.
La famiglia Spallanzani commerciava in formaggi e viveva in agiatezza; perciò a Mestre Ferruccio non conobbe che la spensieratezza.
Il suo temperamento si rivelò subito allegro, gioviale e dedito alle birichinate. Per questo il fatto che il Monsignore della loro parrocchia dicesse: “Avete un bambino di cui non conoscete il valore”, sorprendeva la mamma; la quale rispondeva: “Se sapesse quanto è vivace e quante ne prende da me”. Il Monsignore, però, insisteva: “La vivacità ce l’ha, ma ha anche tante qualità”. Al Monsignore non sfuggiva, infatti, che Ferruccio sostava volentieri davanti al SS. Sacramento e all’immagine della Madonna.
La mamma, dopo aver ascoltato le parole del Monsignore, cominciò a dar più peso a quanto faceva Ferruccio. Lo scoprì così nell’abitudine di baciare tutte le immagini della Madonna che trovava. Divenne poi veramente pensosa quando un giorno Ferruccio, a circa sei anni, prese un tavolinetto come altare, lo arredò di un abbecedario come messale, indossò un matinée della mamma come pianeta e disse alla sorellina: “Vieni ad ascoltare la Messa”. Con la sorellina Lia, nata il 5 ottobre 1923, doveva aver avviato un dialogo molto serio, perché la mamma, mentre sbrigava le faccende, sentì Ferruccio che diceva: “Sai, io non voglio vestiti di velluto. Quando sarò grande mi vestirò come un povero”.
Il babbo, però, non si dava alcun pensiero per queste cose. Quando la mamma gliele riferiva, diceva: “Sciocchezze senza futuro”. Era invece sorridente quando Ferruccio andava in bottega a farsi dare della roba, per donarla ai poveri di sua personale e segretissima conoscenza.
Diceva al babbo: “Dammene tanta!”, e il padre, vedendo nel figlio tanto altruismo, lo accontentava volentieri. Al sorriso del babbo, faceva eco l'aperto insegnamento della mamma. Accadeva così che, quando venivano alla porta di casa dei bambini che, con la loro madre, chiedevano la carità, Ferruccio non esitava a dare loro i suoi vestiti. La donna di servizio brontolava a tali gesti e diceva: “Non darli via che tua madre te li ha comperati ieri!”.
La mamma, quando arrivava, prendeva però le parti del figliolo dicendo alla collaboratrice familiare: “Io gli ho insegnato a fare la carità!”.
Purtroppo, non tutto era così felice in casa Spallanzani; non mancavano, infatti, momenti difficili tra i due coniugi.
Noè era un uomo dal temperamento forte, deciso, basti pensare che aveva partecipato alla marcia su Roma. Argia era di sentimenti ardenti, e non sempre si sentiva capita. Era capace di fronteggiare il marito e spesso ne uscivano dei bisticci che impressionavano Ferruccio e la sorellina Lina, comunque i due coniugi andarono avanti e dieci anni dopo, il 27 gennaio 1932, nacque il terzo figlio: Gianni. |
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"ERO UN DISCOLO"
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L’agiatezza di Mestre venne presto intaccata, perché la famiglia fu trascinata nei debiti dalla svalutazione monetaria. Il padre tentò di reagire, cercando di riprendere il commercio a Roma, dove si prospettava una situazione più favorevole. Così Ferruccio andò nella Capitale, e seguì le lezioni scolastiche presso l’Istituto Angelo Mai, tenuto da sacerdoti.
Anche a Roma le osservazioni fatte a Mestre trovarono conferma. Infatti, il direttore dell’istituto disse alla mamma: “Suo figlio ha delle qualità molto belle”.Il soggiorno a Roma fu breve, poiché la situazione economica non dava segni di ripresa e Noè ebbe problemi con la giustizia. |
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In tale situazione, mamma Argia si trasferì con Ferruccio e Lina a Camposanto, in Provincia di Modena; ma poi, nel 1933, la famiglia si ricompose a Modena, alloggiando in un appartamento ammobiliato.
La famiglia era sostanzialmente religiosa, anche se
il babbo non era praticante e aveva opinioni
contrastanti con la Chiesa, ma apprezzava la
sollecitudine che un padre Cappuccino, cappellano
all’ospedale di Modena, dimostrava al loro caso. |
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Fu questo
il contatto provvidenziale che favorì per Ferruccio
un'istruzione religiosa un pò più più solida di
quella avuta dalla mamma; il padre cappellano, infatti,
lo preparò, per il 15 agosto 1933, alla Confessione,
alla prima Comunione e alla Cresima, e inoltre lo
indirizzò al collegio serafico di Scandiano. La
mamma, quando udì la decisione del figlio di farsi
frate, ne fu felice. Il babbo invece ne fu contrariato,
tuttavia pensò che gli sarebbe passata e che intanto
avrebbe potuto compiere con tranquillità gli studi.
Aveva undici anni, Ferruccio, quando fece il suo
ingresso nel vasto collegio di Scandiano. Non gli
mancava certo l’entusiasmo e, sulla linea di quei gesti
significativi di cui la sua fanciullezza è così
cosparsa, entrò nella cappella e, dopo aver fatto la
genuflessione al SS. Sacramento, rivolse il suo sguardo
all’immagine della Madonna, affidandosi a lei. |
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Così
fissò, 13 anni più tardi, il livello spirituale che
aveva quando entrò a Scandiano: “Tredici anni
orsono, quando feci il primo passo verso questa vita, vi
entravo per divertirmi, senza alcuna idea di rinuncia,
sentivo che sarei stato contento e andai”. Nel
collegio c’era però una situazione che toccava tutti i
ragazzi: la correzione dei difetti avveniva in un ambito
che non era quello della famiglia. Un
controbilanciamento a questo lo si aveva favorendo gli
incontri con la famiglia, in modo che il ragazzo avesse
la nota della tenerezza familiare. |
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Anche Ferruccio sperava di poter godere di questo, ma presto la famiglia da Modena si trasferì a Venezia e, più tardi, a Bologna, e le visite attese finirono per non esserci. Egli risentì di questa lontananza, tanto più che era a conoscenza delle difficoltà familiari.
I mesi passavano e Ferruccio si sentì invadere da una grande solitudine interiore, che sfociò in un istintivo egoismo. Il suo temperamento esuberante non si adattò all’ambiente piuttosto rigido, e così divenne uno dei sette o otto ragazzi più turbolenti del collegio di Scandiano.
Quando raccontava questo periodo, diceva: “Ero un discolo”. Si rimaneva sorpresi a sentirglielo dire, poiché era difficile immaginarlo tale. Il senso di meraviglia, di fronte a tale dichiarazione, era giustificato: la testimonianza del suo compagno di banco ha infatti ridimensionato quel “ero discolo”. |
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Le marachelle dei sette o otto consistevano nel fare in modo che una pagnotta di pane scivolasse fuori dalla dispensa; oppure, durante la passeggiata, quando l’assistente voltava le spalle, correre qua e là. Naturalmente a queste scappatelle seguivano le dovute correzioni.
Il suo temperamento, forte ed esuberante, lo portava a dire parole roventi ai compagni; ma poi si controllava, facendo emergere una grande sensibilità di cuore. Certo, gli educatori lo guardavano con qualche perplessità, poiché si erano abituati a riscontrare che, dove c’era una marachella, c’era pure Ferruccio. Quanto al rendimento scolastico Ferruccio era uno dei primi.
Le monellerie cominciarono ad aver fine dalla terza media, a Scandiano, grazie ad notevole autocontrollo.
L'autocontrollo si estese a tutto.
Nel chiuso del collegio, nella prima adolescenza, la figura della donna, come poi ebbe a dire, veniva ingigantita dalla fantasia, e capitava pure di imbattersi in descrizioni fatte da alcuni ragazzi più grandi, nonostante ci fosse una grande vigilanza degli educatori. Non tutti i ragazzi del collegio avevano infatti la vocazione, molti vi entravano per la povertà delle famiglie, visto che i frati richiedevano una retta modestissima. Quelli che andavano avanti verso i voti erano solo una piccolissima percentuale, intorno al 2%, quando andava bene. Occorreva dunque forza e preghiera, e Ferruccio ci si impegnò.
Finita la terza media passò al convento di Modena, per la quarta e la quinta ginnasio.
L'autocontrollo continuò con l'inventiva di mettersi in bocca un fazzoletto, per impedirsi ogni chiacchiera in aula.
I formatori, vedendo la sua generosità e l’impegno nel dominarsi, riconobbero in lui la vocazione alla vita consacrata e lo ammisero al noviziato. Riguardo agli studi, nulla si poteva dire: era il migliore.
Così, dopo la quinta ginnasio, entrò, pieno di aspirazioni ad una vita di santità, al noviziato di Fidenza; aveva 15 anni. |
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“QUI CI HAI DA FARE!”
All’ambiente diverso di Fidenza si unì un nome nuovo, quasi a sancire l’abbandono delle prospettive del secolo: da quel momento non si sentì più chiamare Ferruccio, ma Raffaele.
I collegi di Scandiano e di Modena, che avevano visto spesso l’incrociarsi di giudizi severi su di lui, gli apparvero subito molto lontano. Aveva un nome nuovo e, col nome, la dichiarazione, di fronte al passato, di averlo superato. Oltre il nome nuovo, gli venne dato l’abito da novizio.
Si sentiva pienamente in regola e iniziò la nuova vita con grande slancio. Ma, a qualche settimana di distanza l’uomo vecchio rifece capolino, anche se il nome era nuovo e l’abito diverso. Dopo un mesetto, cominciò a sentirsi in contraddizione con se stesso e, invece di piegarsi ricorrendo all’umiltà, continuò a sognare una santità immediata, che però gli sfuggiva.
Su questa illusione lavorava il Maligno con i colpi dello scoraggiamento. In quella terribile situazione, si mise a leggere il libro di sant' Alfonso de’ Liguori “Apparecchio alla morte”. Lesse alcune pagine e, tra queste, le belle parole riguardanti Maria. Cercava di stampare nel suo animo quelle parole per sperimentare una ripresa, ma niente. La tempesta continuava. Gli si presentò pure l’ipotesi di farla finita con la vita. Guardò dalla finestra in basso; c'era un grande masso adatto ad una morte sul colpo. Ma una luce lo toccò subitamente in profondità, donandogli forza, speranza e liberazione.
Questo il racconto che p. Raffaele fece di quel
momento ad un gruppo di studenti: "Avevo appena
letto ‹L’apparecchio alla morte› di sant' Alfonso, quando parla di Maria, Madre dei peccatori, Maria che va in cerca dei peccatori, per convertirli in santi. Ho detto: ‹Qui ci hai da fare!›. In quel momento tragico, ho sentito una certezza assoluta, quella certezza che prende la coscienza, si innesta nel proprio io, in profondo. Ed è stata questa: ‹Se è tua Mamma, è Lei che ti deve dare tutto quello che ti manca. Come ha dato l’umanità al Cristo, darà a te tutta l’umanità del Cristo, perché tu possa vivere la vita divina. Perciò tu pensa a lei e lei penserà a te".
Fra Raffaele aveva trovato lo spazio della ripresa, la forza per vincere: aveva trovato Maria.
Convinto della necessità di ricorrere alla Madonna in ogni momento, decise di riconsacrarsi a lei, anima e corpo. Per il suo atto di consacrazione, scelse la festa dell’Immacolata Concezione. Non erano trascorsi che due mesi dal suo ingresso in noviziato. Cominciò ad essere sereno e ad esprimere la sua pace nella docilità dell’obbedienza.
Disse in seguito: ”L’obbedienza è la prima cosa che mi ha insegnato la Madonna”. |
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Il Maestro, di fronte ad un cambiamento così repentino, era incerto su cosa pensare e non tardò a chiamarlo per un colloquio a quattrocchi: “Mi volete dire, fra Raffaele, qualcosa di voi?”. Fra Raffaele gli disse di aver trovato Maria e di aver capito la sua mediazione. Il padre Maestro lo ascoltò attento, formandosi però il concetto che quel novizio esagerava, e bisognava distoglierlo da quel suo continuo rivolgersi sempre alla Madonna.
Terminato il colloquio, gli diede da leggere gli scritti di santa Teresa d’Avila, che, secondo lui, avrebbero distolto il novizio da certi eccessi mariani. L’obbediente novizio entrò nella sua cella con gli scritti di santa Teresa e si immerse nella lettura. Niente da fare! L’intento del Maestro non riusciva, perché fra Raffaele, ad ogni riga, si convinceva sempre più che, senza Maria, non avrebbe potuto vivere neppure una di quelle righe. Gli scritti di santa Teresa, invece di suscitare un intiepidimento mariano, furono causa di una meditazione per una mariologia semplice, ma profonda.
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