Il cambiamento degli orizzonti

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Padre Clemente da S. Maria in Punta cappellano

Un giorno padre Clemente da S. Maria in Punta andò a visitare il monastero. A madre Chiara non sfuggì l’occasione di chiedergli di stare con loro in qualità di cappellano. Chiese anche a padre Guglielmo cosa ne pensasse ed egli approvò l’idea. Lui, in definitiva, era presente solo per una settimana e padre Natale aveva ormai a cuore di celebrare al Querceto. Ne seguì, per padre Clemente, la decisione di diventare cappellano delle cappuccine di Lagrimone. Una decisione che aveva come antecedente il fatto che già stava conducendo un’esperienza di francescanesimo delle origini in un “luoghetto” nel Veneto.
Padre Clemente prese dimora nella “Casa del Padre”, dove era presente un piccolo appartamentino, il 14 gennaio del 1978.
Uomo di grande prudenza e dottrina, in particolare ex predicatore apostolico presso la Santa Sede, cominciò a soddisfare in tutto le attese delle suore.
L’unica differenza tra padre Clemente e padre Guglielmo era sulla questione della confessione di padre Pio e di padre Leopoldo, ma tutto finiva lì.
La questione era di lunga data e venne sollevata un giorno da padre Eusebio Notte, nella cella di padre Pio.
C’erano lo stimmatizzato del Gargano e altri due o tre frati.
Ma ecco l’inedita testimonianza di padre Eusebio:
”Tutto avvenne nella celletta di padre Pio, la sera, dopo la funzione serotina. Si parlava della confessione e del modo di comportarsi dei sacerdoti nell’assolvere, a volte l’uno diverso dall’altro. A questo punto intervenne il sottoscritto che con padre Pio aveva una discreta... famigliarità. “E che meraviglia c’è, neppure i santi si comportano allo stesso modo! Padre Leopoldo, per es., assolve tutti, e padre Pio... sono più quelli che manda via!...”. Al che, lui: “... e si capisce!... (ndr.il Signore) i peccatori più incalliti li manda a me!”.
Don Natale, dopo l’arrivo di padre Clemente, continuò pienamente ad essere presente nella “Casa del Padre” come direttore degli esercizi dei gruppi, quando non avessero essi stessi un sacerdote. Direttore di esercizi fu anche padre Clemente.
C’era perfetta armonia tra padre Clemente, padre Guglielmo e don Natale.
Considerando tutta la nuova configurazione della situazione di Lagrimone, padre Guglielmo pensò di nuovo alla formazione di una piccola fraternità nella sua provincia monastica, progetto che non aveva mai abbandonato.
L’occasione era propiziata dalla presenza nel convento di Cesena di un giovane frate, amante della povertà, sensibile ai problemi dell’ecologia, della giustizia e della pace nel mondo. Padre Guglielmo, amante pure lui di questi orizzonti etici, legava maggiormente la povertà all’ascetica, secondo quello che aveva mutuato dal libro: «L’ideale di san Francesco».
Padre Guglielmo, nella primavera del 1978, fece al giovane frate la proposta di una vita in comune in un “luoghetto”. Egli decise di vivere un tempo di sperimentazione con padre Guglielmo, per poi trarne conclusioni che, se positive, sarebbero state presentate ai superiori.
L’esperienza condotta a Bascio, nelle Marche, durò due mesi e fu ricca di vivacità.
Ma padre Guglielmo viveva in una tale sottomissione al giovane, che questi capì di avere un passo diverso da lui. Ci si mise di mezzo anche una zecca che colpì padre Guglielmo, costringendolo a ricorrere ad un medico. L’esperienza si concluse con una simpatia reciproca, ma con un nulla di fatto.
In questo tempo padre Guglielmo ebbe contatto con alcune persone di un gruppo del “Rinnovamento dello Spirito” sorto a Cesena nel 1979 presso la parrocchia di Sant’Egidio. Lesse pure il testo del card. Suenens: “Lo Spirito Santo nostra speranza”, Edizioni Paoline 1975. Fece pure una capatina al convegno del Rinnovamento a Rimini ma, alle riunioni di preghiera del gruppo, non vi andò mai. Interpellato sul movimento, non si pronunciò. Rimase, tuttavia, rispettoso verso chi vi apparteneva:quando una realtà religiosa era sotto il controllo della gerarchia, padre Guglielmo non aveva opinioni personali da rendere note.

I guai di Lagrimone

Tutto bene a Lagrimone, ma accadde che il Querceto, che con il suo fascino attirava i giovani, calamitò anche quelli che face vano gli esercizi nella “Casa del Padre”. Infatti molti di loro alla sera, dopo cena, facevano una scappata al Querceto per un supplemento di preghiera. Ma crederlo era difficile: fu più facile pensare che quell’uscita serale fosse il pretesto per il formarsi di coppiette fuori controllo. Poi c’era il rumore che i giovani facevano rientrando tardi alla “Casa del Padre”. Insomma, alcune famiglie cominciarono a chiedere che fosse data la disposizione che i ragazzi non potessero andare al Querceto. La voce di “disordini” giunse fino al vescovo di Parma, il quale, in visita al monastero, volle avere informazioni in proposito da madre Chiara. Quest’ultima, vedendo che stava per essere coinvolta, reagì dicendo:
”Monsignore! Lei ha gambe e occhi per verificare di persona. Io ho fatto l’abbadessa per 30 anni e non ho mai creduto a voci che mi pervenivano. Vada ad accertarsi personalmente!”.
Di lì a poco il vescovo, nell’estate del 1979, convocò padre Guglielmo, padre Natale, fra Lino, e sorella Anna che alloggiava separata da tutti nella soffitta della “Casa del Padre”. Fratel Piero si era allontanato dal Querceto, alla ricerca di una nuova esperienza di vita.
Il vescovo espresse la considerazione che bisognasse arrivare a dare un volto giuridico alla comunità del Querceto. Bisognava che si arrivasse alla conclusione di quel cammino di preparazione di ingresso all’Ordine dei Cappuccini.
Padre Guglielmo andò dal ministro provinciale di Bologna. E qui venne fuori il punto: padre Natale voleva quello che si può dire un “accorpamento” all’Ordine della comunità del Querceto. Egli considerava che il cammino di “noviziato” fatto là e la “vestizione” equivalessero al noviziato presso l’Ordine. Ma il provinciale non vide, diritto canonico alla mano, la cosa possibile. I passi fatti dalla comunità del Querceto non avevano valore giuridico, quindi chiese che facessero regolarmente il noviziato a Cesena se volevano fare parte dei Cappuccini. La perorazione di padre Guglielmo non valse a smuovere il provinciale dall’osservanza del codice di diritto canonico.
Al Querceto, allora, si pensò di cercare una sistemazione giuridica diocesana, ma il vescovo ribadì la necessità di un noviziato e di un cammino di studi regolato dal vescovo. La cosa non venne accettata perché metteva in formazione una cosa già formata. Una soluzione sarebbe stata che padre Guglielmo si facesse fondatore della comunità, uscendo dai Cappuccini, ma questa soluzione, che il ministro provinciale gli aveva prospettato, non era neppure mai venuta in mente all’interessato.
Il problema si risolse facendo della comunità del Querceto una fraternità dell’Ordine francescano secolare. Padre Guglielmo ne sarebbe stato l’assistente spirituale.
Al doloroso travaglio che tutto ciò produsse nel suo cuore, si aggiunse l’incubo causatogli da un giovane dal complesso passato, che, attratto, gli era stato accanto sia a Cesena che a Lagrimone dando la speranza di un buon futuro, dopo un po’ di terapia psichica. Il giovane, che aveva assorbito idee in India, probabilmente influenzato dall’episodio di Eliseo, che riceve parte dello spirito di Elia mentre questi sale in cielo, maturò il pensiero di uccidere padre Guglielmo per averne lo spirito.
La cosa aveva già avuto aspetti tali che il frate si rifugiò, per far perdere le sue tracce, in un piccolo eremo vicino a Porretta Terme, nel quale stette per una trentina di giorni, da metà ottobre a metà novembre.
Arrivò all’eremo sotto una pioggia battente. Ai piedi aveva due pezze di sacco come calzini.
La signora che custodiva l’eremo procurò di portargli ogni mattina una tazza di latte e un «buondì». A mezzogiorno un po’ di minestra e di secondo. Per la sera padre Guglielmo non volle niente.
La Messa la celebrò nella cappellina, alla presenza di una signora anziana di un casolare vicino, che non aveva voluto perdere quell’occasione. Terminata la celebrazione padre Guglielmo portava la comunione al marito di quella signora, gravemente ammalato. L’unica cosa che non andava bene all’anziana era che la Messa durava un’ora, e senza la predica; ma non riuscì a mandare alcun messaggio in proposito a padre Guglielmo.
Partito il frate, la custode entrò nell’eremo per sistemare le cose. Con sua sorpresa trovò intatti tutti i «buondì». Il fuoco non era stato acceso. Il letto era stato usato, ma era ricomposto.
Fu nel silenzio di quell’eremo, non dissimile nella povertà e nelle dimensioni all’ex forno di Lagrimone, che padre Guglielmo dovette avviare una riflessione sulla “Casa del Padre”. Era un’opera certamente necessaria, ma lo aveva tanto impegnato nella ricerca di fondi, ricerca a cui venne incontro più volte, con discrete somme, anche il ministro provinciale; e il saldo di ogni debito era avvenuto solo in quei giorni. Doveva essere lui a promuoverne la costruzione o altri? Le pietre della “Casa del Padre” avevano finito per legarlo, per togliergli l’agilità dei poveri, con tutte le conseguenze del caso.
Ritornò, un mese dopo, dalla custode dell’eremo. Era accompagnato in auto da due giovani. Le consegnò, quale compenso per l’ospitalità avuta, una sacca piena di mele. Disse alla signora che era disposto a restare un altro po’ di tempo nell’eremo, a questa condizione: “Se telà cambià al letto ì vò via. Se no telà mia cambià i resto”. La signora aveva cambiato il letto e allora padre Guglielmo partì verso Badi.
Ritornato al suo convento di Cesena, vi restò nel massimo nascondimento, ma il giovane persecutore una notte scavalcò la mura del convento ed, entrato per la porta dell’orto che era aperta, si mise a cercare padre Guglielmo. I frati lo videro e lo mandarono via.

In Terra Santa con San Francesco

In tale situazione si presentò l’invito ad un pellegrinaggio in Terra Santa da parte di un gruppo di persone di Cesena. Questo gli parve la mano soccorritrice del Signore. Pensò che poteva stare in Terra Santa per fare un anno sabbatico presso la comunità di don Giuseppe Dossetti a Gerico.
Salito a Lagrimone presentò il suo programma alla piccola fraternità del Querceto. Poi, recatosi al monastero delle cappuccine, fece convocare la comunità alla quale comunicò la sua decisione di andare in Terra Santa, per passarvi un anno di studio della Parola di Dio e di preghiera. Le suore rimasero addolorate sapendo che in tal modo non avrebbero più avuto il loro confessore.
Poi, nel massimo nascondimento, si ritirò nel convento di Cesena.
La sera del 9 aprile, scrisse una lettera al ministro generale chiedendogli il permesso di rimanere in Terra Santa per un anno sabbatico:
”Domattina, alle 10, parto in pellegrinaggio per la Terra Santa (sia per amor di Dio, Rev.mo Padre!): una persona ignota mi ha offerto questo dono. Conosco (un po’) lo spirito con cui vi si recò il P.S. Francesco: nel S. Vangelo e in Cristo, armato solo di umiltà e di amore per Gesù e per ogni fratello. Così conquistò i luoghi santi e, anche, il cuore del Sultano... Ma quello che più mi ha colpito nel profondo del cuore, è che, per amore sviscerato e fedeltà a Gesù povero, rifiutò categoricamente quando il Sultano volle caricarlo di denaro e di doni... e ciò “per sé... per le sue chiese... per i suoi poveri!...” Rev.mo P. Generale, non ostante tutte le mie infedeltà e tradimenti a questo nostro sublime Ideale... da oggi vorrei incominciare, andando in Terra Santa, ma sostandovi a lungo (per un anno sabbatico). Vorrei proprio ripercorrerla e studiarla, secondo lo stile del serafico Padre: passo per passo, rivivendo Gesù nel deserto, a Nazaret, a Betlemme, a Gerusalemme... Le sue parole, i suoi miracoli, la sua croce... il suo Divino Spirito, la sua prima chiesa, il suo amore infinito per tutti gli uomini... Rev.mo Padre, pronto a tutto, confido tuttavia nella sua obbedienza e ringrazio cordialmente chiedendo la paterna benedizione”.
Il padre Generale gli inviò in Terra Santa una lettera concedendogli l’obbedienza di restarvi per sei mesi.
La partenza, alle ore 10, in aereo, avvenne da Roma. Da Cesena il gruppo partì quando ancora era notte per evitare che il giovane venisse a sapere della partenza, e indagasse e lo inseguisse in Terra Santa.
I giorni passati col gruppo furono lieti, padre Guglielmo non dava cenni di sconforto. Prima di partire aveva detto che si augurava di lasciare la terra durante il soggiorno in Terra Santa non per un moto di sconforto, ma perchè desiderava consumare i suoi giorni nei luoghi santi, nella contemplazione della vita di Gesù: era andato là per abbracciare totalmente la croce, per avere sempre più la luminosa vita che da essa procede.
Tutto bene, dunque, finché un telegramma dall’Italia gli comunicò che quel giovane era venuto a sapere del suo viaggio e stava per partire per cercarlo.
Il giovane, probabilmente, era stato informato da un qualche frate di Cesena che, credendolo incapace di inseguire padre Guglielmo fino in Terra Santa, glielo aveva detto al fine di metterlo in pace.
Letto il telegramma, il nostro frate, inviò al giovane un biglietto per farlo riflettere, ma fu inutile. Il gruppo, prima di prendere il volo per l’Italia, lo incontrò e l’unica cosa che poté fare fu quella di depistarlo. Padre Guglielmo, dopo avere preso alloggio nella comunità di don Dossetti a Gerico, seguì subito un itinerario nel deserto, tonificato dalla vista delle grotte degli anacoreti. Altri viaggi non ne fece per timore di essere scoperto dal suo persecutore. Visse così da recluso a Gerico, guadagnandosi il favore della comunità facendo lo sguattero.
Nel silenzio della casa di Gerico scrisse subito al ministro provinciale:
«M.Rev e Ven.P.Prov, il gravissimo bleff mio, di tutti questi anni, nel seguire l’ideale di povertà integrale, in particolare con l’esclusione del denaro, secondo il vangelo, interpretato dalla Regola e Vita del P. S. Francesco, e di serafica carità verso ogni fratello della terra, in Cristo, per Cristo, come Cristo.., potrebbe gettarmi nel più cupo avvilimento... Invece, più che mai, desidero ricominciare! Ora:
        1° Per un’adeguata riparazione...
        2° Per una rottura (materiale) con Lagrimone e con i miei confratelli di Cesena che amo tanto.
       3° Per una rottura e rinnovamento completo di rapporti con i fedeli che conosco e con tutti... Mi pare indispensabile una lunga segregazione... l’anno sabbatico? Tornando in Italia iniziare subito la nuova vita in un angolino (un sottoscala?) di S. Demetrio: ne ho già parlato con D.Giorgio, parroco a Montereale. Ne scriverò al vescovo. Disposto a tutto, e tuttavia fiducioso in quanto ho richiesto, punto solo nella infinita misericordia di Dio e mediazione onnipotente di Maria, S. Francesco, Angeli Santi tutti; protestando incondizionata e gioiosa obbedienza”.
Ci fu poi una corrispondenza con Madre Chiara che gli manifestò il pensiero di chiamare una comunità di religiose per la conduzione della “Casa del Padre”. Padre Guglielmo le scrisse che la cosa gli andava bene. Così la “Casa del Padre” veniva ad avere la configurazione normale di una casa per esercizi e quindi con la necessità di far pagare una retta ai gruppi per il sostentamento delle religiose.
Nel silenzio della stanza, spesso, padre Guglielmo si trovava a pensare alle possibili soluzioni per il suo futuro. Pensò anche all’ipotesi di recarsi nella regione del Kambatta in Etiopia, dove operavano alcuni missionari della provincia di Bologna. Comunicò la cosa in una lettera al ministro provinciale: «In questi giorni le ho scritto su una possibilità particolare e concreta di vivere questo ideale. Ma io affido a lei, o a voi, di dirmi quando, come e dove posso attuarlo, tenendo conto che il nostro... (il giovane che lo perseguitava) non dà respiro a nessuno. Non possa essere la verga provvidenziale per farmi dirottare in Kambatta. Ecco: mi sento pronto a tutto anche ad andare insalutato ospite alla chetichella in Kambatta per liberare tutti da questa morsa. Kambatta, Kambatta... se ci fosse anche per me un angolino dove poter fare qualcosa secondo i miei desideri, ma che sia alla chetichella».
In una lettera successiva del 4 maggio, si affidava totalmente alle mani dei superiori: «In questi giorni le ho scritto su un eventuale modo particolare e concreto di vivere questo Ideale a Cesena... Ma ormai non insisto su nulla. Affido a lei, a voi miei rappresentanti della volontà di Dio, di dirmi quanto, come e dove posso attuano. Il nostro.., che crea difficoltà a tutti, non potrebbe essere un segno provvidenziale per una soluzione radicale che metta tutti in pace? Quale? Passare dalla Terra Santa al Kambatta! Poter essere utile a qualcosa là? ... Nel qual caso,... non lo dovrà mai sapere, se no mi raggiunge subito là. . . ».
Alcuni giorni dopo tracciava un’altra lettera per il ministro provinciale in cui manifestava il suo entusiasmo per la comunità di don Dossetti, forte di oltre 20 persone, e rifletteva sulla sua vicenda di Lagrimone: «Mi offre proprio la più viva immagine del rapporto di Gesù, Maria, Apostoli, Discepoli, Pie donne... “Erano un cuor solo e un’anima sola!”. Tutto a Lagrimone è sorto per vivere quest’ideale. . ma poiché io non ho saputo mai far nulla di positivo e per farlo prosperare... anzi poiché avrò fatto chissà quante cose per impedirlo”.
Il 24 giugno scriveva un’altra lettera al Provinciale in cui manifestava l’intenzione base della “Casa del Padre”: «Per accogliere tutti in un incontro di fede e di amore col comune Padre celeste... da viverci di preghiera e di bontà, come a Nazaret la Sacra Famiglia fuori da ogni egoismo... una piccola casa che vorrebbe essere una miniatura perfetta della Grande Casa del Padre: Tutta la terra! Dove tutti gli uomini dovranno divinamente vivere in pace, secondo il piano di Dio espresso nel Precetto del Signore: Restate nel mio amore. Amatevi tutti come io ho amato voi».
Poi padre Guglielmo proseguiva manifestando il tormento di avere messo mano alle pietre: «La casa è cosa molto bella in sé e per il suo significato. Però resta per me il gravissimo rimprovero che san Francesco non costruì case (anzi...) ma anime, e anche oggi egli avrebbe attuato il Concilio Vaticano II non operando per le case, ma per le anime». Dunque padre Guglielmo nella lettera dichiarava che la «Casa del Padre» era una cosa magnifica, ma egli non doveva mettersi in prima persona a raccogliere i fondi con tanto stillicidio di energie e di tempo.
Da Gerico, il 21 agosto, padre Guglielmo scrisse al provinciale una lettera sulla sua situazione fisica. La lettera, piena di buon umore, ricordava le passeggiate che un tempo da maestro faceva coi novizi.
«Non so dire da quando, certo da un po’, un po’ di tempo che, lavandomi i piedi alla sera, mi accorgevo che erano gonfi, il collo del piede e più su, gonfi... da rimanerci l’impronta, il buco, stringendo... Ho tirato un po’ troppo la corda. Giovedì, venerdì, sabato ho sospeso la penitenza di 2 rosari e di 3 discipline ogni giorno... ho riposato di più... Domenica è venuto il Dott. Guido di Modena, che esercita nell’Ospedale Italiano a Nazaret... ns. gr. Amico. Gli ho fatto vedere e mi ha detto di stare di più steso. I miei piedini di 66 anni e il collo del piede e le gambine sono subito tornate da grande podista. Mi sento già di tornare a fare la passeggiatina, il pellegrinaggio: Cesena-Ville, Cesena-Pinarella!... Cesena-Bertinoro-Polenta... Mi auguro che lei e padre Venanzio siate già in forma: faremo questa volta S. Agata-La Verna!... per il più bel collaudo fisico e spirituale... La notte sabato-domenica, per non impigrirmi troppo, Gesù, dalle 17 in poi mi ha regalato un forte male a un dente... ho vegliato la notte, ben assistito dai papatacci e dalle formichette che qui a Gerico sono più intraprendenti e svelte che a Cesena e Bologna.., in memoria di Gesù che, qui presso, fece i suoi 40 giorni dormendo per terra... ho deciso con l’obbedienza del mio superiore, qui, fr. Athos, di passare così le notti di queste ultime settimane».

A piedi verso Nazaret

Il giovane che lo inseguiva, trovò un alloggio gratuito alla «Maison d’Abramo», dove subito mise in agitazione tutti facendo domande su padre Guglielmo. Con una tenacia incredibile cominciò ad andare all’ufficio informazioni per sapere di gruppi provenienti dalla Romagna, dai quali ottenere poi l’informazione desiderata. Ci andò un’ottantina di volte; e aspettò per lunghe ore al muro del pianto, dove incontrò il Provinciale di Bologna che tormentò per sapere dove fosse padre Guglielmo. Il Provinciale non gli disse nulla. Ma il giovane, ormai, aveva inteso che doveva andare a Gerico e vi andò per ben quattro volte, l’ultima nella certezza che padre Guglielmo era là, poiché un amico della casa gli diede l’informazione cercata. Così, dopo quattro mesi e mezzo di vita segregata, il nostro cappuccino dovette affrontare quel giovane. Il giovane arrivò al mattino alle 7,45, appena finita la Messa.
Il superiore della comunità appena lo vide, corse da padre Guglielmo dicendogli che doveva uscire e propose di fare un foro nella parete fatta di terra e di paglia. Padre Guglielmo esitò un attimo, poi decise di restare. Si chiuse in cappella a pregare. Il giovane in preda ad un raptus sfondò subito una porta molto leggera, poi un’altra e, infine, alle 12,15 , quella della cappella in cui si trovò di fronte a padre Guglielmo in piedi. Quest’ultimo era calmo e determinato e ciò sorprese il giovane che pensava già di essersi innalzato su di lui. Alcune parole dette con una forza inusitata lo sorpresero: «Per anni ho cercato di aiutarti con tutta bontà, ma sei sempre peggiorato. Per disposizione dei miei superiori e ancor più per mia convinzione io non voglio avere con te nessun rapporto. Va dove vuoi e con chi vuoi. Non dove sono io e con me». A queste parole fulminanti il giovane abbassò la testa. Padre Guglielmo subito uscì dalla cappella e si nascose in una stanza difficilissima da trovare. Scrisse un foglietto di congedo per i fratelli. Prese uno spuntino e poi, mentre il giovane sonnecchiava nel giardino, uscì verso le 13,30 dal retro del fabbricato e si diresse verso la stazione delle corriere per Tiberiade, dove giunse la sera, alle ore 7,30. Un contrattempo impedì a padre Guglielmo di incontrarsi con un fratello che doveva prelevarlo in macchina, così concepì il pensiero di recarsi a Nazaret a piedi, sulle orme di Gesù, di Maria, degli apostoli. Cominciò a camminare chiedendo la direzione per Nazaret. Incontrò un gruppo di pellegrini milanesi che gli offrirono uno spuntino: una crescentina araba con mortadella, un po’ di olive, un ottimo bicchiere di vino. Il sacerdote del gruppo lo accompagnò poi in auto per un km, mettendolo nella direzione giusta. Poi, in autostop, fece ancora due km. Infine rimase solo a camminare nella notte di luna. «Camminavo e pregavo.., ero contento come una pasqua... Scrutavo il cielo e il paesaggio lunare tutto intorno... e di tanto in tanto mi voltavo indietro per vederlo proprio come l’avevano veduto e contemplato G. M. e la S. Compagnia».
Ad un certo punto si fermò un’auto che gli diede un passaggio per 10 km:
«Mi immergo nella solitudine, nel cielo, nell’orizzonte, attorno, attorno.., nella preghiera, nella gratitudine verso Dio per tanto Dono, nella gioia... e con grande gioia scambiando da una spalla all’altra i due fagottini che portavo bilanciati a soma. A un certo momento da un gruppetto che sostava seduto sotto una gran luce mi sento chiamare: “Abuna. Abuna!. . . “. Erano arabi seduti e sdraiati attorno a un fuoco che conversano fraternamente. Mi offrono un caffè... lo prendo molto riconoscente. Prendo e mangio con molto gusto un salcicciotto abbrustolito sul fuoco... Ci stava bene quel rinforzino... Una piccola conversazione... molti ringraziamenti e di nuovo gambe in spalla. Avevo sognato d’incrociare tutta la Palestina a piedi sulle orme di Gesù. La Provvidenza m’aveva chiuso in eremo amatissimo per quattro mesi e mezzo... il mio pellegrinare c’era stato, ma spirituale... Ora uno stupendo viaggio, a piedi. Gli occhi mi si chiudevano. Non so che ora fosse, né dove fossi. Ero solo certo che camminavo per la strada che mi portava a Nazaret. M’infilo quanto avevo in un fagottino per ripararmi dall’umidità dal freddo e mi stendo per un greto sassoso ad un margine della strada. Prego e mi addormento. Non so quanto... riprendo la strada... Finalmente la freccia di sinistra per Nazaret m’invita a lasciare la grande arteria di Aifa. Appena infilata la strada, da destra, oltre la siepe, dal campo sovrastante che saliva, un gran abbaiare di due cani... il guaio era che scendevano in strada... comincio a fare urlacci per spaventarli... Ooh, un po’... ecco la voce del padrone che li richiama a dovere.., meno male. Dopo trecento metri una gran casa in vista, un po’ distante dalla strada, su di un poggetto, cintato da un muro... Un terribile abbaiare di altri due cani più grossi. Arrivo davanti.., abbaiano rabbiosamente seguendomi sul parapetto, in alto. Ma il guaio, invece di stare a casa loro e lasciar passare un pacifico pellegrino, scendono in strada: un grosso cane nero combattivissimo, un più grosso cane lupo. Mi metto a fare urlacci con tutta la voce più stentorea. Avanzavano. Davano indietro e si avvicinavano sempre più. Il lupo di fianco.., capivo ormai che finivano per saltarmi addosso... ci sarebbe voluta l’agilità e la forza di Davide che smascella i leoni... dopo alcuni minuti di questa lotta incruenta ecco, finalmente un urlo del padrone della casa che li zittisce immediatamente. E sceso giù al cancello a chiedermi perdono, scusa, scusa. Deo gratias! Riprendo il cammino veramente ringraziando il Signore perché se quei tipi mi saltavano addosso, mi sbranavano. Vicino a Cana di nuovo un gran abbaiare di cani. Stavolta mi faccio furbo... non avanzo... salgo al secondo piano di una casa in costruzione e li al sicuro incomincio a pregare i misteri gaudiosi aspettando che si facesse giorno. Le macchine hanno cominciato a circolare frequenti e i cani si sono azzittiti, allora ho ripreso il cammino... Fichi d’India in gran quantità lungo la strada. Evidentemente mangiati dai passanti. Mi sono rinforzato mangiandone diversi, e forandomi tutte le mani e la bocca. Non era il miracolo delle nozze di Cana... ma per me in quel momento era pure un miracolo della Provvidenza. (...) Il sole ormai dardeggiava. Alle ore 9.00 ero in Ospedale dei Fatebenefratelli... Ristorato.., da una finestra inquadrata fra due ulivi si contemplava le due basiliche dell’Annunciazione e di san Giuseppe... Ecco dove mi ha sbalzato improvvisamente la Provvidenza».
112 settembre 1980 morì, insieme ad altri due frati, in un incidente stradale, padre Filippo Zamboni, a Bagradan Svetozarebo, in Serbia.
Il 6 ottobre 1980 padre Guglielmo fece un pellegrinaggio al Sinai.
Alla sera padre Guglielmo scrisse un pro memoria sull’escursione, al termine del quale si trovano queste righe: «Se ci sarà una vera corrispondenza a tutti i doni del Signore, si arriverà al Paradiso della redenzione di cui la Terra Promessa fu figura». Queste parole hanno il valore di presentare la Terra Promessa, abitata da Israele, come simbolo di una terra tutta riconciliata con Dio in Cristo.

Chiamato ai piedi del Crocifisso

Stava pregando perché il Signore gli trovasse un «posticino», quando gli giunse la notizia della morte di padre Filippo. Pensò che il posto lasciato libero da lui a Faenza poteva essere il «posticino» per lui. Di lì a poco gli giunse una telefonata del padre provinciale che lo richiamava, prospettandogli di occupare il posto di padre Filippo.
Rispose: «Ecco che il Signore mi ha chiamato... Ma io sono indegno; come farò...».
L’11 ottobre, alle ore 18, partì da Gerico, dove si era recato per ringraziare la comunità di don Dossetti. Alle 20,30 era a Gerusalemme presso il 5. Sepolcro.
L’itinerario per il rientro padre Guglielmo l’aveva pensato via mare. Aifa-Atene; poi autostop per Patrasso, da cui prendere un traghetto per Bari; poi Bari-Cesena in autostop. Ma le cose andarono diversamente.
Alle ore tre del mattino (domenica) partì per Tel Aviv, da dove alle 6 prese un volo per Roma, offerto «dalle ali della Provvidenza». Alle 10 era in piazza San Pietro per la benedizione del Pontefice. Poi a S. Giovanni Rotondo per una prolungata preghiera sulla tomba di padre Pio, quindi a Cesena.
Poi a Bologna a colloquio con il padre Provinciale al quale chiese il permesso di andare quattro o cinque giorni al mese a Lagrimone per seguire la comunità del Querceto, a lui tanto cara.
In Terra Santa si era sempre preoccupato del Querceto e in una lettera, scritta il 27 aprile al vescovo, gliela aveva raccomandata:
«La crescita nello spirito del Serafico P.S. Francesco della piccola fraternità Francescana secolare del Querceto. Partendo ne parlai col Padre Provinciale Cappuccino di Parma e la raccomandai caldamente all’Assistente Provinciale padre Evangelista: intanto posso ricordare, commosso, il loro lungo pregare fervoroso, la loro povertà, la loro edificante accoglienza verso tutti nel Signore e per il Signore».
Il padre Provinciale, di fronte alla richiesta, gli disse che, a Faenza, sarebbe stato molto assorbito dal suo ufficio alla cappella del SS. Crocifisso e che quindi non poteva concedergli quei quattro o cinque giorni al mese a Lagrimone. Gli disse pure che doveva avere una certa autorità, cioè non doveva lasciarsi tirare di qua e di là come gli era successo: «Ma tutti hanno bisogno...», rispose.
Padre Guglielmo andò a Faenza il 18 ottobre.
In una cappella del santuario c’è un crocifisso di legno di vite, che risale al 1500 e che fu segnato da un fatto miracoloso.
Un nobile di Faenza, Battista Castellini, capitano di un gruppo di armati, si trovò, un giorno dell’anno 1536, a Firenze ad ascoltare il grande predicatore Bernardino Ochino, senese, primo ministro provinciale dei cappuccini della regione emiliana. Battista Castellini, colpito dalle parole evangeliche dell’oratore decise di mutare vita. Volendo poi entrare nell’Ordine dei Cappuccini, il capitano d’armi venne sottoposto a Faenza a riparazioni pubbliche per l’arroganza e la violenza che aveva mostrato nel passato.
Vedendo la sua conversione sincera, venne accolto nell’Ordine, quale fratello laico.
Un giorno il guardiano di Persolino, prima sede del convento dei cappuccini di Faenza, volle riprendere in refettorio, davanti a tutta la comunità, fra Battista per una mancanza di poco conto, per metterlo alla prova. Di fronte alle dure parole del superiore fra Battista si sentiva fremere di ribellione, ma si dominò e tacque. Lo sforzo per trattenersi fu tanto grande che, sicuramente per uno scompenso cardiaco improvviso, gli si ruppero dei vasi sanguigni nei polmoni, procurandogli un’emottisi. Uscì dal refettorio con una mano sulla bocca. Pallido in volto e vacillante, andò nella piccola chiesa e, postosi davanti al crocifisso, presentò a Cristo la mano piena di sangue dicendogli: «Vedi, Gesù, quanto soffro per te». In quel momento fra Battista vide il crocifisso staccare la mano destra dalla croce e, indicando la piaga aperta del costato, dirgli: «Vedi, Battista, quanto ho sofferto anch’io per te». Fra Battista rimase con il cuore incendiato d’amore, desiderando rendere «sangue per sangue e morte per morte» al suo Amore crocifisso.

All’evento miracoloso fu presente un confratello, fra Costantino Lotti di Modigliana, che lo aveva seguito per aiutarlo.