CONOSCERE GLI ANIMALI
 

 
 

Come prima cosa bisogna affermare che ciò che possiamo dire dell'animale è sulla base di ciò che lui stesso ci comunica coi suoi gesti, i suoi versi, i suoi comportamenti. Non bisogna pensare che l'animale abbia cose maggiori da comunicarci e che non possa farlo perché impedito da carenza di mezzi di comunicazione, anche se così fosse, ma così non è, saremmo in grado di comprendere la sua comunicazione come siamo capaci di imparare una lingua diversa o comunicare attraverso gesti con un muto. Questa considerazione è di immediata evidenza per chiunque.

Quello che ci comunica l'animale è tutto quello che ha da comunicare. E' sulla base di questa sua comunicazione che noi rileviamo la distinzione ontologica tra noi e l'animale.

L'animale può essere addestrato, può in ambito di addomesticamento acquistare tratti cospicui di relazionalità con l'uomo, ma sempre l'animale comunicherà la sua sostanziale differenza.

L'animale può affezionarsi all'uomo, sono notissimi casi di cani che si sono lanciati contro un avversario per difendere il padrone, oppure di cani che si sono messi ad abbaiare per richiamare l'attenzione sulla presenza di un pericolo. Noto il cane Argo di Ulisse, che riconosce il padrone dopo tanto tempo. Ancor più noto è quanto dice il Vangelo circa le pecore che riconoscono la voce del pastore, che le chiama una per una, mentre non seguono la voce di un estraneo (Gv 10,1-8).

La Bibbia, senza paura di essere smentita, dice che Adamo riconobbe immediatamente come sua compagna la donna, Eva, distinguendola immediatamente da tutti gli animali. Adamo vide in lei la sua stessa natura razionale, oltre che la sua realtà corporea.

 

Quando noi descriviamo i caratteri della conoscenza degli animali percorriamo di necessità la strada dell'analogia con quanto sperimentiamo in noi in comportamenti simili. Facciamo dunque solo un'interpretazione. Era questo che esprimeva Hegel quando diceva: “man weis nie diesen Bestien steckt” (non si sa mai cosa c'è in queste bestie) (Cit.  Vanni Rovighi: “Elementi di filosofia”, ed. La Scuola, Brescia 1963, Vol III, pag. 107).

 

E' un errore ideologico quello di pensare che l'animale ha coscienza di sé come noi, e usare quindi il termine autocoscienza. La nostra coscienza di sé è infatti radicalmente diversa da quella dell'animale, essendo quella di un animale razionale, cioè che ha un'anima razionale, spirituale. La nostra coscienza di sé è autocoscienza.

 

Un termine come autocoscienza coniato per esprimere noi non può essere usato per altri che per noi. Allora quale termine utilizzare per esprimere che l'animale percepisce se stesso? Al solito bisogna rispondere in modo che non risulti confusione con la realtà uomo. Ecco, se io tocco la zampa di un gatto tocco il gatto, infatti tutto il gatto reagisce. Dunque, l'animale è un'unità e sente non solo sulla zampa quando lo tocco, ma sente anche che interpello tutta la sua unità, perché proprio è un'unità; non è un automa meccanico, una pura somma di meccanismi, ma un essere vivente che possiede una percezione istintiva di se stesso, diversa dalla percezione che l'uomo ha di sé, tanto diversa che l'uomo non ne può fare mai l'esperienza. Questa percezione che l'animale ha di sé, con quale termine si può esprimere senza fare confusione con la nostra coscienza di sé, evento intellettivo immediato, che esprimiamo, appunto, col termine autocoscienza?

Il filosofo Sofia Vanni Rovighi, (“Elementi di filosofia”, Vol III, pag. 107) usa il termine cosciente per la vita sensitiva, intendendolo però come conoscenza in senso generalissimo, nel senso generalissimo di awareness. Così vien detto che l'animale è un essere cosciente, mentre l'uomo è un essere autocosciente, cioè ha la coscienza di sé.

Tutto ciò è molto giusto e ben calibrato, tuttavia per non far confusione con la coscienza, propria dell'attività morale dell'uomo, e per marcare decisamente la differenza tra il percepire la propria unità dell'animale e il percepire proprio dell'uomo si possono coniare altri termini. Ad esempio, dell'animale si può dire che è sensiente, nel senso che la conoscenza (cum-scientia: conoscenza) che l'animale ha della sua unità, non dell'io, avviene mediante la percezione dei sensi e l'organizzazione dell'istinto.

 

L'esperienza dello specchio condotta su animali non svela niente di nuovo che l'animale abbia da comunicarci. Trovarsi di fronte ad uno specchio d'acqua, è un'esperienza comune agli animali, e non fa loro problemi. Un'antilope che va a bere in una pozza d'acqua limpida, o in un laghetto, o in un'ansa pacifica di un fiume limpido vede la sua immagine; la vede fin dai primi giorni della sua vita e quell'immagine le diventa familiare; la vede come altra cosa da sé, come figura nell'acqua, ma pur la riconosce procedente da sé perché corrisponde ai suoi movimenti.

Comunque, c'è chi ha creduto di carpire qualcosa di nuovo, osservando il comportamento di animali davanti ad uno specchio, o meglio dentro il quadro intellettuale dello sperimentatore, ma gli animali hanno continuato a dire che sono animali. Così Gordon G. Gallup (“Chimpanzees: self-recognizion” (auto-riconoscimento), Science 1970, 167, pp. 86-87).

 

Gordon G. Gallup, che lavorava alla State University of New York ad Albany, prese alcuni scimpanzé e li pose davanti ad uno specchio a tutta altezza e ve li lasciò per dieci giorni. Gli  scimpanzé, che evidentemente non avevano mai fatto l'esperienza di bere in una limpida pozza d'acqua, cominciarono ad agitarsi come se si trovassero di fronte ad altri scimpanzé. Pian piano (esaminiamo un singolo scimpanzé) lo scimpanzé cominciò a relazionarsi con quell'immagine che non costituiva nessuna reale relazione combattiva o affettiva e non emanava nessun odore, nessun verso, solo seguiva i suoi movimenti. L'animale giunse ad assuefarsi a questa esperienza nuova: nessuna minaccia, nessun odore, nessun verso, dunque una realtà neutra in sola relazione con l'unità di sé, che percepisce in quanto sensiente.

Lo sperimentatore, poi, prese gli scimpanzé e li anestetizzò e in tale stato pose loro una macchia sul volto in alto in modo che la vista non la potesse individuare. La macchia era di sostanza inodore e quindi non poteva attrarre per questa via l'animale. Gli animali usciti dallo stato di sonno vennero posti subito a contatto tra di loro e videro la macchia gli uni gli altri e questo creò uno stato psicologico che richiedeva che la novità macchia fosse percepita su di sé, e in effetti gli animali toccarono alcune volte quella macchia che vedevano negli altri, ma non su se stessi.

Poi gli animali vennero posti di nuovo davanti allo specchio L'immagine alla quale ogni animale si era assuefatto era diversa, comprendendo, appunto, una macchia. Senso di smarrimento. La nuova immagine urtava con la precedente. L'animale che si era già rapportato con la sua immagine con i movimenti che faceva, doveva ristabilirne il rapporto. Non potendola vedere direttamente con l'occhio, usava l'odorato mettendo, molto più di prima, le dita sulla macchia vista nello specchio, e poi fiutandole per conoscerne l'odore. Via, questa, impercorribile poiché la macchia era inodore. L'animale poneva anche spesso le dita sulla macchia senza poi annusarle.

Conclusione dello sperimentatore? L'animale si auto-riconosceva (self-recognizion). Ma in termini meno alti l'animale si era semplicemente relazionato con la nuova immagine dipendente da lui, e non aveva manifestato di avere raggiunto la comprensione del fenomeno fisico dello specchio e quindi del sé specchiato.

 

Lo sperimentatore anestetizzò altri scimpanzé che prima non erano stati posti davanti allo specchio, e pose loro il medesimo segno. Questi scimpanzé furono subito posti davanti allo specchio, ma non si curarono della macchia. La loro attenzione era attratta dall'immagine dello specchio, e l'immagine non urtava con nessuna immagine precedente, il che vuol dire che i primi scimpanzé erano mossi da un urto di immagini.

Nel 1978 ricordo che nel convento di Carmelitani di Forlì i religiosi (la comunità era ristretta a soli due religiosi) mi fecero vedere un canarino in gabbia che guardava immobile da una parte. Mi spiegarono che davanti alla gabbia avevano posto, del tutto casualmente, un piccolo pupazzetto raffigurante un carmelitano, con tanto di abito marrone. Il canarino quando vide il pupazzetto rimase bloccato, col capo girato verso il pupazzetto. I Carmelitani tolsero di lì a poco il pupazzetto, pensando che il canarino ritornasse come prima, ma il piccolo uccello continuò a guardare sempre nello stesso punto, dove prima c'era il pupazzetto. Cosa era successo? Era successo un urto di immagini: tra quella offerta dai Carmelitani, in carne e ossa, e quella offerta dal pupazzetto. Se il canarino fosse stato in libertà avrebbe potuto avvicinarsi al pupazzetto, beccarlo, volarci sopra, giungendo a distinguere le due immagini.

Gordon G. Gallup si concentrò sui primati, pensando, con altri, che il gorilla non avrebbe “superato” l'esame dello specchio. Altri sperimentatori videro poi che il gorilla non aveva insormontabili difficoltà a fare quello che facevano gli scimpanzé. Ci si concentrò sulle scimmie, mossi dall'evoluzionismo, ma ben presto la “prova dello specchio”, così la si volle chiamare, venne fatta fare agli elefanti (a loro venne posta sul loro corpo una macchia che non potevano vedere; l'animale cercò quindi di toccarla con la proboscide). L'esposizione allo specchio la si fece, con modalità diverse, con le gazze, i maiali, i delfini, quanto basta per non farne un'esclusiva dei primati.

Non si possono escludere i cani. Moltissimi hanno visto in casa loro come si comporta un cane davanti a uno specchio.

I primi momenti l'animale crede di trovarsi di fronte ad un antagonista o ad un partner, come accade nell'esperimento di Gordon, ma poi pian piano giunge l'assuefazione vedendo che l'immagine non lo impegna in una relazione con qualche altro cane. L'animale rimane in seguito del tutto tranquillo davanti a qualsiasi specchio, e se si avvicina il suo padrone lo riconosce nello specchio, come riconosce oggetti a lui familiari (mobile, sedia, ecc.). A riprova del fatto, avviene che se il padrone gli fa un cenno con la mano subito si volta verso il padrone e gli corre incontro.

Ma anche un gatto si relaziona col suo padrone, se ad esempio gli monta sulle spalle mentre si sta pettinando davanti ad uno specchio e cerca di agguantare il pettine che vede nello specchio in un determinato punto.

Si è verificata la capacità di apprendimento di un cane, ed è grande. Si è verificata la capacità di apprendimento di un delfino ed è stata sorprendente. Ancora grande la capacità di un elefante, ma anche di un cavallo, se lo si immette in un programma di addestramento per fargli riconoscere segni o parole.

La prova specchio non scopre nessuna verità che ribalti quanto già gli animali dicono di se stessi.

Così come non si scopre nessuna nuova verità sulla natura del gatto se lo si vede frequentare affezionato il televisore acceso mettendosi seduto davanti ad esso per lungo tempo.

 

Riguardo all'acquisizione del significato di parole o di segni, l'animale vi giunge sempre per associazione: segno-oggetto, e ciò avviene per ottenere il premio del cibo. Cioè impara ad associare una parola udita con ciò che designa e si rivolge all'oggetto designato, non per via della comprensione della parola, ma per la modulazione della parola alla quale l'addestratore ha fatto corrispondere una cosa verso cui dirigersi, per poi dare del cibo. Ciò che viene chiamato in gioco è sempre l'istinto che è alla base della vita sensitiva dell'animale.

 

Sono stati addestrati scimpanzé anche per mezzo del linguaggio gestuale dei muti, in tal modo imparano molte parole e fanno le azioni corrispondenti a quelle parole ripetutamente sperimentate con il premio del cibo. Le sequenze di gesti fatti dall'animale addestrato sono risultate all'esame dei filmati gesti confusi per compiacere l'addestratore in vista del premio e non una attività ordinata di comunicazione. Il modo di procedere dell'animale è quello dell'associazione sotto la guida dell'istinto. Allenati fanno quei gesti per ottenere ciò che vogliono: cibo, uscire all'aperto. Evidentemente, per quanto addestrato, lo scimpanzé non può agire oltre le sue capacità: non si potrà mettere a fare il muratore con tanto di filo a piombo, ecc.

Si sono cercati sempre mezzi più sofisticati per gli esperimenti, come computer appositamente costruiti con tasti sui quali vengono tracciate immagini, colori, ma l'animale continua ad agire sempre nel quadro rigoroso dell'istinto e dell'associazione delle immagini, che riceve dal senso. I controlli accurati dei filmati hanno confermato questo. Quello che si è notato è che hanno una forte memoria visiva, infatti è con questo supporto basilare dell'associazione delle immagini sorretto dall'istinto, che possono risolvere i vari problemi di relazione con l'ambiente che si presentano. Ed è su questa capacità di memoria e di associazione che agisce lo sperimentatore giocando sull'istinto dell'animale, ad esempio ponendosi come il capobranco che viene seguito.

Ma ecco l'animale addestrato dallo sperimentatore in maniera spinta, per carpire i segreti sull'animale, o meglio per vedere verificate le proprie ideologie di evoluzionismo dall'animale all'uomo, non è altro che un animale piegato nelle sue possibilità nella direzione voluta dall'addestratore e di conseguenza l'animale smarrisce altre possibilità che aveva naturalmente, come saper accudire i propri cuccioli, e quindi alla fin fine viene compromessa la perfezione che aveva.

 

Uno scimpanzé in stato di libertà può utilizzare una bacchetta dopo averla liberata dai rami laterali per infilarla in un termitaio e così prendere le formiche per mangiarle. Ma non può assolutamente con uno strumento costruire un altro strumento più perfezionato, il che vuol dire che può lanciare una pietra, ma poi non può usare la pietra per scheggiarne un'altra ricavandone un rasoio o una punta acuminata.

E' stato visto un gorilla allo stato libero che si appoggiava ad un bastone mentre traversava un corso d'acqua, ma ciò non gli dà la possibilità di elaborare uno strumento usandone un altro. Ricordo che le scimmie non sanno nuotare e che il loro procedere eretto è quanto mai precario, nessuna meraviglia se quel gorilla trovando un bastone e trovandosi di fronte ad un corso d'acqua da attraversare abbia elaborato sulla scorta dell'istinto e dell'esperienza quel procedere eretto, per non affogare, sostenendo la sua posizione eretta con un bastone.

 

Chi non conosce gli animali finisce per dire sciocchezze.

 

Il 17 giugno 2011, durante il tg1 delle ore 20, è stata data la notizia che in uno zoo inglese, un orango del Borneo di 16 anni di nome Jorong, ha salvato un "cucciolo" di gallinella d'acqua dall'annegamento usando come strumento di salvataggio una foglia. Non risultando questo efficace ha preso il "cucciolo" nella mano e l'ha posto in salvo a terra. Esaminando il video su You Tube le cose stanno altrimenti. L'orango prima ha visto l'uccellino, che non stava affatto annegando, anzi il video dimostra che sapeva ben nuotare, quindi ha preso una foglia e gliel'ha posta ripetutamente sul becco. Successivamente, ha preso in pugno l'uccellino e l'ha posto a terra e ha cominciato, stando accovacciato, ad esaminarlo da vicinissimo. Per due volte l'ha sollevato all'altezza della bocca e sembrava che dovesse mangiarselo. In seguito, l'ha posto a terra e se ne è disinteressato. Quello che appare con chiarezza è che l'orango ha solo studiato la nocività o meno dell'uccellino. Prima è attratto da un essere che nuota (scimpanzè, gorilla, orango non hanno propensione per il nuoto), poi saggia il becco della gallinella d'acqua con una foglia, questo più volte per vederne la combattività. Non più pauroso la prende in pugno e la pone a terra. Quindi ancora la esamina da vicino. Due volte se la porta alla bocca in un esame finale, che ai presenti è parso un moto per mangiarsela, e vede che non né utile né nociva e se ne disinteressa. Precisamente, l'utile e il nocivo è ciò che ha mosso l'orango, recluso dentro lo zoo accanto ad uno specchio d'acqua. Non credo che ci sia qualcuno che non abbia visto come una cane domestico fiuta un nuovo arrivato, amico del suo padrone; gli gira attorno fiutandolo (non bisogna irrigidirsi perché ciò viene interpretato come un atto di combattimento) e poi, rassicurato anche dalla presenza del suo padrone, l'animale rimane tranquillo.

 

Quello che non va mai smarrito, ma del resto non potrà mai essere soppresso, è che c'è un salto ontologico tra l'uomo e l'animale.

 

L'animale può separare una cosa concreta da un altra, pure concreta, per esempio, sotto addestramento, può separare da un gettone la forma dal colore, per servirsi soltanto dei gettoni d'una determinata forma, prescindendo dal colore o viceversa. Come pure è capace in casi analoghi di scegliere soluzioni analoghe. Questo comportamento è comune a tutti gli animali ed è più sviluppato in quelli superiori. E' dovuto a una facoltà psichica, radicalmente inerente alla percezione sensibile. La si chiama intelligenza pratica-istintiva (facoltà aestimativa presso i filosofi scolastici) o intelligenza appercitiva, perché essenzialmente legata alla percezione sensibile, e differisce sostanzialmente dall'intelligenza astrattiva o intellettiva, che è propria dell'uomo.

Ha sentimenti l’animale? Qua bisogna intendere, infatti la parola sentimento nasce dall’osservazione dell’uomo su di sé e ha una valenza che include la ragione, la quale motiva, approfondisce, il nascere di una simpatia che diventa poi un sentimento per qualcuno, e ciò sulla base delle qualità di una persona, non solo fisiche, che sarebbe poco, ma spirituali. Per questo la parola sentimento va lasciata all’uomo mentre per l’animale dobbiamo per correttezza usare una parola di minore portata, quale è affezione. Certo l’animale si affeziona, ricorda con affezione il padrone, il branco. Ha fedeltà al padrone (cane addomesticato) difendendolo, riconoscendolo. Se prendiamo altro animale come un leone, vediamo che si può addomesticare. Un domatore di leoni prende il cucciolo fin dai primi suoi giorni, gli dà da magiare, e pian piano lo addestra dandogli ad esercizio eseguito del cibo. L’animale, infatti, si muove nell’ambito dell’utile e del nocivo e se il domatore gli è utile per il cibo si lega pian piano a lui. L’animale ha una sua vita di relazione con il branco e il domatore, meglio chiamato ora addestratore, occupa il ruolo di capobranco. Comunque sappiamo che nei circhi a volte ci sono sorprese di leoni che aggrediscono l’addestratore, così come avviene per le orche, e qui pare proprio che non sia corretto piegare l’istinto di un animale con modi anche crudeli (vedi le orche) per farne uno spettacolo sensazionale. Possiamo dire che l’animale ha emozioni (paura, dolore, rabbia, contentezza), ma nel suo ambito di istinto. Anche l’uomo ha emozioni, ma sono sempre proprie di un soggetto razionale, che può dominare la paura anche provandola, che può sostenere il dolore pur provandone repulsione, che sa dominare la rabbia pur sentendola affiorare, che è contento per motivi alti, ad esempio, mangiare il pane frutto del suo lavoro.

 
 

Solo l'uomo ha l'anima razionale, spirituale. L'animale non la possiede assolutamente, e non siamo noi a dirlo, ma sono gli animali stessi che lo affermano con i loro comportamenti. Il mondo vuole negare l'anima all'uomo riducendolo ad animale, ma ciò non è. La filosofia ben vede la differenza tra l'uomo, animale razionale in quanto ha l'anima, e l'animale. La Bibbia poi presenta con chiarezza inequivocabile come l'animale non abbia l'anima. All'animale non fu dato un soffio di vita direttamente da Dio (Gn 2,7). L'animale viene tutto dalla terra (Gn 2,19). Gli animali Dio li dà come cibo all'uomo, per essi non c'è l'obbligo di non ucciderli (Gn 9,3). Il salmo (48/49,13.21) dice: "Ma nella prosperità l'uomo non dura: è simile alle bestie che muoiono (...). Nella prosperità l'uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono". il salmo (73/74,22) dice: "Io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia". Gli animali vennero usati per i sacrifici (Gn 4,4; 8,20; 22,13; Es 12,21; Lv 1,2s; Nm 15,3). Nei giorni prescritti il tempio sembrava un ammazzatoio e il sangue scorreva a torrenti (Cf. 1Re 8,63). A Pietro comparve dal cielo una grande tovaglia con dentro animali di ogni sorta, mondi e immondi secondo le prescrizioni giudaiche, e una voce gli disse di uccidere e mangiare per invitarlo a non pensare di essere contaminato dai cibi che si ritenevano immondi (At 10,13): "Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!". Il sangue dei sacrifici degli animali non ha valore salvifico (Eb 10,4-7): "E' impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati. per questo, entrando nel mondo. Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: <Ecco io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà>".  

 

Sofia Vanni Rovighi (1908 - 1990), docente di filosofia teoretica, morale, e storia della filosofia presso l'Università Cattolica “Sacro cuore” di Milano; autrice di notevoli pubblicazioni, nel 1980 ricevette il premio “Antonio Feltrinelli” per le scienze filosofiche dall'Accademia Nazionale dei Lincei. Dal Volume III di “Elementi di Filosofia”, ed. La Scuola, Brescia 1963, pag 171s. Riporto questi passi per la sua esemplare chiarezza.

 

(pag. 171-177):

“E ragioneremo così: se c'è nell'uomo un'attività indipendente dal corpo; se c'è un'attività umana che non può procedere dal corpo, che non può avere il corpo come soggetto, c'è nell'uomo una realtà, un ente, indipendente dal corpo. Se c'è nell'uomo un'attività che, pur essendo dell'uomo (e quindi procedendo dalla sua forma sostanziale), non può procedere da un soggetto corporeo, dovremo dire che l'anima, la forma sostanziale dell'uomo, sussiste per sé, poiché l'attività non è altro che una manifestazione dell'essere. La nostra ricerca si orienta quindi verso una qualche attività umana che trascenda il corpo, che non possa procedere dal corpo.

S. Tommaso ce ne indica tre: la conoscenza dell'universale, la riflessione o autocoscienza, la capacità dell'intelletto di conoscere tutti i corpi.

 

Conoscenza dell'universale e contemplazione

Cominciamo dalla prima. L'universale è ciò che prescinde dal qui e dall'ora: è, diremmo, un aspetto svincolato dalle condizioni che legano l'essere dell'oggetto alle condizioni della corporeità, spazio e tempo; il conoscere per universali indica quindi nel soggetto conoscente una superiorità rispetto a tali condizioni, una certa indifferenza dominatrice rispetto ad esse.

Facciamo ora qualche considerazione sull'argomento esposto. La conoscenza dell'universale risponde alla ricerca dell'essenza, del che cosa è una cosa, prescindendo dal suo esserci per me, dall'interesse vitale che essa può avere per me hic et nunc; è insomma l'atteggiamento contemplativo. E contemplazione vuol dire in certo senso distacco dagli interessi vitali, animali. Quando questi prevalgono, e sono impellenti, non c'è contemplazione primum vivere, deinde philosophari. E non pensiamo soltanto alle più alte attività contemplative, pensiamo anche a quelle della nostra vita quotidiana, che hanno bisogno di otium, di libertà, di liberazione, vorrei dire, dai bisogni più urgenti della vita animale. Se sono per la strada, e vedo o sento un veicolo che sta per venirmi addosso, mi affretto a scansarmi, a salire sul marciapiede, ad attraversare: reagisco vitalmente, pressappoco come reagirebbe un puro animale, perché la necessità di salvare la mia vita animale prende il sopravvento. Ebbene, se ora rifletto e mi domando: che cosa ho conosciuto quando mi sono scansato? Mi accorgerò che ho conosciuto quel veicolo solo come una cosa per me illic et tunc minacciosa. Non mi sono domandato che cosa era: se non un camion, un furgoncino, un'automobile. Queste cose me le domanderò dopo; quando sarò sul marciapiede e avrò l'otium di contemplare, quando non sarò più assorbito dall'esigenza di salvare la mia vita animale.

In quanto contemplatore l'uomo si dimostra, dice M. Scheler, come l'asceta della vita: ora per superare in qualche modo le esigenze della vita animale bisogna essere più che animale.

E abbiamo detto che questa capacità contemplativa dell'uomo si manifesta anche nella conoscenza più banale: nella conoscenza della vita quotidiana, in quella nella quale definiamo questo come un carro e quest'altro come un automobile. La nostra spiritualità, infatti, non è un vestito della festa che si manifesti solo nelle grandi occasioni, ma è il carattere della nostra natura, che si deve poter scorgere in tutto ciò che è umano.

 

Contemplazione e tecnica

Se pensiamo un momento alla tecnica, vedremo comparire anche lì qualche cosa che trascende la pura vita animale. Se c'è una attitudine diretta proprio al bene dell'uomo in quanto animale, all'utile, questa è la tecnica: quando pensiamo al tecnico, o meglio all'uomo in quanto tecnico, all'homo faber, lo pensiamo più vicino al castoro che non a un Angelo. Eppure anche nella tecnica si manifesta la spiritualità dell'uomo. Non sembra infatti che la tecnica dei castori progredisca (ndr. I castori hanno due sistemi per fare le dighe, a seconda della situazione: uno è quella di infiggere rami sul fondo del corso d'acqua per ancorare la struttura, se il fondo si presta, e poi addossandovi rami e anche tronchi; l'altro è quello di usare sassi, fango e rami e tronchi, formando pian piano una barriera al corso d'acqua. Il castoro è un continuo taglialegna per rendere sicure le sue dighe, che permettono di avere un accesso sott'acqua e quindi protetto per difendersi dagli animali predatori. La tana è poi aerata con un foro in alto)., mentre progredisce quella dell'uomo. Si dirà: sono i bisogni che fanno progredire. Tutt'altro: è la tecnica che fa sentire nuovi bisogni. I bisogni animali dell'uomo sono infatti fondamentalmente sempre gli stessi: mangiare, bere, dormire, ripararsi dalle intemperie, ecc. Noi sentiamo oggi il bisogno di una cucina a gas o di un frigorifero elettrico non perché si siano destate nuove esigenze animali, ma perché sappiamo che ci sono cucine a gas e frigoriferi elettrici coi quali si fa più presto e si impiega meno fatica a far da mangiare e si conservano meglio i cibi.

Se ora ci domandiamo quale molla, soprattutto, fa progredire la tecnica, dobbiamo rispondere che è l'interesse teoretico, l'interesse speculativo, l'interesse per il problema in sé. Questa affermazione farà forse ridere gli uomini d'affari - e farà ridere anche coloro che leggono gli elogi della tecnica solo sui libri; ma chi ha avuto la ventura di stare vicino ad un tecnico appassionato (e quale mai tecnico non appassionato può far progredire la tecnica?) sa che la molla del suo lavoro è l'interesse teoretico. Dietro il tecnico, a stimolarlo, a dargli i mezzi, ci sarà un imprenditore che mira al profitto o uno stato totalitario che mira alla potenza, ma gli uomini d'affari non riuscirebbero a far quattrini, e i politici avidi di potenza non avrebbero strumenti a loro disposizione se non adoperassero i risultati ottenuti da ricercatori appassionati, che sono spesso uomini candidi, più affini ai poeti e agli scienziati puri che ai loro finanziatori, e spesso, come attesta la storia contemporanea, sono angosciati al pensiero dell'uso che può essere fatto delle loro scoperte.

Ho preso l'esempio della tecnica proprio perché essa è l'attività umana più orientata ai bisogni della vita animale: ma cosa dobbiamo dire dell'arte, della filosofia, della religione? Di queste attività umane nelle quali si manifesta la passione dell'uomo per “l'inutile”, l'interesse per ciò che non serve ai bisogni animali?

 

Libertà e spiritualità

Pensiamo agli atteggiamenti pratici che seguono la conoscenza intellettiva.

Pensiamo specialmente ai casi in cui l'uomo, con la sua libertà, si manifesta indifferente anche alla sua vita animale, alla sua conservazione. E' possibile che un ente distrugga la sua natura? E allora, se l'uomo accetta volontariamente la morte, vuol dire che è qualcosa di più di ciò che con la morte si distrugge. Non paragoniamo, per carità, la morte liberamente accettata dall'uomo col suicidio del cane che si lascia morir di fame sulla tomba del suo padrone. A questo sarà paragonabile il suicidio della fanciulla che ha perduto l'amato bene o, in genere, dell'uomo che ha perduto una persona cara: suicidio dovuto a una carenza vitale, a incapacità di reagire, di ristabilire il proprio equilibrio dopo una scossa. Ma ben altro è l'accettazione volontaria della morte per un ideale morale, ossia non perché si è incapaci di vivere, ma per affermare in modo più alto e più forte il proprio essere. E, infatti, anche le teorie materialistiche, quando chiedono all'uomo il sacrificio della propria vita, debbono cercare un surrogato di spiritualità e di immortalità, debbono parlare della gloria, o del bene del popolo ipostatizzando questo popolo fino a farne la sostanza spirituale dell'umanità. Se infatti l'umanità fosse un gregge di animali bruti si potrebbe sì capire che il padrone del gregge ne sacrificasse uno o dieci, per salvarsi il resto, ma non si potrebbe capire perché uno del gregge dovesse sacrificarsi volontariamente per gli altri: uno varrebbe l'altro.

 

Riflessione e spiritualità

Se il principio intellettivo fosse corporeo, dovremmo dire o che esso è un corpo per conto suo, accanto al corpo animato di vita sensitiva, oppure che è lo stesso corpo animato. La prima ipotesi è scartata, poiché il principio intellettivo (ndr. L'anima razionale) è la forma sostanziale del corpo. Resterebbe dunque la seconda, che è quella storicamente propugnata dalle filosofie materialistiche. Secondo questa ipotesi la conoscenza intellettiva si svolgerebbe mediante un organo corporeo, il cervello. Ora, ci si domanda, in tal caso sarebbe possibile l'autocoscienza? Il soggetto avrebbe bisogno di un organo corporeo per conoscere: quindi dovrebbe averne bisogno anche per conoscere il suo conoscere; ma se l'organo è già impegnato nella conoscenza diretta, come potrebbe essere disponibile per la conoscenza riflessa? Ci vorrebbe un secondo organo per la riflessione (ndr. Non si dica che ci può essere una zona del cervello che agisce come un organo [autocoscienza] sull'organo cervello nel quale si trova, poiché questo è contrario alle esperienze che mostrano che sì vi sono aree con attività selettive, ma le aree non sono affatto dei compartimenti autosufficienti. Il cervello, infatti, non è un insieme di sistemi indipendenti, ma è l'unione di componenti interdipendenti). E allora non avrei più coscienza di conoscere la mia conoscenza; il primo atto conoscitivo non sarebbe autocosciente. L'occhio non vede se stesso mentre vede: può vedersi solo allo specchio, e nello specchio si vede come altro, come vedrebbe qualsiasi altro oggetto.
 

Nella Summa Contra Gentiles, S. Tommaso applica questo argomento in senso più ampio ed osserva che la riflessione indica una presenza a sé che non è compatibile con l'estensione, la quale disperderebbe, per dir così, il soggetto in una molteplicità di parte e impedirebbe che ci fosse un sé in senso proprio, cioè come un soggetto che si possiede in qualche modo nella riflessione. Riflettere, infatti, essere autocoscienti, vuol dire in certo modo possedersi, coincidere con sé, non essere dispersi.

Si pensi poi che la riflessione è la radice della possibilità di dominarsi. Riflettere su un nostro sentimento, atteggiamento, è il primo passo per poterlo dominare: finché ci siamo immersi, finché lo viviamo soltanto, non ne siamo padroni; solo quando lo oggettiviamo possiamo dominarlo.

Ma, si dirà, qualche volta con la riflessione noi ci accorgiamo proprio di essere in certo senso dominati dalla nostra vita animale. Si dice: se io non avessi avuto fame o non fossi stato stanco in quel momento non avrei risposto così male, non avrei reagito così vivamente. Ma questo prender coscienza della nostra dipendenza dal corpo non è già una prova che siamo più di quello che si è lasciato dominare? Questo aver coscienza di essersi lasciati dominare non è una prova che emergiamo per una parte di noi dall'animalità? Se fossi tutto dominato, non mi accorgerei di essere dominato. Non si ha coscienza di essere chiusi in una stanza se non si ha una idea di ciò che è fuori della stanza stessa, e, vorrei dire, se non si è vissuti un po' fuori della stanza.

Il terzo argomento tomistico, quello che si fonda sulla nostra capacità di conoscere tutti i corpi, mi sembra vada ricondotto a quello della conoscenza dell'universale. (Summa theol., q. 75, aa. 2).

 

Conclusione

Queste considerazioni ci portano a concludere che ci sono in noi attività indipendenti dal corpo, e perciò che il soggetto di tali attività è indipendente dal corpo.

Si noti, innanzitutto, per non trovare contraddizioni con quel che si è detto prima, che non abbiamo cercato prove della nostra spiritualità in pretese intuizioni dello spirituale, ma nel modo in cui conosciamo gli stessi corpi.

Anche la conoscenza intellettiva, dunque, dipende in certo modo dal corpo, come è attestato dal fatto che quando il cervello subisce certe lesioni, l'uomo è impedito anche nella conoscenza intellettiva. Ma questo si può spiegare senza negare la spiritualità dell'anima, se si ammette che, mentre per la conoscenza sensitiva il corpo è consoggetto di attività (ossia chi opera, chi sente, è il corpo animato, non l'anima sola), per la conoscenza intellettiva invece il corpo fornisce l'oggetto (l'immagine) dal quale con l'intelletto astraiamo la specie intellegibile e formiamo il concetto”.

 
                                  
 
Il rapporto dell'uomo con gli animali deve essere rispettoso della loro natura non violentarla, per cercare di conoscere chissà che cosa. San Francesco ha voluto bene agli animali e gli animali hanno avvertito col loro istinto che egli era buono.