Il
poligenismo, serbatoio di discriminazione
Il poligenismo
evoluzionista vuole sostenere l'esistenza di vari
phylum (si usa anche l'adattamento fylum, in italiano, tedesco, olandese,
spagnolo, portoghese, svedese.... Deriva dal greco phylai: "clan, tribù,
gente"). nel processo
evolutivo verso l'uomo e dentro l'uomo stesso. L'autoevoluzionista è
soddisfatto di questa teoria dal momento che il suo assunto è: “Ci siamo
fatti da soli, e qualcuno è più indietro di me”. Un assunto che accontenta
la superbia di chi vuole essere il creatore di se stesso, ma che poi finisce
per svilirsi dandosi come antenato un animale.
L'autoevoluzionista
oggi si trova in una gravissima strettezza culturale. Il razzismo, da tutti
esecrato, ha come base proprio il darwinismo, che comprende, come necessità di
progresso dell'uomo, la selezione naturale, la quale avviene per mezzo della
lotta per la conquista dello “spazio vitale” necessario per l'espansione
del migliore. I deliri del nazismo, delle leggi razziali, hanno queste basi. La
razza Ariana era la migliore e doveva sopprimere quelle “inferiori” per
diritto di legge di natura. Pensiamo al danno fatto dalle conquiste coloniali
in nome del razzismo, e alle attuali ritorsioni contro l'Occidente.
Ora tutti rigettano
la cultura razzista, fascista, come politicamente si dice, ma non ci si
preoccupa di revisionarne le basi pseudoscientifiche che l'hanno
prodotta; ma anzi queste vengono conservate e insegnate e difese, così che non
meravigliano le orrende pulizie etniche che anche ai nostri giorni si sono
compiute.
Teoria africana e teoria regionale
La “teoria africana” (Jan Tattersal, della Columbia
University; Tim Whitw, dell'Università di Berkeley in California, lo scopritore
di Lucy; Chris Stringer, del Natural history museum; e altri) dice
che tutti gli uomini odierni sono Sapiens, usciti dall'Africa da un ceppo
evoluto in Sapiens, che ha cominciato a conquistare il mondo a partire da circa
200 mila anni fa; e quindi oggi c'è una sola specie, con tante razze. Ma
oggettivamente lascia adito alla “teoria regionale” (Milford Wolpoff, dell'Università del Michigan; Alan
Thorne, dell'Australian National University di Canberra; e altri), che
afferma processi evolutivi regionali verso il Sapiens, e quindi non ci sarebbe
un'unica specie Homo sapiens proveniente dall'Africa, ma tanti uomini Sapiens,
così che la razza non è diversificazione da un unico ceppo Sapiens. Come si
vede la teoria regionale ha in sé qualcosa di esplosivo, tanto che Alan Thorne,
polemicamente, ha parlato di “Eva australiana”. L'autoevoluzionismo penetra dentro la “teoria africana”, che certo fornisce un senso di
unità tra tutti gli uomini odierni, poiché rimane aperto il dramma che si può
esprimere così: tutti uniti nell'essere Sapiens, ma non tutti uguali
nell'essere Sapiens, poiché l'essere Sapiens è in base al “crearci tali da soli”. Il riconoscimento della pari
dignità tra gli uomini di oggi, ha fugato l'ombra violenta del razzismo, ma non
l'ombra della tutela compassionevole su di una razza umana meno avanzata; allora è il momento
della reazione e della proclamazione dell'Eva australiana. La vera posizione è
quella del monogenismo, che afferma l'unità di tutto il genere umano fin dall'inizio del
suo esistere.
Il cristiano non può
accettare il poligenismo, per la ragione che crede nell'unità del genere
umano, che è alla base del rapporto Adamo - Cristo, il nuovo Adamo.
Le forme umane avvilite
Come spiegare l'esistenza
di forme umane fossili avvilite dal momento che il primo uomo e la prima donna
non potevano avere un corpo che non fosse bello, veramente degno di un essere
creato ad immagine e somiglianza con Dio? La risposta passa attraverso la
considerazione che quando si parla dell'uomo si parla anche di comportamento
etico, e noi sappiamo che un comportamento etico spinto fino all'abbrutimento (al
vivere come un bruto) ha conseguenze psicosomatiche. Le tare genetiche non
nascono dal nulla, sono una deriva genetica la quale ha delle cause.
Condizioni di vita avvilenti, denutrizione, criminalità fino a confini estremi,
lussurie inconcepibili, crearono una lesione profonda nelle coscienze con
riflessi psicosomatici (epigenetica). La formazione delle tare passò attraverso l'apporto di
più e più soggetti, fino a diventare consistente. In un contesto di gruppi non
numerosi, culturalmente limitati e bloccati da magie e idolatrie, era facile la
cumulazione delle tare, non impedite dalla selezione naturale operata dalla
violenza per lo “spazio vitale”, o per l'imperio di un gruppo su di un
altro gruppo. Ciò allora non era in atto, data l'ampia territorialità che si
presentava ai gruppi umani. Giocavano indubbiamente anche i fattori razziali,
per cui un gruppo finiva per sentirsi una razza a sé, con origini tutte sue, e
per questo pronto ad elaborare mitologie. Non solo, in un gruppo umano ristretto, come era
quello dell'Homo floreriensis, che abitava in un'isola, entrava in campo, oltre
ai fattori ambientali e culturali, il mimetismo naturale, per il quale, se uno
frequenta per parecchio tempo un determinato gruppo razziale, pian piano ne
subisce un influsso di somiglianza somatica, debole certo, ma esistente. Anche l'osservazione popolare millenaria di un influsso sul feto di una gestante profondamente traumatizzata dovrebbe essere messa nel conto, certo scartando le cosiddette voglie o le realtà teratogene, che sono a base genetica. La gestante fortemente traumatizzata da un'impressione visiva ha un processo psichico di somatizzazione dell'immagine traumatica, attivata dai neuroni a specchio. Ciò altera, nelle aree interessate, il normale irraggiamento elettromagnetico del corpo della gestante. Il feto, che è “in ascolto della madre”, in qualche modo percepisce ciò, ad un certo punto del suo sviluppo, e ne resta condizionato. Tale osservazione è certificata da autori importanti, in testa ai quali va messo
Ippocrate (460-377 a.C.). La stessa vicenda di Giacobbe (Gn 30,39) e della sua
produzione di pecore striate ad arte è certo un evento che parte da Dio (si
è provato tante volte di ripetere ciò che fece Giacobbe, ma senza alcun
risultato), ma è pure l'eco di un'osservazione millenaria a cui si dava
credito. Le conquiste sullo studio del comportamento psichico del feto nel suo
rapporto con la madre, e con l'esterno (battito del cuore della madre, voce,
respiro, rumore dei passi, della tosse, musica, carezze, stati di stress della
madre, serenità), ci dicono che il feto è attivo nel conseguire la coscienza del
sé. Il feto tocca con le mani, i piedi, lo spazio che lo racchiude, e
mentre fa questo si rende sempre più consapevole delle sue possibilità, del suo
schema corporeo.
Una parola
dalla Bibbia
Qualcosa la Bibbia ci
offre riguardo all'involuzione umana, (non involuzione ancestrale di
richiamo alla scimmia) quando parla che dall'unione delle figlie degli
uomini, corrotte dal peccato, con i figli di Dio. Da una generalizzazione della
corruzione nacquero i giganti dell'antichità (Gn 6,4). Non è questo il residuo
di mitologie, ma la traccia di antichissimi ricordi.
L'immane catastrofe
del diluvio (Gn 6,5s), un processo prolungato nel tempo, diede termine alle forme umane
avvilite. Il racconto biblico dice che sopravvisse il clan Noetico, ma è
indubbiamente una riduzione narrativa popolare, centrata sul personaggio al
quale Dio riferì il suo proposito di pace riguardante tutto il genere umano,
nel segno dell'arcobaleno, significante Cristo. Rimase un'umanità, che pur
segnata dalle tracce genetiche del passato, aveva in sé gruppi formalmente
sani, destinati ad emergere, non più bloccati dalla forza e dalla ferocia degli
uomini del passato (Gn 6,1-4).
La tesi della
propagazione dell'Homo sapiens dall'area africana, a cui vanno aggiunti elementi
neandetheliani-moderni, effettivamente ritrovati in Palestina alla data di 100
mila anni fa, non sarebbe in contraddizione con la narrazione biblica del
post-diluvio.
Di nuovo il genere
umano si diffuse sulla terra, spingendosi fino all'America, attraverso lo
stretto di Bering, che durante le ere glaciali era percorribile per mezzo di una
lingua di terra detta Baringia; un vero ponte tra l'Asia e l'America
settentrionale.
L'orologio molecolare
L'esistenza di un orologio molecolare venne
avanzata nel 1965 da Linus Pauling e dal suo collaboratore Emile Zuckerkandl.
Si tratta di un metodo di datazione rivolto a cercare i
tempi di divaricazione dei ceppi dei primati, cioè vedere quando lo scimpanzé
si è ramificato dai ceppi precedenti, ecc.
Il tutto tenendo conto del numero di mutazioni intervenute
nel passaggio da una struttura biomolecolare (proteine, sostituzione di
nucleotidi nel DNA) ad un'altra, nell'ipotesi che ci sia sempre una direzione
evolutiva costante. Altro presupposto, non dimostrato, è che tali mutazioni si
siano verificate costantemente nel tempo. Da ciò la necessità di testare il
tempo delle mutazioni in base a reperti fossili, per poi cercare di
raggiungere i tempi delle varie divaricazione delle specie, nella necessità, però,
di ipotizzare tempi di accelerazione o decelerazione, per
collimare con i dati della paleontologia.
Wen Hsiung Li dell'University of Chicago negli anno 80
confutò l'esistenza di un orologio molecolare valido universalmente per tutte
le specie, poiché ogni specie è differenziata.
Wen introdusse nei suoi studi l'ipotesi dell'effetto del “tempo
di generazione”, che vuol dire questo: tanto più la generazione di un
animale è lunga tanto più è lungo il tempo delle mutazioni; nell'uomo una
maggiore speranza di vita, un tempo lungo per raggiungere la maturità sessuale,
un elevato tempo di gestazione, quindi un maggior tempo di generazione.
Traducendo “in soldoni” vuol dire che chi campa di più ha nel tempo un
avanzamento più lento: non è però una grande intuizione.
Ma oltre questo dettaglio, una mutazione nel DNA è legata,
in una specie, alla diversificazione genetica individuale, a cui si aggiunge
l'azione dell'adattamento ambientale, delle situazioni alimentari, delle
dimensioni di una popolazione; e nel caso dell'uomo anche da elementi
intenzionali: etica e civiltà.
La teoria degli equilibri punteggiati avverte - sulla
base della realtà - che l'evoluzione non è affatto una costante lineare.
Ma bisognerebbe anche valutare, all'interno di una specie,
gli episodi di involuzione, cosicché i successivi episodi di ristabilimento
perfettivo non siano presi quali prove di evoluzione per l'orologio
molecolare.
I dati dell'orologio molecolare si trovano così a seguire
le orme dei dati dei fossili, e delle datazioni della paleontologia, pur
mettendo sul tavolo una gamma di dati fino a ieri invisibile, coi quali tentare
di raggiungere date, non raggiungibili per via fossile. A ciò va aggiunta la
difficoltà di reperire sicure testimonianze genetiche in fossili tanto antichi.
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