Le diverse inesattezze storiche e geografiche del libro di
Tobia pongono immediatamente una domanda: l’autore sapeva degli errori che
stava scrivendo?
Sapeva l’autore che Ectabana era più in alto di Rage?
Sapeva che lo scisma di Geroboamo si era consumato nel 931
e che la deportazione dalla Samaria avvenne nel 734?
Sapeva che dopo Salmasaar ci fu Sargon e non subito
Sennacherib?
Sapeva che tra Ectabana e Rage ci sono 300 km e non due
giorni di cammino?
Sapeva che Ninive venne distrutta nel 612, cioè più tardi
della possibile data di morte di Tobia, figlio di Tobi?
Se sapeva questi dati e ha voluto fare una narrazione dove
sono contraddetti, si dovrebbe concludere che nella composizione introdusse dati volutamente fasulli, il che non può piacere a nessuno.
Che
cosa allora intese fare l’autore del libro di Tobia, così privo di
preoccupazione per una verifica dei dati storici e geografici? Scrivere un testo
per presentare la vita del quotidiano familiare dentro le grandi vicende
storiche di Israele e della nazioni. Fece un atto di
attenzione per il quotidiano di una famiglia.
Del resto la caduta della monarchia di Israele veniva a
far emergere la storia del quotidiano, il riferimento alla vita domestica, patriarcale, così ben evidente
nel libro della Genesi.
Dei grandi, infatti, lo scrittore non se ne occupa, anche
se gli interessa un certo Achikar, un antico sapiente, cancelliere di Sennacherib e di Assaraddon
(Cf. 1,22; 2,10; 11,18; 14,10), ma questo perché viene presentato del parentado
di Tobi.
L’autore pare proprio uno scriba che si sia allontanato
dalle palestre del sapere per una vita pia e semplice, e che si sia lasciato
assorbire, senza resistenze, dalla quotidianità di un villaggio dove, come in
ogni villaggio, le narrazioni affermatesi si tramandavano e ritramandavano
attorno al focolare, e per questo subivano ritocchi che legittimavano ritocchi,
inglobando fatalmente errori storici e geografici. L’autore assunse dalle
narrazioni paesane su Tobi anche l’ambientazione storica che ne veniva data,
con l'unica intenzione di scrivere un libro di edificazione per la vita del
quotidiano in mezzo a tante difficoltà causate dalla superbia dei potenti.
L’autore intese, così,
dare vita letteraria a una storia della narrativa popolare, che potè ampliare
per un fine teologico e pastorale. Interprete di una necessità del tempo, il libro
varcò subito i confini del villaggio e si affermò.
Per i lettori del passato
il libro di Tobia era un libro storico,
per noi, disincantati da tante analisi, il libro di Tobia, che è parola di Dio,
è un libro sapienziale nel quadro di una tipologia familiare,
alla cui origine non è estraneo un lontano fondamento storico.
E’ per noi un bellissimo
libro capace di condurre alla valorizzazione delle persone e dei vincoli
familiari, alle piccole cose che diventano grandi se vissute nella fede e
nell’amore, e che vengono a costituire, così, la serenità del quotidiano. Un
libro che è ben lontano dal fomentare un “riflusso
nel privato” poiché promuove una viva appartenenza al popolo di Dio, nel
vincolo di una fede che aspetta il tempo della futura Gerusalemme messianica.
Certamente lo scritto venne
composto nel postesilio, forse nel 200
a.C.
La
drammatica situazione di Sara
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(7-17)
“Nello stesso giorno capitò a Sara figlia
di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di
una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a
sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che
potessero unirsi a lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva:
<Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette
mariti e neppure di uno hai potuto godere. Perché vuoi battere noi, se i tuoi
mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non abbiamo mai a vedere né
figlio né figlia>. In quel giorno dunque essa soffrì molto, pianse e salì
nella stanza del padre con l’intenzione di impiccarsi. Ma tornando a riflettere
pensava: <Che non abbiano ad insultare mio padre e non gli dicano: La sola
figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure. Così
farei precipitare la vecchiaia di mio padre con angoscia negli inferi. Farò
meglio a non impiccarmi e a supplicare il Signore che mi sia concesso di
morire, in modo da non sentire più insulti nella mia vita>. In quel momento
stese le mani verso la finestra e pregò: <Benedetto sei tu, Dio
misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli. Ti benedicano tutte le
tue opere per sempre. Ora a te alzo la faccia e gli occhi. Dì che io sia tolta
dalla terra, perché non abbia a sentire più insulti. Tu sai, Signore, che sono
pura da ogni disonestà con uomo e che non ho disonorato il mio nome, né quello
di mio padre nella terra dell’esilio. Io sono l’unica figlia di mio padre. Egli
non ha altri figli che possano ereditare, né un fratello vicino, né un parente,
per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché
dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guardami con benevolenza:
che io non senta più insulti>”.
Appare immediatamente l’odio di una
serva, a cui risale, da quanto il testo consente di arguire, la stregoneria.
La perversità dei mariti.
Il maleficio è inoperante su Sara, ma tuttavia il demonio si
ripromette di condurla alla disperazione. La serva lavora nella medesima
direzione, vedendo che la padrona rimane in vita e in salute. Così l’accusa di
essere lei la causa della morte dei mariti e le augura la morte esasperando la
sua situazione di dolore, portandola così al pensiero di uccidersi.
Agisce a difesa di Sara la sua integrità
che rifiuta un approccio brutalmente sensuale: “Tu
sai, Signore, che sono pura da ogni disonestà con uomo”.
L’odio del demonio voleva insozzare
infatti Sara, travolgerla nella lussuria, per poi averla in potere. (I
matrimoni allora avvenivano con l’interferenza dei genitori per cui i due
sentivano il bisogno di avere un minimo di conoscenza nell’affetto, ma questo
mancava nella prima notte dei matrimoni di Sara, e Sara lo percepiva con
raccapriccio).
Il nome Asmodeo del demonio deriva dall’ambiente popolare. Il nome
lo si è accostato ad Aeshma, uno dei sette demoni del parsismo, ma è più
probabile che il nome derivi dalla radice ebraica “samad” (distruggere).
La prima osservazione è che il demonio non ha potere su chi vive i
comandamenti di Dio. Già Balaam, chiamato a fare un rito di stregoneria contro
Israele, si trovò nell’impossibilità di nuocergli (Nm 22; 23; 24). Per Sara la
situazione è quella di una durissima prova, sulla cui durata vigila Dio.
La seconda osservazione è che mentre nel libro di Giobbe Dio non
dà a Satana il potere di togliere la vita a Giobbe, qui accade che Asmodeo ha
il potere di uccidere i mariti di Sara; ma in questo caso quegli uomini devono
avere raggiunto dei vertici di perversione, per cui è configurabile, con
certezza, che i mariti di Sara fossero uomini biechi che il demonio spingeva
verso la donna per insozzarla. Poi, di fronte allo smacco di vederla salda e
difesa da Dio, il demonio si scagliava nella più furibonda rabbia contro l’uomo
che aveva fallito nella sua seduzione brutalmente sensuale. Dio, che
disapprova un matrimonio inteso come sfogo di bestialità, permetteva, secondo
giustizia, la morte dei vari mariti, anche in ragione della difesa della donna.
Ma quell’uomo, nel momento di essere ucciso, aveva un’occasione di salvezza,
vedendo il vero volto del maligno e la testimonianza di una vera virtù.
Un
pesce molto utile
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(1-9)
“Il giovane partì insieme con l’angelo e
anche il cane li seguì e s’avviò con loro. Camminarono insieme finché li
sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri.
Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò
dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. Ma
l’angelo gli disse: <Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire>. Il ragazzo
riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. Gli disse allora l’angelo:
<Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte e getta
via invece gli intestini. Il fiele, il cuore e il fegato possono essere utili
medicamenti>. Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il
fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in
serbo dopo averla salata. Poi tutti e due insieme ripresero il viaggio, finché
non furono vicini alla Media.
Allora il ragazzo rivolse all’angelo questa domanda:
<Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele
del pesce?>. Gli rispose: <Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare
suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da
uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia
alcuna. Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da
albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono>".
Il pesce, sicuramente un luccio, si avventa contro il giovane
Tobia, ma quel pesce che poteva diventare una grande disgrazia, per
l’intervento di Raffaele diventa una fonte di salvezza. Tobia riesce con
facilità a catturarlo (il luccio è un pesce voracissimo, può arrivare fino a
due metri di lunghezza; lo si ritrova nel fiume Tigri). Raffaele costituisce
cuore e fegato del pesce a sacramentali per una futura azione contro Asmodeo.
Il fiele viene costituito come un sacramentale per un rito di guarigione
dall’albugine degli occhi. L’esorcismo sarà per liberare Sara, e il fiele per
ridare la vista a Tobi (11,11).
Le
rassicurazioni di Raffaele
(14-19) “Allora Tobia rispose a Raffaele:
<Fratello Azaria, ho sentito dire che essa è già stata data in moglie a
sette uomini ed essi sono morti nella stanza nuziale la notte stessa in cui
dovevano unirsi a lei. Ho sentito inoltre dire che un demonio le uccide i
mariti. Per questo ho paura: il demonio è geloso di lei, a lei non fa del male,
ma se qualcuno le si vuole accostare, egli lo uccide. Io sono l’unico figlio di
mio padre. Ho paura di morire e di condurre così alla tomba la vita di mio
padre e di mia madre per l’angoscia della mia perdita. Non hanno un altro
figlio che li possa seppellire>. Ma quello gli disse: <Hai forse
dimenticato i moniti di tuo padre, che ti ha raccomandato di prendere in moglie
una donna del tuo casato? Ascoltami, dunque, o fratello: non preoccuparti di
questo demonio e sposala. Sono certo che questa sera ti verrà data in moglie.
Quando però entri nella camera nuziale, prendi il cuore e il fegato del pesce e
mettine un poco sulla brace degli incensi. L’odore si spanderà, il demonio lo
dovrà annusare e fuggirà e non comparirà più intono a lei. Poi, prima di unirti
con essa, alzatevi tutti e due a pregare. Supplicate il Signore del cielo
perché venga su di voi la sua grazia e la sua salvezza. Non temere: essa ti è
stata destinata fin dall’eternità. Sarai tu a salvarla. Ti seguirà e penso che
da lei avrai figli che saranno per te come fratelli. Non stare in pensiero>.
Quando Tobia sentì le parole di Raffaele e seppe che Sara era sua consanguinea
della stirpe della famiglia di suo padre, l’amò al punto da non saper più
distogliere il cuore da lei”.
La via d’uscita da questa situazione, oltremodo tenebrosa, è
segnata dalla fede di Sara e dall’azione della Provvidenza, che le fa
incontrare uno sposo che l’ama, e che è un legittimo pretendente (6,12) secondo
la legge del levirato data da Mosè (Cf. Gn 38,1s; Dt 25,5).
Quello che anima Tobia nei confronti di Sara è l’amore.
Il
felice esito del matrimonio
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(1-9)
“Quando ebbero finito di mangiare e di bere,
decisero di andare a dormire. Accompagnarono il giovane e lo introdussero nella
camera da letto. Tobia allora si ricordò delle parole di Raffaele: prese dal suo
sacco il fegato e il cuore del pesce e li pose sulla brace dell’incenso L’odore
del pesce respinse il demonio, che fuggì nelle regioni dell’alto Egitto.
Raffaele vi si recò all’istante e in quel luogo lo incatenò e lo mise in ceppi.
Gli altri intanto erano usciti e avevano chiuso la porta della camera. Tobia si
alzò dal letto e disse a Sara: <Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al
Signore che ci dia grazia e salvezza>. Essa si alzò e si misero a pregare e a
chiedere che venisse su di loro la salvezza, dicendo: <Benedetto sei tu, Dio dei
nostri padri, e benedetto per tutte le generazioni è il tuo nome! Ti benedicano
i cieli e tutte le creature per tutti i secoli! Ti hai creato Adamo e hai creato
Eva sua moglie, perché gli fosse di aiuto e di sostegno. Da loro due nacque
tutto il genere umano. Tu hai detto: Non è cosa buona che l’uomo resti solo;
facciamogli un aiuto simile a lui. Ora non per lussuria io prendo questa mia
parente, ma con rettitudine d’intenzione. Degnati di aver misericordia di me e
di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia>. E dissero insieme: <Amen,
amen!>. Poi dormirono per tutta la notte”.
Il demonio fugge nell’alto Egitto. L’Egitto è pensato come
luogo rifugio dei demoni, questo per le sue magie, le sue idolatrie. L’accenno
all’Egitto è rivolto a sottolineare quanto sia stato grande l’errore dei re
d’Israele di appoggiarsi all’Egitto. Là l’arcangelo Raffaele lo incatena. La
realtà e che il demonio viene respinto negli abissi infernali (Cf. Ap 20.3).
Questo passo del libro presenta una vera liturgia coniugio.
L’atto coniugale vi appare nella sua splendente verità di rito della vita.
I due pregano perché il loro incontro sia santo e fecondo. Dio non nega affatto
le giuste gioie dell’incontro tra l’uomo e la donna, non è un carceriere Dio,
ma non vuole essere estromesso nel suo disegno che ha voluto l’uomo e la donna
suoi collaboratori nella creazione di nuove vite.