Testo e
commento
Capitolo
8
Il libro può essere immediatamente definito un proclama
alla resistenza nella fede contro i nemici della fede di Israele.
Le notizie storiche che il libro presenta hanno molti
errori.
Indubbiamente Oloferne è un nome persiano e non è
pensabile all’esistenza di un persiano quale generale di Nabucodonosor; ma può
essere che fosse generale di Artaserse III Oco (358-338), che ebbe tra gli
ufficiali proprio un Oloferne e un Bagoa, e così ci sarebbe uno scambio di nomi
tra Artaserse e Nabucodonosor (605-652).
Ma gli errori si aggrovigliano dal momento che
Nabucodonosor non regnò a Ninive, distrutta da suo padre Nabopolassar, ma a
Babilonia; e poi era già da un pezzo morto, visto che le vicende sono collocate
dopo il rientro dall’esilio, avvenuto con l’editto di Ciro (Gdt 4,3; 5,19).
Il percorso di guerra di Oloferne (2,21-28) è una sfida a
collocarlo ragionevolmente su di una cartina geografica; tuttavia Betulia è
pensata nel territorio di Simeone, che coerentemente è detto accanto agli
Idumei e gli Ammoniti (7,18). L’importanza strategica data a Betulia (fortezza
non altrimenti conosciuta) come punto obbligato per la conquista della Giudea è
esagerata se si considera che la conquista poteva avvenire da ovest passando
lungo la costa, come fece Sennacherib (704-681) (2Re 18,17), ma a temperare
questo va considerato che Betulia è anche dentro il crudele gioco di Oloferne
contro Achior (6,7).
Nel libro ci sono ben sette capitoli di “storia” prima di
introdurre la figura di Giuditta; ma questi sono innanzitutto funzionali a
produrre un “clima da apocalisse” mediante la figura
tracotante di Oloferne.
Il
libro si configura non con preoccupazioni storiche, ma è un invito alla
fiducia in Dio di fronte ai nemici di Israele. L'evento di Betulia e di
Giuditta certamente si riferisce a qualcosa di storicamente modesto, esaltato
poi dall'autore in un libero magma di ricordi popolari di guerra. Il genere
letterario si può definire quello di un'esortazione alla resistenza,
centrata su di una donna, che esprime un ruolo di animazione alla lotta,
superando l'immagine tradizionale della donna che invita l'uomo ad un
ripiegamento nel privato facendo leva sulla sua bellezza, ma che usa del suo
fascino per animare il popolo alla vittoria e umiliare il nemico.
Il libro si configura non come un’opera con vere
preoccupazioni storiche, ma come un proclama
alla resistenza nella fede di fronte ai nemici di Dio; un invito alla
fiducia in Dio in ogni circostanza.
Giuditta (La-giudea)
è disarmata, non ha potenza terrena; ha la naturale bellezza datale da Dio, ma
soprattutto ha la bellezza interiore datale dalla fede. Altro non ha per
vincere; e vince un colosso di fronte al quale eserciti interi si sono
sfaldati.
La strategia di Giuditta parte dalla situazione di Betulia
dove si pensa alla resa, che lei intende come tradimento a Dio. Lei va verso il
nemico, cerca l’incontro; ma non è una resa. Si consegna, in definitiva,
all’avversario, ma non vilmente, bensì con un piano per il trionfo di Dio. A
Betulia si sta consumando una defezione religiosa, nella quale non vuole essere
coinvolta, e va da Oloferne per convertirlo alla sua fede e poi - e qui
nasconde le sue intenzioni vere - umiliare con lui i traditori di Betulia.
L’avversario rimane ammaliato dal fascino della bellezza
di Giuditta resa massima proprio dal suo ideale, dalla sua fede. Tutto l’essere
di Oloferne si orientò così ad espugnare la fede di Giuditta e farla diventare
sua compiacente concubina (12,12). Fu, al di là delle galanterie, un durissimo
scontro nel quale Oloferne ebbe la peggio perché, sensuale, non calcolò più
niente se non il piacere di subire il fascino della donna nel sogno di averla,
ma di averla per conquista del cuore, e non per violenza; conquistarla
facendole credere di essere con lei, col suo Dio; conquistarla nel piacere di
poter ridere poi di lei e del suo Dio. Oloferne, perdutamente distratto
dall’ebbrezza di questi pensieri, fa il passo falso di lasciarsi prendere dal
vino. A questo punto per Giuditta è giunto il momento di ucciderlo tagliandogli
la testa; il terribile avversario è caduto nel tranello. La situazione è di guerra
e fuggire da quel momento, del resto cercato, era lasciar perire Betulia e poi,
secondo la drammatizzazione apocalittica dell’autore del libro (8,21), tutta la
Giudea. Restare, lasciandolo vivo, era finire nella rete della sua seduzione.
Così Giuditta, della tribù di Simone, memore della violenza fatta a Dina e
della vendetta (Gn 34,1; Gdt 9,2), fatta con astuzia crudele - riprovata nel
poema delle benedizioni di Giacobbe (Gn 49,5) -, ma da lei vista positivamente
sulla scorta della tradizione della sua tribù, con una scimitarra tagliò la
testa ad Oloferne. Il gesto in sé è per sé è vile, ma è anche coraggioso perché
nel contesto di un totale rischio per Giuditta. Morire per mano di donna e per
giunta in un confronto di seduzione era ricevere il massimo del disonore.
L’esercito di Oloferne ne rimase sconcertato e si sfaldò incalzato dagli
Israeliti, che, liberi dalla sete e dalla fame, uscirono armati da Betulia.
Giuditta è la donna coraggiosa, di fede, che viene a
contrapporsi all’immagine - comune in Israele - della donna che con la sua
bellezza e seduzione sgretola la forza dell’uomo allontanandolo dalla fede.
L’immagine negativa sulla donna viene capovolta da lei che utilizza tutta la
sua realtà femminile per difendere la fede del suo popolo da chi la vorrebbe
distruggere.
Giuditta appare così - e l’autore del libro l’ha voluto -
un’immagine di Israele nel postesilio, che pur politicamente piccolo si impone
per la bellezza che gli viene da Dio, e per una fede che gli dona coraggio e
determinazione.
Il libro è stato scritto tra il 100 e il 50 a.C. a
seguito del clima di fervore originato dalla resistenza dei Maccabei alla
penetrazione in Israele dei costumi ellenistici.
La coraggiosa Giuditta è anche una figura di Maria; ma
Maria farà ben di più e ben di meglio; Giuditta uccise per la salvezza della
fede del suo popolo, ma Maria uccise se
stessa accettando dalle mani del Padre la crocifissione del Figlio,
cooperando così alla salvezza del
mondo.
8
10-27 “Subito
(Giuditta) mandò la sua ancella particolare che aveva in cura tutte le sue
sostanze a chiamare Gabri e Carmi, che erano gli anziani della città. Vennero
da lei ed essa disse loro: <Ascoltatemi bene, voi capi dei cittadini di
Betulia. Non è stato affatto conveniente il discorso che oggi avete tenuto al
popolo, aggiungendo il giuramento che avete pronunziato e interposto tra voi e
Dio, di mettere la città in mano ai nostri nemici, se nel frattempo il Signore
non vi avrà mandato aiuto. Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo
giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo
voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente,
né ora né mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo del cuore dell’uomo
né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore,
che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi
disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà
aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni
che vuole o anche di farci distruggere da parte dei nostri nemici. E voi non
pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come
un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni come ad uno degli uomini.
Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che
venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido se a lui piacerà. Realmente
in questa nostra generazione non c’è mai stata, né esiste oggi una tribù o
famiglia o popolo o città tra di noi, che adori gli dei fatti da mano d’uomo,
come è avvenuto nei tempi passati. Per questo motivo i nostri padri furono
abbandonati alla spada e alla devastazione e caddero rovinosamente davanti ai
loro nemici. Noi invece non riconosciamo altro Dio fuori di lui e per questo
speriamo che egli non trascurerà noi e neppure la nostra nazione. Perché se
noi resteremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato
il nostro santuario e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro
sangue. L’uccisione dei nostri fratelli, l’asservimento della patria, la
devastazione della nostra eredità Dio la farà ricadere sul nostro capo in
mezzo ai popoli pagani tra i quali ci capiterà di essere schiavi e saremo così
motivo di scandalo e di disprezzo di fronte ai nostri padroni. La nostra
schiavitù non guadagnerà alcun favore, perché la porrà a nostro disonore il
Signore Dio nostro. Dunque, fratelli, dimostriamo ai nostri fratelli che la loro
vita dipende da noi, che i nostri sacri pegni, il tempio e l’altare, poggiano
su di noi. Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla
prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con
Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe
in Mesopotamia di Siria, quando pascolava i greggi di Làbano suo zio materno.
Certo, come ha passato al crogiolo costoro non altrimenti che per saggiare il
loro cuore, così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a fine di correzione
che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino>”.
Questo discorso è la chiave di tutta la
teologia del libro di Giuditta, e presenta il quadro teologico della lotta
Maccabaica.
L’intervento di Giuditta vuole liberare
i capi di Betulia dall’idea che si stia ripetendo quanto avvenne nel passato
per Gerusalemme, quando Dio chiese a Sedecia la resa all’esercito babilonese (Ger
38,17), promettendo salvezza. La situazione, dice Giuditta, è diversa, perché
allora Dio era disgustato per i cedimenti idolatrici di Israele, ora questi
cedimenti idolatrici non ci sono, e perciò la situazione deve essere intesa
diversamente, cioè come prova. La resa ad Oloferne non porterebbe a salvezza la
città di Betulia, ma anzi ne verrebbe che con il suo esempio di resa,
avvierebbe un processo di resa che condurrebbe alla devastazione del tempio e
dell’altare.
Proprio sulla scorta dell’idea che la
resa poteva rientrare nel volere di Dio, i capi di Betulia avevano fatto il
giuramento che se entro cinque giorni non fosse scesa la pioggia, poiché la
città era assetata, si sarebbero consegnati ad Oloferne.
Giuditta afferma che quel giuramento e i
cinque giorni non sono il segno di un abbandono ai disegni di Dio, un atto di
fiducia, ma un tentare Dio, poiché si misconosce la fedeltà di Dio al suo
popolo, al suo disegno di salvezza. Così bisogna essere fiduciosi di Dio e
aspettare la sua salvezza, senza dargli delle scadenze, che si traducono poi in
un addossare a Dio le conseguenze delle scelte. E le conseguenze Giuditta le
presenta drammaticamente: “Perché se noi saremo presi, resterà presa anche
tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro Santuario e Dio chiederà ragione
di quella profanazione al nostro sangue”. Poi, non si avrà nessuna clemenza
di Oloferne, che porrà il popolo in schiavitù.
La teologia di Giuditta si articola tutta
sulla prova, che deve essere accettata, come l’accettarono Abramo e Giacobbe;
ma a questo aggiunge anche la componente del castigo, che come tale non è dato
per vendetta, ma per correzione. Giuditta non pensa che il popolo sia sgradito
davanti a Dio, come se avesse ceduto agli idoli, ma tuttavia lo pensa bisognoso
di correzione, per cui l’assedio di Betulia, con tutto il suo carico di
sofferenze, è castigo, ma per la correzione. Con il concetto di castigo
Giuditta completa il quadro teologico della situazione di Betulia, diverso anche
da quello di Abramo e di Giacobbe, dove la prova era esente dal castigo. Infatti
a Betulia il popolo non regge alla prova, e cade nell’infedeltà di portare i
capi ad un giuramento tentatore di Dio. E’ il segno di una tiepidezza che
porta Giuditta a parlare di castigo, ma non per la distruzione. Così la prova
non è per la distruzione e neppure il castigo è per la distruzione; dunque Dio
interverrà.
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