Il profeta Giona è identificato con il profeta Giona del secondo Libro dei Re (14,25), contemporaneo di Geroboamo II (783-743). Considerando i dati linguistici, il testo venne scritto nel post-esilio, probabilmente dopo le conquiste di Alessandro Magno.
Ninive divenne capitale dell’impero assiro sotto il re Sennacherib (704 - 681), quindi al tempo di Giona ancora non lo era, mentre la narrazione presuppone che lo fosse, ma ciò non crea problema dal momento che il testo è al termine di una lunga tradizione ed elaborazione orale dove prevalse l’amplificazione didattica. Lo scopo del libretto non è infatti precisamente storico, ma didattico, di invito a considerare la provvidenza di Dio non stretta solo al popolo eletto di Israele, ma estesa a tutti popoli.
Il testo rimarca la riluttanza di Giona ad una missione di salvezza per Ninive, grande città dell'Assiria, nemica di Israele. Per Giona la salvezza di Israele passa attraverso la distruzione di Ninive, e non
attraverso la sua sopravvivenza. Il pensiero che Giona non arriva a capire è che la salvezza di Ninive, desiderata dalla misericordia di Dio, si rifletteva in pace per Israele. La distruzione del nemico non è la via lungimirante per garantirsi la pace: Questo è l’insegnamento più profondo del libro di Giona. Il profeta cercò di fuggire lontano per non essere più a disposizione del Signore.
Contro Giona, in fuga su di una nave, si scatenò una tempesta che mise in difficoltà l’equipaggio. Seguì una sorprendente conversione dei marinai al
Dio del cielo, creatore del mare e della terra, poiché i marinai, pur lontani dall'abbracciare la fede di Giona, invocarono Dio con il nome di
Jahvéh (1,14s). Giona, riconosciuto colpevole, venne gettato in mare, ma un grande pesce lo inghiottì, e fu la sua salvezza.
A Ninive Giona fu annunciatore di una triste notizia basata sulla giustizia di Dio, ma che era anche una buona notizia, poiché presentava Dio disposto a dare tempo per convertirsi.
Il libro - un vero gioiello - possiede un grande respiro universalistico circa la misericordia di Dio, e un grande invito alla fiducia che la parola di Dio, quando non sia volutamente, coscientemente rifiutata, opera sempre.
Sembrerà che la zolla di terra non abbia recepito nulla della pioggia, ma un po’ di acqua vi è penetrata e ha reso la
zolla migliore. Ci si domanda se il miracolo di Giona inghiottito dal pesce e poi rilasciato fu un fatto reale. Per gli uomini del tempo di Gesù il miracolo del pesce esistette; bastò loro sapere della grandezza dei cetacei; e in effetti balenottere lunghe fino a 15/30 metri possono essere viste nel Mediterraneo.
Per molti di oggi le cose sembrano meno facili da accogliere, ma le soluzioni avanzate non sono poi molto convincenti. Un lontano fondamento della vicenda di Giona pare proprio esistere, comunque il testo intende comunicare la potenza di un miracolo. Giona si trovò ancora dinanzi alla missione Ninive, che accettò, ma con la speranza che fosse inutile. La città di Ninive, che verrà distrutta nel 612 dal Babilonese Nabopolassar, è presentata come “la grande città” di tre giornate di cammino.
1 (1-3)
"Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: “‹Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è giunta fino a me›. Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore".
Giona non accettò di andare in missione a Ninive perché città nemica di Israele. Giona sapeva che Dio è presente ovunque, ma va verso Tarsis per sottrarsi al suo servizio. Lontano dall’area geografica in questione, Dio non potrà più servirsi di lui. Regolarmente Giona paga quanto deve per il viaggio. Tarsis è probabilmente Tartassos in Spagna.
(4-6)
"Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale che la nave stava per sfasciarsi. I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio e gettarono a mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più riposto della nave, si era coricato e dormiva profondamente. Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: ‹Che cos’hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo›”.
Giona in mezzo al rullare e beccheggiare della nave dormiva profondamente, nel luogo più lontano dal ponte. Un sonno profondo che sorprese il capo dell’equipaggio. Tale sonno rende benissimo lo stato di Giona, il quale pensa che Dio dovrà tener conto della sua protesta; ma Dio non lo lascia, non rinuncia a lui, come non rinuncia a Ninive.
7-10 "Quindi dissero tra di loro:
‹Venite, gettiamo le sorti per sapere per colpa di chi ci è capitata
questa sciagura›. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. Gli
domandarono: ‹Spiegaci dunque per causa di chi abbiamo questa sciagura.
Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale
popolo appartieni?›. Egli rispose: ‹Sono Ebreo e venero il Signore Dio
del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra›. Quegli uomini furono
presi da grande timore e gli domandarono: ‹Che cosa hai fatto?›. Quegli uomini infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva il Signore, perché lo aveva loro raccontato".
La tempesta non cessa neppure quando Giona si mette a pregare. Dunque, c’è un colpevole in mezzo a loro che attira l’immane tempesta, che sta per farli naufragare. Tirate le sorti
(forse pietruzze con incisioni sopra), scoprono che è Giona la causa di quella tempesta. Giona dice che il suo Dio è il creatore del cielo, della terra e del mare. Di fronte a un tale Dio i marinai sono presi da timore.
11-12 "Essi gli dissero: ‹Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?›. Infatti il mare infuriava sempre di più. Egli disse loro: ‹Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia›”.
Ci rivelano molta umanità questi marinai che aspettano da Giona la spontanea soluzione del dramma, che comporta per loro che venga giustiziato. Giona per farla finita con tutto, dice che la soluzione è proprio quella.
13-16 "Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano perché il mare andava sempre più crescendo contro di loro. Allora implorarono il Signore e dissero:
‹Signore, fa che noi non periamo a causa della vita di questo uomo e non imputarci il sangue innocente poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere›
. Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. Quegli uomini ebbero grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e fecero voti".
I marinai implorarono che il Signore non imputasse loro il sangue innocente; quindi buttarono in mare Giona. I marinai poi ebbero un grande timore del Signore e a lui offrirono sacrifici e voti. L’insegnamento è chiaro: i pagani sono capaci di umanità e di fronte alla potenza di Dio si aprono a lui, riconoscendolo sovrano della terra, del mare e del cielo.
2
1
Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona
restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
2 Dal ventre
del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio,
3 e disse:
L’idea di un grosso pesce che poteva inghiottire una persona gli uomini dei territori che si affacciavano al Mediterraneo l’avevano. Le navi commerciali di Tiro, di Sidone, e anche di Israele nel momento della sua massima prosperità, dovevano prima o poi incontrare balenottere introdottesi nel Mediterraneo. Per cui l’episodio del grosso pesce non doveva far meraviglia al lettore, se non sul punto che Giona dopo “tre giorni e tre notti” fosse, contrariamente a tutto, ancora in vita; anzi, durante quel tempo era sveglio, dal momento che pregava stando nel ventre del grosso pesce. L’episodio è stato assunto da Gesù, spogliato del miracolo di Giona rimasto in vita, a significare che sarà inghiottito dalla terra, con la sua sepoltura, ma solo per un tempo determinato, a cui seguirà la liberazione dalla morte con la risurrezione.
“Nella mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha risposto;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
4
Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare,
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.
5
Io dicevo: ‹Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio›.
6
Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto,
l’alga si è avvinta al mio capo.
7
Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore, mio Dio.
8
Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta
fino a te,
fino al tuo santo tempio.
9
Quelli che servono idoli falsi
abbandonano il loro amore.
10
Ma io con voce di lode
offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore”.
Questo salmo di ringraziamento è comunemente giudicato un inserto introdotto nel testo da un redattore. Ciò è evidente dal fatto che Giona non è ancora fuori pericolo, mentre il salmo lo suppone. La lingua usata è differente da quella del resto del libro per mancanza di aramaismi.
Il significato di questo inserto lo si può pensare come un accostamento della schiavitù in Egitto al carcere buio del ventre del grande pesce. Israele, inghiottito dal mostro Egizio, rimase capace di preghiera, che giunge, nella liberazione, in un inno di lode. L’Egitto era simboleggiato dal coccodrillo, associato
al mostro marino Leviatan della mitologia fenicia (Ps. 73/74,14).
Possono essere compatibili con il dramma della schiavitù in Egitto le espressioni: “Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto”; “dal profondo degli inferi”; “nel cuore del mare”; “tutti i tuoi flutti e le tue onde”; “le acque mi hanno sommerso”; “l’abisso mi ha avvolto”; “l’alga si è avvinta al mio capo”; “sono sceso alle radici dei monti”;
“la terra ha chiuso le sue spranghe”; “tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita”; “quelli che servono idoli falsi”; “offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto”.
11
E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.
Giona per intervento del Signore, che ha ascoltato la sua preghiera, viene liberato dal grande pesce e posto sulla spiaggia del mare.
3
1-9 "Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore:
‹Alzati, va’ a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò›. Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava:
‹Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta›.
I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi:
‹Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?›”.
La predicazione di Giona è quanto mai scarna. Egli annuncia solo il castigo, ma la possibilità di conversione è deducibile dal fatto che ci sono ancora quaranta giorni. Giona non predicò la fede di Israele, fece solo appello al Dio supremo, “al Dio ignoto” (At 17,23), al quale ogni uomo può giungere. La paura della distruzione, che poteva avvenire per terremoto o per cicloni o per epidemia o per invasione bellica, o per tutte queste cose messe insieme, fece sì che quelli di Ninive iniziassero una collettiva opera penitenziale per stornare l’ira del Dio del cielo. Si ebbe un pentimento rivolto a Dio supremo, che nel pantheon Assiro coincideva, solo in parte, con Assur,
il formatore (non il Creatore dal nulla) dell’universo. A Ninive si innescò un processo di penitenza che venne sancito da un decreto del re.
“Di tre giornate di cammino”.
Ninive aveva, al tempo di Sennacherib (740 - 681), una cinta muraria di
10 km di perimetro, con 15 porte. L’area della città era di 7 kmq. Le
strade erano diritte a incroci ortogonali. Con questi dati si può
pensare che l’insieme complessivo stradale fosse di un 30/35 km. Lo scrittore del libro di Giona, erede di una lunga tradizione orale, pensa a Ninive quale capitale, e quanto alla sua grandezza ricorse al dato convenzionale
"di tre giornate di cammino". Un dato meno convenzionale ci viene fornito dal numero degli abitanti, conforme alle approssimazioni degli storici: 120.000.
10.4,1-4 "Dio vide le loro opere, cioè che si erano convertiti dalla loro vita malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. Pregò il Signore: ‹Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!›.
Ma il Signore gli rispose: ‹Ti sembra giusto essere sdegnato così?›”.
Giona
vide l’azione penitenziale dei Niniviti, ma pensò che tutto fosse invalido, passeggero. Dio non reputò invalida quella penitenza; essa, pur con tutte le imperfezioni e gli errori circa l'unico Dio, era rivolta a lui, e diminuiva il tasso di peccato della città. Giona motivò la sua fuga a Tarsis: “So che sei un Dio misericordioso …”. Giona conosceva ciò da (Es 34,6), passo che in sé stesso riguarda l’alleanza del Sinai, ma che pur rivela l’indole di Dio.
Giona non è da prendersi come un personaggio bizzarro, poiché non lo è affatto, ma come l’esempio di come non sia facile cambiare mentalità. Egli era fermo nel pensare che la misericordia di Dio verso Ninive fosse un dare forza alla grande nemica di Israele: “Perciò mi affrettai a fuggire a Tarsis…”.
Non volle pensare che la conversione di Ninive avrebbe portato la città a non essere più nemica di Israele, e che tale conversione, che abbassasse il livello di peccato al quale la città era giunta, era possibile. Giona pensava che l’annientamento della città fosse più utile dell’usarle misericordia. La prospettiva di Giona era quella che si dovesse estendere la guerra oltre i limiti della conquista della terra santa, specie contro i nemici, per portare poi ovunque la conoscenza di Dio. Questa prospettiva non fu affatto estranea alla dinastia degli Asmonei, che regnò in Israele dopo le imprese dei Maccabei fino alla sottomissione a Roma.
È l’errore che ritroviamo nei contemporanei di Gesù, che pensavano a un Messia militare, che avrebbe esteso il dominio di Israele sulla terra intera.
Giona credette che il suo sdegno fosse tanto giusto da invocare la morte per farla finita, piuttosto che sottostare al proposito misericordioso di Dio, che non riusciva a capire: “Or dunque, Signore, toglimi la vita”. Desiderio questo, che - luogo comune per indicare il proprio estremo stato d’animo - ebbe anche Elia, fuggitivo da Gezabele (1Re 19,4). Dio però gli rispose facendogli rilevare il suo torto: “Ti sembra giusto essere sdegnato così?”.
4
5-8 "Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì un riparo di frasche e vi si mise all’ombra in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona per fare ombre sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntar dell’alba, Dio mandò un verme a rodere il ricino e questo si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare il vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo:
‹Meglio per me morire che vivere›”.
Giona pensò che fosse solo questione di tempo: Dio avrebbe certamente colpito la città, perché, secondo lui, era da colpire. Si mise in un punto di comoda osservazione erigendo una capanna di frasche. Le frasche della capanna si seccarono, ma ecco un ricino cresciuto in breve diede ombra a Giona. Un ricino che era stato dato da Dio perché Giona fosse liberato “dal suo male”, cioè dall’attaccamento alle due idee, dalla sua mancata volontà di lasciarsi plasmare da Dio, di riconoscere la misericordia di Dio verso tutte le genti. Quel ricino si caricò subito d’importanza per Giona poiché gli dava benessere e letizia alla vista, e gli permetteva di restare nel suo posto di osservazione. Il ricino però subito si seccò e nello stesso tempo si alzò un vento afoso d’oriente, che gli tolse del tutto ogni benessere. Così Giona sperimentò la fine del suo piccolo benessere legato alla pianta di ricino, e si incupì augurandosi la morte.
9-11 "Dio disse a Giona: ‹Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?›.
Egli rispose: ‹Si, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!›.
Ma il Signore gli rispose: ‹Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?›"
Dio puntualmente riprese Giona: “Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?”. Giona però rimase irriducibile, e ancor più si chiuse in se stesso stizzito, continuando a invocare la morte; Giona stava facendo affiorare dal suo cuore una piccineria così grande che lo sorprenderà. In definitiva si dava al turbamento, al disappunto, all’agitazione, per una pianta di ricino. Giona, chiuso all’iniziativa di Dio, cade in un abisso: una pianta vale per lui più di tutto; ma Dio lo coglie mentre cade in quell’abisso, presentandogli l’assurdità della sua situazione: lui si dà turbamento, pena, per una pianta, e non vorrebbe che Dio avesse misericordia per la città di Ninive:
“Non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra”; è un’espressione iperbolica che indica l’appannamento delle intelligenze dovuto alle mitologie.
La sollecitudine divina si preoccupa pure degli animali, e dunque quanto più degli uomini.
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