Commento

 

Sulla base dei dati linguistici si conviene che il libro di Giobbe sia stato scritto nel postesilio.

Per il personaggio Giobbe si ammette che l’autore abbia avuto a disposizione degli spunti su di un Giobbe abitante della Terra di Uz; un giusto che era caduto in grandi disgrazie, ma che poi ne era uscito. Un Giobbe diventato famoso è effettivamente esistito come si legge in Ez 14,14.

Il Giobbe del libro è tuttavia ricostruito dall’autore, che assunse il problema teologico del giusto assediato dalle sventure.

Giobbe era il più grande tra i “figli d’oriente”. Tale dizione fa riferimento ai figli di Abramo inviati dal Negheb nella regione orientale (Gn 25,1s) e include anche gli abitanti dell’est della Palestina. La “Terra di Uz” (Ger 25,20; Lam 4,21) va situata a nord di Edom (Esaù; Cf. Gn 25,30) e ad est della Palestina. Non fa parte di Edom, infatti nel testo di Geremia (25,20s) la “Terra di Uz” è distinta da Edom; è vero che nel libro delle Lamentazioni (4,21) “La terra di Uz” è detta abitata dagli Edomiti, ma questo, come indica il contesto, va fatto risalire all’assalto che Edom fece sui territori di Israele al tempo della deportazione a Babilonia.

La “terra di Uz” poteva essere raggiunta dal sud da scorrerie di briganti Sabei (1Re 10,1s; Is 60,6; Ger 6,29), che dimoravano nel nord Arabia, e che probabilmente aggiravano il temibile territorio di Edom. Le scorribande dei Caldei (2Re 24,2) invece dovevano provenire da territori a nord della Transgiordania.

Uz e Buz sono nomi di persona presenti nel Clan di Abramo; il primogenito e il secondogenito di Nacor, fratello di Abramo (Gn 22,21).

Esaminando i nomi dei tre amici, che risultano nei fatti più che altro dei lontani conoscenti, si deve dire che Elifaz il Temanita è della località di Tema (Is 21,14), che è nell’area Edomitica. Elifaz probabilmente è un discendente di Esaù (Gn 36,11), ma certo è un monoteista, distinguendosi così dalla religione di Edom, che aveva assorbito l’idolatria (2Cr 25,14).

Alla base di Bildad il Suchita c’è Suach; uno dei figli inviati in oriente da Abramo (Gn 25,2).

Circa Zofar il Naamatita non si hanno dati.

Eliu è un nome noto agli Ebrei (1Sam 1,1; 1Cr 12,21; 26,7; 27,18). E’ figlio di Barachele il Buzita, cioè un abitante della “Terra di Buz” (Ger 25,23); questa terra è situabile più a nord della Transgiordania. Barachele (Barik-ilu) è un nome riscontrato nel V sec a.C. nella terra Mesopotamica.

Israele quando conquisterà la Transgiordania conserverà queste denominazioni territoriali, che derivano dall’espansione dei figli di Abramo, a cui non vanno esclusi i discendenti di Nacor, fratello di Abramo.

Il libro non conduce a pensare ad avvenimenti di epoca patriarcale, prima dell’alleanza al Sinai, anche se ne ha l’indole, perché in una lamentazione Giobbe (21,19) presenta le parole dette da Dio sul Sinai (Es 20,5; 34,7; Nm 14,18; Dt 5,9), e si parla anche dell’esistenza della legge di Dio, delle sue parole (Gb 22,22; 23,12).

Giobbe nel libro appare come un possidente di bestiame, e proprio la zona ad oriente della Palestina venne giudicata adatta all’allevamento del bestiame (Cf. Nm 32,1). Giobbe è dunque un Israelita della tribù di Ruben o di Gad.

L’autore del Libro presenta un’introduzione in prosa nella quale c’è la chiave del problema del libro: il giusto che soffre. Tutti i dialoghi in poesia non accennano mai a questa chiave e si muovono su di un confronto teologico. Da una parte Giobbe afferma di essere innocente e che non capisce perché sia preso così di mira da Dio; dall’altra i tre amici che hanno la soluzione nella dottrina che il giusto ha sempre del bene e l’ingiusto sempre del male, e dunque se Abramo ha del male vuol dire che è stato ingiusto. La dottrina dei tre amici trasferiva, in modo assoluto, sul piano individuale quello che Dio aveva stabilito nel patto del Sinai sul piano collettivo del popolo (Cf. Es 25,25; Dt 11,16.26-28). Il popolo è un’unità che deve rifiutare gli idoli e perciò avrà il bene altrimenti il male. (Il processo di contaminazione può affermarsi attraverso l’unità etnica del popolo, per cui il popolo ha una responsabilità collettiva, ma dentro questo c’è la responsabilità personale, che Dio valuta. I tre amici di Giobbe non distinguono i due piani, e serrano in questa loro incomprensione Giobbe, che (21,19) per un attimo, divincolandosi, mette in discussione la responsabilità collettiva sancita da Dio sui discendenti dell’empio; i tre “amici” ne deformavano infatti il senso facendone prova di empietà per Giobbe, visto che i suoi figli erano stati uccisi. Ma i discendenti dell’empio vengono puniti non precisamente per la colpa dei padri, ma perché hanno seguito, presi dal vincolo etnico, gli errori idolatrici dei padri, e perciò essi non potranno sussistere a lungo; ma certo Dio valuterà nella retribuzione eterna le loro responsabilità individuali). La dottrina dei tre amici, strettamente rivolta alla ricompensa della giustizia in questa terra, non poteva che scontrarsi con la realtà che Giobbe non manca di presentare: i cattivi spesso stanno benissimo. Un apporto lo dà Eliu che presenta che la sofferenza purifica l’uomo, lo conduce all’umiltà, e quindi ad una preghiera fervente, che lo libera dalle sventure; Eliu rimane nella dottrina degli altri tre, ma non si accanisce contro Giobbe. Un grande apporto lo dà Giobbe stesso presentando negli animati dialoghi coi tre la retribuzione eterna, oltre la morte (19,25-27).

Dio interviene alla fine presso Giobbe presentando come l’uomo sia limitato davanti a lui e che si deve perciò fidare di lui. I tre amici di Giobbe vengono poi redarguiti da Dio di errore, perché attaccati alla loro dottrina hanno voluto considerare ad oltranza Giobbe un peccatore meritevole delle disgrazie che stava subendo.

Non compare nei dialoghi l’importante dato del prologo, cioè di un avversario di Dio e dell’uomo, che mette sotto accusa l’amore di Giobbe (Cf. Ap 12,10) dicendo a Dio che non può sentirsi glorificato da lui; e Dio permette che la sventura si abbatta su Giobbe affinché l’avversario resti vinto alla vista della crescita dell’amore di Giobbe.

A questo dato, l’epilogo del testo (42,8) aggiunge l’importantissima verità che il giusto sofferente, che si mantiene fedele  nella prova, ha una preghiera di intercessione gradita a Dio. Giobbe è così una figura di Cristo.