L'autore della lettera
Diversi autori antichi tra i quali Eusebio (265 - 340) e sant’Epifanio (315 - 403) distinguevano tra
Giacomo fratello del Signore e Giacomo apostolo, detto
il Minore (Mc 15,40), aprendo la problematica riferita da san Gerolamo (347 - 419/20) nel
“De Viris illustribus, 2: PL 23,609”. Altri autori però non esitavano a far coincidere le due figure; così Clemente Alessandrino (150 - 215), Origene (185 - 254), sant’Atanasio (295 - 373), san Giovanni Crisostomo (344/354 - 497). Con il tempo la problematica risultò a favore dell'attribuzione della lettera all'apostolo Giacomo il minore.
Di fronte alla propensione protestante a distinguere Giacomo fratello del Signore e
Giacomo apostolo, il Concilio di Trento fece una netta scelta nel Canone relativo all’Unzione degli infermi: (Canones de extrema unctione, 25/11/1551; Denzinger, n° 1716). Il pronunciamento dogmatico del Canone riguarda in modo specifico il Sacramento dell’Unzione degli infermi e della sua istituzione da parte di Cristo, ma il Canone aggiunge, come parte concomitante non dogmatica, che la promulgazione avvenne per mezzo di Giacomo apostolo: “Se qualcuno dirà che l’estrema unzione (extremam unctionem) non è un vero e proprio sacramento, istituito da nostro Signore Gesù Cristo [Cf. Mc 6,13] e promulgato dal beato Giacomo apostolo, ma solo un rito tramandato dai padri o un’invenzione umana, sia anatema”. Il Decreto sui Libri sacri del Concilio presenta anch’esso il nome di Giacomo apostolo (8/4/1546; Denzinger n° 1503).
La ragione dell’attribuzione a Giacomo apostolo da parte del Concilio di Trento va ricercata, oltre alle tracce della tradizione, nel fatto che un eventuale
Giacomo fratello del Signore - certamente di minor profilo dell’apostolo
Giacomo d’Alfeo -, non poteva emergere a tanta importanza, e anche notorietà, da giustificare l’autorità che presuppone una lettera rivolta “alle dodici tribù che sono nella diaspora”, nella quale è presente pure il fatto dogmatico del Sacramento degli infermi.
Questa ragione generale dell’attribuzione della lettera all’apostolo Giacomo il minore, non urta con i testi biblici.
Nella lettera ai Galati (2,9), Paolo scrive: “prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo”, quegli
alcuni erano dei cristiani promotori della circoncisione, e dovevano - a rigor di logica - far capo a Giacomo fratello del Signore, e non a Giacomo apostolo (Gal 2,12), visto che Giacomo
apostolo era a favore del non obbligare i giunti dal paganesimo a farsi circoncidere (Gal 2,3.9), e questo non nel quadro del Concilio di Gerusalemme, ma prima, perché altrimenti non avrebbe alcun senso l’incidente di Antiochia tra Paolo e Pietro.
Ne segue che se Giacomo fratello del Signore fosse altra figura da Giacomo apostolo, non avrebbe un ruolo in tutta la questione. Sarebbe chiaramente un soggetto secondario se si volesse forzatamente tradurre in questo modo (Gal 1,19): “Degli apostoli non vidi nessun altro (ndr. solo Cefa, quindi),
bensì Giacomo, il fratello del Signore”.
Ecco, ai Galati cosa serviva questa informazione sottolineata da un “bensì” consolatorio? Quale prova di autenticità Paolo ne avrebbe ricavato tanto da mostrarla, se
Giacomo fratello del Signore non fosse stato una figura gerarchica-istituzionale? Le risposte a queste due domande sono una sola: una inutilità.
Giacomo, che è presentato con un ruolo di primo piano a Gerusalemme (At 15,13s), è Giacomo il minore, che secondo la tradizione (Eusebio, “Storia ecclesiastica 2,23; 7,19”; san Giovanni Crisostomo in “Prima Corinti, omelia 38,4", ecc.) fu vescovo di Gerusalemme, presumibilmente avendo ricevuto tale incarico dall’apparizione del Risorto a lui riservata (1Cor 15,16): Eusebio, “Storia ecclesiastica 2,23; 7,19”. San Giovanni Crisostomo in “Prima Corinti, omelia 38,4, ecc.”. La lettera di Paolo ai Galati è, ovviamente, posteriore al primo viaggio missionario di Paolo che avvenne nel 45/46, ed è immediatamente precedente al Concilio di Gerusalemme, poiché non lo nomina, potendo essere un dato dirimente la questione circa l’osservanza della circoncisione. L’incidente di Antiochia tra Pietro e Paolo si colloca tra la seconda visita di Paolo a Gerusalemme (Gal 2,11) e il Concilio.
La conclusione che si presenta è che Giacomo fratello del Signore è lo stesso Giacomo d’Alfeo.
L’incidente di Antiochia che vede coinvolto Giacomo apostolo fa vedere che l’apostolo era alle prese con una situazione difficilissima a Gerusalemme poiché considerato da alcuni come fautore della circoncisione. Pietro era consapevole della situazione esplosiva a Gerusalemme e voleva mettersi da parte, ma un suo mettersi a lato del campo avrebbe creato il peggio a Gerusalemme.
Nella prima lettera ai Corinzi (15,5.7) Paolo dice che il Risorto apparve a Cefa e quindi ai Dodici, che poi erano undici, ma Paolo qui si basa su una primissima professione di fede.
Poi Paolo parla di un’apparizione a più di cinquecento fratelli (qui sono i credenti) in una sola volta. Quindi Paolo presenta una personale apparizione del Risorto a Giacomo, a cui segue un’apparizione “a tutti gli apostoli”. Giacomo ebbe un colloquio personale col Risorto, e non c’è materia per sostenere che questo Giacomo sia il
Giacomo fratello del Signore da distinguere da Giacomo d’Alfeo.
E' molto difficile vedere la lettera di Giacomo come una pseudonimia, poiché nessuno poteva sperare di veder accolta
dai "presbiteri della Chiesa"
una disposizione così forte e pregnante di significato se non avesse
avuto una grande autorità riconosciuta nella Chiesa. Secondo
l'ipotesi della pseudonimia sarebbe stato un ignoto ebreo, convertito al cristianesimo ancora intriso di giudaismo, a scrivere la lettera,
ma nella lettera non c’è nulla che ripresenti la legge di Mosè con le sue prescrizioni
(Cf. G. Kittel). “Der geschichtliche Ort des Jakobusbriefes”, in ZNW
(Zeitschirt für die Wissenschaft Neutestamentliche) 41, 1942, 71-105; Th. Garcia ab Orbisio, “Epistola Sancti Jacobi, Introductio et commentaries”, Romae, 1954; J. Cantinat,”Les èpitres de Saint Jacques et de Saint Jude”, Paris 1973.
Non si può dubitare che la lettera di Giacomo sia stata scritta originariamente da un cristiano e perciò non sia uno scritto originariamente giudaico e poi cristianizzato. Le concezioni contenute nella lettera sono indubbiamente di originalità cristiana: la legge perfetta di libertà, la sovranità di Cristo, la fede in Cristo che deve esprimersi nelle opere, il ritorno del Signore, la presentazione dei presbiteri della Chiesa (5,14), le tre Persone divine (1,1; 2,1; 2,27; 4,5).
La canonicità
La lettera di Giacomo venne riconosciuta di grande valore nel Frammento Muratoriano (Manoscritto VIII sec. L’originale greco è datato al 170). Origene la cita nel Trattato su Giovanni, XIX,6; e in Esodo., hom. 8, 6. Come Scrittura divina. Venne citata da Clemente Romano in “Prima lettera ai Corinzi 10,17.31.38: Giac 2,21; 3,13; ecc.”. Venne citata da sant’Ireneo (130 - 200) in “Contro le eresie” 4,13,16; 5,1; ecc.). La citò Tertulliano (155 - 230) in “Omelie contro i Giudei, 22; Sull’Orazione, 8”. Venne citata da sant’Ignazio di Antiochia (35 - 107) in “Efesini 5,3; Giac. 4,6”. La lettera di Giacomo si ritrova nella “Lettera a Diogneto 9,3; Giac. 5,20” (metà del II sec.). La si ritrova in san Giustino
(100 – 162=168) “Apologia 2,8.13”. Si trova presente nel Pastore di Erma (140 ca.). Si trova presente nella versione “Vetus Italica” (testi in latino tradotti dal II sec. al IV sec.)
e nella siriaca “Peschito” (metà del secondo sec.).
Cirillo di Gerusalemme (313=315 - 387) la pone nel catalogo dei libri ispirati. Sant’Ilario di Poitiers (315 - 367) la cita nel “De Trinitate, 4,8”. San Girolamo, che dubitava circa l’attribuzione all’apostolo Giacomo, la presenta nell’elenco dei libri ispirati trasmessogli da Paolino, vescovo di Nola (355 - 431), e la accoglie come ispirata.
Teodoro vescovo di Mopsuestia (350 - 428) invece la respinse condizionando la sua accoglienza fino al VI sec. quando si riebbe l’unanimità.
Nel 393 la lettera di Giacomo venne a far parte del Canone del Nuovo Testamento del Concilio di Ippona. Nel 405 si trova nel Canone di Papa Innocenzo I. Lo stesso si ha nel Canone del Concilio Fiorentino (1439 - 1445). Quindi la solenne definizione del Concilio Tridentino (8/4/1546; Denzinger n° 1503.
Scopo
Giacomo scisse la lettera in parte vedendo il pericolo di un inseguimento delle comunità cristiane verso i ricchi e i potenti, in parte per l’insorgere di una iniziale gnosi che riduceva la fede a semplice conoscenza intellettuale, poneva a parte le opere, considerate di marginale importanza rispetto alla conoscenza. Sul primo punto le comunità venivano esposte ad essere dipendenti dai ricchi e a creare divisioni tra i fratelli, sul secondo si profilavano deviazioni profonde. Giacomo, di fronte a un declassamento delle opere, che si sposava con l’egoismo e la pigrizia, non spinge le comunità
al fare, ma al fare secondo la carità, che è il compimento dato da Cristo alla Legge (Rm 13,10). Le opere dovevano dare un margine di risorse alle comunità, tali da estinguere la riconcorsa dei ricchi; includendoli dentro le comunità non mossi dal primeggiare, ma da una sincera umiltà e carità.
L’accento dato alle opere, necessarie alla fede per essere viva, cioè operante, aiuta certamente la spiegazione delle lettere di san Paolo (Galati e Romani), ma Giacomo non aveva di fronte a sé, come Paolo, il problema delle opere della Legge dalle quali i Giudei si aspettavano la giustificazione. Paolo doveva sottolineare l’incapacità della Torah di dare la giustificazione (La liberazione dai peccati e l’elevazione a figli adottivi di Dio), che si ha invece nella fede in Cristo, fede operante per mezzo della carità (Ts 1,3; Gal 5,6; 1Cor 13,2; 1Ts 1,2; 2Ts 1,11; Fil 6).
Le opere che Giacomo presenta, non sono quelle prescritte dalla legislazione di Mosè, ma dalla “legge perfetta, la legge di libertà” (2,25), che è il compimento dato da Cristo (Mt 5,17) alla Legge. La Legge di cui scrive Giacomo è la Legge dell’amore (Gal 5,14; Rm 8,4; 13,8). E’ il nucleo della Legge e dei Profeti portato a compimento (Cf. Mt 5,17s; 22,37s).
Senza le opere la fede è morta in se stessa, risultando solo conoscenza intellettuale disgiunta dall’amore, come appunto hanno i demoni, che odiano. Anzi per mezzo delle opere la fede diventa perfetta (2,22).
Paolo cita la Scrittura che dichiara che Abramo venne giustificato per la fede (Gal 3,6s), ma non gli nega la carità operosa.
A chi non intendeva il solidissimo impianto di Paolo, che sconfessava il fariseismo, che poneva la giustificazione nelle prescrizioni della Legge, pareva che le opere non fossero necessarie alla giustificazione, sfociando in una fede
senza le opere. Con ciò si aprivano le porte alla gnosi, che Paolo prospettava come eresia che già stava alle porte (At 20,29).
Data e luogo di composizione della lettera
La datazione della lettera di Giacomo non può varcare l’anno 62, data nella quale secondo Giuseppe Flavio (37 d.C. - 100 ca.) in “Antichità Giudaiche, 20,9” e Egesippo (ca. 110 - 180 ca.) citato da Eusebio in “Storia ecclesiatica, 2,23”, Giacomo il minore morì martire nelle feste di Pasqua, sotto il pontificato di Anano, dopo la morte del Procuratore Festo e prima che si insediasse Albino.
La datazione della lettera di Giacomo va posta nel tempo successivo al Concilio di Gerusalemme.
La lettera venne scritta a Gerusalemme.
Destinatari della lettera
La lettera di Giacomo è indirizzata alle dodici tribù di Israele della diaspora, cioè della dispersione; fenomeno che ebbe origine al tempo delle deportazioni Assire e Babilonesi. La diaspora dovuta a Roma cominciò con la distruzione di Gerusalemme (70 d.C). La diaspora a cui si riferisce Giacomo è principalmente quella dell’area asiatica. Le comunità sono da pensare con nucleo originale giudeo-cristiano, separatosi dalla Sinagoga, ma indubbiamente non mancavano nelle comunità cristiani provenienti dal paganesimo, anche perché era avvenuta l’intesa del Concilio di Gerusalemme.
La lingua e lo stile
La lettera di Giacomo ha buoni pregi letterari. La lingua è scelta, fluente, con vette di eleganza classica. Non mancano tracce della formazione semita dell’autore. E’ evidente la familiarità che l’autore aveva con la traduzione greca della bibbia detta dei LXX. L’insieme mantiene desta l’attenzione, con immagini e variazioni di intensità. La lettera ha tutte le caratteristiche di una esortazione; ancor meglio, di un appassionato testamento spirituale. Se appassionato testamento spirituale, come pare di essere obbligati a dire, la lettera di Giacomo dovrebbe essere datata poco prima del suo martirio.
Tali caratteristiche di buon greco hanno fatto pensare ad alcuni che non sia stato Giacomo a scriverla. Ma questa osservazione è pura illazione poiché dovrebbe dimostrare che Giacomo fosse poco istruito e, inoltre, che non si fosse avvalso dell’aiuto di uno scriba. Il nome Jakὸbos è la grecizzazione del nome Ya’ªqôb, cioè Giacobbe, e questo dice che la sua famiglia doveva avere simpatia per il greco, cosa per nulla rara nella Palestina. Non si riesce a capire perché Giacomo e Giuda per alcuni dovessero essere per forza di cultura embrionale, o non potessero supplire in seguito a tale condizione.
Giacomo si adopera per arginare i fermenti delle passioni che
minavano la vita delle comunità cristiane, costituite da fratelli in
Cristo, con una serie di appunti, che paiono a prima vista senza una
concatenazione, che però è percepibile, anche se non c’è il progetto di
una successione tematica, poiché la successione è data dal cuore, se si
parte dal folgorante e densissimo inizio della lettera: “Considerate
perfetta letizia, miei fratelli…”.
Indirizzo e saluto
1
1 Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono nella diaspora, salute.
“Servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”.
“Servo di
Dio”, indica il suo essere al
servizio del disegno di Dio manifestatosi in Cristo Gesù. La stretta
unione servo di Dio e servo di Cristo, Kyrios (Signore), manifesta che
Giacomo presenta la sua fede cristiana nella divinità di Cristo.
La perfetta letizia
2
Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove,
3
sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza.
4
E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e
integri, senza mancare di nulla.
“Considerate
perfetta letizia, miei fratelli…”.
Le sventure, le tribolazioni, Giacomo le chiama prove, ed è il nome
giusto che i cristiani devono dare alle loro difficoltà, qualsiasi esse
siano. Certamente è vero che i patimenti non sono in sé stessi causa di
letizia, per questo Giacomo invita i “fratelli
miei” a considerarli “perfetta
letizia”. Perfetta perché nasce
dall’essere in Cristo ed è superiore alla gioia che offriva il Vecchio
Testamento. Infatti i patimenti vissuti in Cristo, nelle fede eroica in
lui, producono nel centro più centro del cuore un’intima
letizia. Tale “perfetta letizia”
nasce dalla scelta di amare, anche quando tutto sembra sospingere verso
la rabbia, la maledizione, la vendetta, e l’Amore, che mai si lascia
vincere in amore, inonda l’anima con il suo fuoco d’amore e chi ha
l’amore ha letizia, ha la gioia data da Cristo (Gv 15,11). “Miei
fratelli” ricorre nella lettera
dieci volte; “fratelli/o”
otto volte; “sorella”
una volta. Tutta la lettera è pervasa da un accento profondamente
fraterno e appassionato.
Invito a domandare la sapienza
5
Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a
tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data.
6
La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia
all’onda del mare, mossa e agitata dal vento.
7
Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore:
8
è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni.
“Se
qualcuno di voi è privo di sapienza”.
I testi sapienziali del V.T stabiliscono una stretta associazione tra
prova, perfezione e sapienza. Ora se di fronte alle parole di Giacomo
sulla perfetta letizia qualcuno rimane sorpreso, e non intende, chieda
la sapienza a Dio per poter comprendere e gli verrà data, a condizione
che venga chiesta con fede, senza esitare. La sapienza è luce intima
che dalla Parola trae le indicazioni e le motivazioni per comportamenti
concreti di vita secondo Cristo: è in particolare la Parola della croce
(1Cor 1,18-25), che dice non solo ciò che Cristo ha sofferto, ma come
l’ha sofferto. La sapienza è il dono che fa cogliere la linea
esistenziale delle verità della fede, è con ciò fa vedere come le prove
debbano essere considerate “perfetta
letizia” (Gv 15,11; Fil 3,1; 1Pt
1,6). “La domandi però con
fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa
e agitata dal vento”. La fede
deve essere coraggiosa e perciò non esitante. Chi esita è in uno stato
di dubbio, di incertezza, di crisi. Non si tratta della ponderazione
delle cose, ma di sapere che la ponderazione se avviene nella preghiera
deve concludervi con la decisione. La decisione di domandare la sapienza
è segno che si vuole veramente lasciare la mediocrità. Altrimenti si ha
una situazione di viltà nel percorrere la strada del bene. “Un
uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso,
instabile in tutte le sue azioni”.
Un vile, “un indeciso, instabile”
nella strada del bene, non deve illudersi di ricevere “qualcosa
dal Signore”.
La pratica dell'umiltà
9
Il fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato,
10
il ricco, invece, di essere abbassato, perché come fiore d’erba passerà.
11
Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade,
e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco nelle sue
imprese appassirà.
“Il
fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato…”.
Giacomo dopo l’invito a considerare “perfetta
letizia” ogni sorta di prove, e
avere indirizzato alla preghiera fatta con fede ferma per ottenere la
sapienza, si rivolge subito ai problemi di fraternità cogliendo il punto
cruciale della tensione dovuta alla presenza di poveri e ricchi che non
sanno innalzarsi alle vette del Vangelo. Il punto, che Giacomo mette
subito in campo, è quella della pari dignità. Il povero non deve
sentirsi facoltà del ricco, ma deve essere
“fiero di essere innalzato”.
Il ricco deve considerare salvezza e accesso alla vera grandezza “essere
abbassato” nella fraternitas dei
figli di Dio, anche perché gli deve essere già noto noto che “come
fiore d’erba passerà”, se si
innalza in superbia (Ps 37/36,20; Lc 1,52)
La tentazione
12
Beato l’uomo che resiste alla tentazione perché, dopo averla superata,
riceverà la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che
lo amano.
13
Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non
può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno.
14
Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e
lo seducono;
15 poi le passioni concepiscono e
generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte.
“Beato
l’uomo che resiste alla tentazione”.
La bramosia per la ricchezza colpisce non solo il ricco superbo, ma
anche il povero che brama possedere ricchezze del ricco. Sia il povero,
sia il ricco, devono resistere all’attaccamento della ricchezza, che è
poi: donna e potere. (1Tim 6,10): “L’avidità
del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo
desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti
tormenti”. “Nessuno,
quando è tentato, dica: ‹Sono tentato da Dio›”.
Non si può attribuire a Dio la colpa dei propri cedimenti, come se Dio
fosse assente nel momento della prova e in tal modo portasse l’uomo a
cedere alla tentazione. “Perché
Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno”.
Un comandamento dice: “Non
tenterete il Signore, vostro Dio”
(Dt 6,16). Il senso di questo comandamento è di non mettere sotto
ricatto Dio: “Io non ti crederò se tu non fai ciò che voglio”. Infatti,
Dio ama per primo, e non per secondo così che l’uomo possa pensare ad
una inerzia di Dio nei suoi confronti, ma è vero invece che c’è
l’inerzia dell’uomo nei confronti di Dio. Così all’attribuire a Dio le
proprie colpe si congiunge il mettere Dio alla prova, il frutto di
questo nodo perverso è il tentativo di giustificare come causate da Dio
le proprie scelte difformi da Dio. “Ciascuno
piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo
seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il
peccato, una volta commesso, produce la morte”.
Giacomo non parla della tentazione del diavolo, ma non lo esclude, in
quanto il diavolo tenta aizzando le passioni rendendole più seducenti.
Il dominio delle passioni è dunque essenziale per essere liberi. Le
passioni non dominate “concepiscono
e generano il peccato”, che se
voluto, e quindi compiuto, “produce
la morte”, cioè la morte della
vita immessa da Cristo nel cuore del credente in lui.
Da Dio ogni buon regalo e ogni dono perfetto
16
Non ingannatevi, fratelli miei carissimi;
17
ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal
Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di
cambiamento.
18
Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità,
per essere una primizia delle sue creature.
“Non
ingannatevi, fratelli miei carissimi; ogni buon regalo e ogni dono
perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce:
presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento”.
Non bisogna appoggiarsi agli uomini, confidare in loro (Ger 17,5-8), ma
confidare in Dio. Da Dio procede “ogni
buon regalo”; regalo per la vita
dell’uomo, dato disinteressatamente, se non per il bene dell’uomo. Da
lui “ogni dono perfetto”,
doni che riguardano la vita soprannaturale dell’uomo in Cristo. Regali e
doni hanno in sé la gratuità. Il Padre, “creatore
della luce”, non ha in sé tenebra
alcuna, egli è fedele: “presso di
lui non c’è variazione né ombra di cambiamento”.
“Per sua volontà egli ci ha
generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle
sue creature”. Il Padre “ci
ha generati” quali suoi figli per
mezzo “della parola di verità”,
che è Cristo e il suo Vangelo, così da essere “una
primizia”, tra tutti gli uomini.
Tanti gli uomini in attesa della conoscenza del loro salvatore Gesù
Cristo; coloro che sono stati raggiunti dalla “parola di verità”, che è
il Vangelo, sono diventati primizia di Dio per Dio.
La legge perfetta, legge della
libertà
19
Lo sapete, fratelli miei carissimi: ognuno sia pronto ad ascoltare,
lento a parlare e lento all’ira.
20
Infatti l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio.
21
Perciò liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia,
accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può
portarvi alla salvezza.
22
Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori
soltanto, illudendo voi stessi;
23
perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui
somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio:
24
appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era.
25
Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della
libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come
uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel
praticarla.
26
Se qualcuno ritiene di essere religioso, ma non frena la lingua e
inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27 Religione pura e
senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le
vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
“Lo
sapete, fratelli miei carissimi: ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a
parlare e lento all’ira”. Giacomo
raccomanda la riflessione prima di parlare, poiché è facile, presi
dall’impeto, dire parole insipienti. “Pronto
ad ascoltare”, questo anche
quando si è già capito cosa l’altro voglia dire, poiché altrimenti
l'altro penserà di non essere stato interpretato correttamente, anzi
penserà che non è stato adeguatamente ascoltato. Ci vuole molta pazienza
nell’ascoltare, ma la pazienza produce sempre del bene (1,4). “Lento
all’ira”, il che vuol dire che
prima di esplodere bisogna andarci piano (Qo 7,9), e andandoci piano si
vedrà per tempo che l’ira non compie ciò che è gradito a Dio (1,20). Ciò
non vuol dire che non si possa esprimere indignazione (Mc 10,14), ma
bisogna sapere che nell’esprimere indignazione non bisogna mai oscurare
la carità e deve essere segno dello zelo per Dio (Gv 2,17), ed è quindi
il santo sdegno è molto raro. Il santo sdegno, se vuol essere tale, non
vuole mai sostituirsi all’ira del giudizio di Dio (Rm 1,18). L’ira del
Signore è anch’essa “lenta” (Es 34,6; Nm 14,18; Ne 9,17; Ps 86/85,15;
103/102,8; 145/144,8; Na 1,3).
“Perciò liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia”.
La purificazione è necessaria per liberarsi dalle conseguenze dei
peccati. Il peccato commesso non lascia l’uomo come prima, ma lo rende
interiormente sporco e perciò bisognoso di purificazione. La
purificazione è un processo di liberazione permanente dalla pesantezza
dell’umano, senza distruggere ciò che è autenticamente umano (San
Tommaso d’Aquino: “Summa Theol. I, 1,8,ad 2”): “Gratia non tollat
naturam, sed perficia”. “Eccesso
di malizia”; cioè il peccato è
un’escrescenza (eccesso, rigonfiamento) costituito di malizia (1,14).
Occorre una lotta costante contro le passioni (1,14), così come dice
Gesù (Mt 16,24): “Se qualcuno
vuole venire dietro a me rinneghi se stesso”.
“Accogliete con docilità la
Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza”.
La docilità consiste nella volontà di lasciarsi plasmare dalla Parola “piantata”
mediante l’annuncio, la catechesi e il Battesimo. “Siate
di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto,
illudendo voi stessi”.
Ascoltare la Parola senza metterla in pratica, credendo che basti
conoscerla per essere salvi è un’illusione perché la si conosce
vivendola, e solo vivendola se ne hanno i frutti di salvezza. “Chi
invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e
le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la
mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”.
“La legge perfetta”
è la legge evangelica che porta a compimento e perfezione quella
dell’Antico Testamento. E’ “legge
della libertà” perché è legge
degli uomini liberati dalle colpe e specialmente dalla colpa originale.
Il pensiero rabbinico pensava che lo studio della Torah rendesse libero
l’uomo, cioè perdonato dalle sue colpe. Il trattato misnaico “Pirque
Aboth (Capitoli dei Padri) 6,2; fine 1 sec. d.C.” dice: “Uomo
libero è colui che è occupato nello studio della legge, e con ciò egli
esalta se stesso” (Cf. 8,32s). Tale libertà proveniente dallo
studio era però fittizia poiché non bastava lo studio, ma occorreva la
concretizzazione effettiva, e ciò la carne non lo concedeva
data la sua debolezza, e anzi la Torah rivelava la realtà dell’uomo
peccatore essendo così “la legge del peccato e della carne” (Rm
8,2). La Torah non dava da se stessa l’espiazione dei peccati, come
erano giunti a pensare i farisei. Non c’è infatti perdono senza
espiazione. A Qumran si professava che l’espiazione coincideva con la
bontà divina, ma non si parlava dell’atto dell’espiazione da parte di
Dio, che sarà in Cristo; (Col. XI,2, dall’Inno finale) :”Nell’abbondanza
della sua bontà espierà per sempre tutti i miei peccati, nella sua
giustizia mi purificherà delle infermità dell’essere umano”. Ma i
testi biblici sono chiari: l’espiazione dei peccati non poteva essere
per mezzo di animali (Cf. Ps 40/39,7-9); come per mezzo di se stessi (Ps
49/48,8): “L’uomo non può
riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo”.
L’espiazione dei peccati non poteva che avvenire per mezzo dell’Agnello
di Dio (Is 53,1s; Gv 1,29). La Torah dava già una libertà, ma se la
Torah era vissuta nell’attesa di Colui che avrebbe espiato i peccati.
Giacomo dice che la legge di libertà del cristiano è legge perfetta,
poiché perfezione di quella del Vecchio Testamento (Mt 5,17; Rm 13,10).
È legge regale (2,8) perché è la legge del Re che ha come sudditi i suoi
fratelli, dei quali è il primogenito, e perché tale legge è legge
regale, cioè principe, perché di carità (Rm 8,29). “Se
qualcuno ritiene di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna
così il suo cuore, la sua religione è vana”.
Il dominio della lingua è il segno della vera religiosità. vano è dunque
dirsi religiosi quando ci si nutre di accademiche discussioni, che più
che cercare la verità cercano l’ostentazione delle erudizioni. Vano
pensarsi religiosi autentici quando ci si abbandona alle chiacchiere,
alle detrazioni, alle mormorazioni. Passo fondamentale per l’osservanza
della legge della libertà è il dominio della lingua. Chi non domina la
lingua non domina neppure il resto. “Religione
pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e
le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.
E’ la carità operosa che fa la vera religiosità. Una carità operosa,
fattiva di opere buone, e di deciso rifiuto delle contaminazioni del
mondo
L’attenzione ai poveri
2
1
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore
della gloria, sia immune da favoritismi personali.
2
Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un
anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero
con un vestito logoro.
3
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: ‹Tu siediti
qui, comodamente›, e al povero dite: “Tu mettiti là, in piedi”, oppure:
“Siediti qui ai piedi del mio sgabello”,
4
non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?
5
Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri
agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno,
promesso a quelli che lo amano?
6
Voi invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi
opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? 7 Non sono loro che
bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi?
8
Certo, se adempite quella che, secondo la Scrittura, è la legge regale:
Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene.
9
Ma se fate favoritismi personali, commettete un peccato e siete accusati
dalla Legge come trasgressori.
10
Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un
punto solo, diventa colpevole di tutto;
11
infatti colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche:
Non uccidere. Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi
trasgressore della Legge.
12
Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una
legge di libertà, perché
13 il giudizio sarà senza misericordia
contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la
meglio sul giudizio.
“Fratelli
miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della
gloria, sia immune da favoritismi personali”. La fede in Cristo non può essere contaminata dal pensare secondo gli uomini, che si accerchiano di persone che li appoggiano e dalle quali sperano benefici, mentre escludono altre che hanno il torto di non volere essere compiacenti e che seguono Cristo, loro giudice (1Cor 4,3). Dio non fa distinzione di persone (2,9; Gal 2,6). Bisogna leggere gli altri non secondo la carne, ma secondo Cristo (2Cor 5,16). I favoritismi sono un tarlo fatale per le comunità, e Giacomo lo presenta in tutta la sua gravità, dopo averlo già introdotto all’inizio della sua lettera (1,9-10). Disastroso è che i cristiani inseguano i ricchi e si facciano loro servi compiacenti per averne qualche utile. Come disastrosa è l’opera dei cristiani che con favoritismi costituiscono gruppi per condizionare dall’interno le comunità.
“Se guardate colui che è
vestito lussuosamente e gli dite: ‹Tu siediti qui, comodamente›, e al
povero dite: ‹Tu mettiti là, in piedi›, oppure: ‹Siediti qui ai piedi
del mio sgabello›, non fate forse discriminazioni e non siete giudici
dai giudizi perversi?”. Giacomo
presenta un esempio di favoritismo, deplorevole perché dentro
l’assemblea dell’Eucaristia. I giudizi fondati sul favoritismo sono “perversi”
perché valutano gli altri in base all’utile umano che ne proviene. “Ascoltate,
fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del
mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli
che lo amano?”. La scelta di Dio
dei poveri Paolo la espresse così (1Cor 1,27-28):
“Quello che è ignobile e
disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per
ridurre al nulla le cose che sono”.
Il Magnificat lo esprime con queste parole (Lc 1,52): “Ha
innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i
ricchi a mani vuote”. I poveri
sono, al contrario delle valutazioni del mondo, “ricchi
nella fede ed eredi del Regno”.
Dalla sete del denaro e del potere nascono gli inganni, le invidie,
le liti, le oppressioni, le corruzioni, le divisioni, le guerre. Giacomo
prende di petto l’eresia di fondo, quella che promuove e fa da supporto
a tutte le eresie: l’adorazione del potere (Mt 6,19.24; 1Tm 6,10; 2Tm
3,1; 1Gv 2,15). Giacomo non si fa portatore di un quadro sociale
dove tutto sia livellato, ma vuole che chi ha di più, per varie ragioni,
non sia chiuso nella superbia, ma sia umile e caritatevole. Il povero
poi non deve avere anche lui la bramosia delle ricchezze e di
conseguenza odiare il ricco perché le possiede. Il rinnovamento del modo
di pensare dell’uomo passa tutto dall’adesione autentica a Cristo.
Sappiamo che nella dottrina sociale della Chiesa non si ha affatto il
rifiuto del capitale, poiché esso è una forza con la quale si possono
creare posti di lavoro; quello che fa scandalo è l’uso egoistico delle
ricchezze possedute. “Voi
invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi
opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono loro che
bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi?”.
C’erano casi di atteggiamento compiacente e servile verso ricchi Giudei
e Pagani, per averne vantaggi. Ciò si traduceva nel non credere nella
forza della scelta della povertà della Chiesa (2Cor 8,9) e quindi nel
misconoscimento della grandezza del povero (Mt 11,25) e delle sue
capacità in Cristo di creatività sociale. Insulso guardare ai ricchi
e ai potenti, ponendo la speranza in loro, poiché proprio essi, in modo
astuto, usando della legalità come un’arma di dominio “vi
trascinano davanti ai tribunali”.
Sono loro che insultano il nome di Gesù nel quale i cristiani sono
battezzati: “Il bel nome che è
stato invocato su di voi”. Il
Battesimo veniva detto dato nel nome di Gesù (At 1,5; 2,38; 10,48;
19,5), ma ciò significava anche presentare le tre Persone divine, perché
il Padre (Gv 3,16): “ha tanto
amato il mondo da dare il Figlio unigenito”;
Il Figlio ha obbedito in tutto alla volontà del Padre del fino a dare la
vita per la salvezza degli uomini; lo Spirito Santo ha compiuto il
mistero dell’Incarnazione nel grembo verginale e immacolato di Maria e
ha condotto Gesù sulla croce (Cf Mt 4,1; Mc 1,12; Lc 4,1.18; 10,21; At
1,2; 10,38) e sulla croce l’ha sostenuto, di fronte al silenzio del
Padre (Mt 27,46; Mc 15,34), in un immisurabile amore (Ef 3,18) per gli
uomini (Cf. Eb 5,7-8). Così il Battesimo nel nome di Gesù esprimeva la
sua realtà con la menzione delle tre Persone, poiché tutte e tre le
Persone sono coinvolte nell’opera della salvezza (Mt 28,19). “Certo,
se adempite quella che, secondo la Scrittura, è la legge regale: Amerai
il prossimo tuo come te stesso, fate bene. Ma se fate favoritismi
personali, commettete un peccato e siete accusati dalla Legge come
trasgressori”. I favoritismi si
può tentare di occultarli sotto la legge regale della carità fraterna: “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”,
ma “la legge regale”
stessa si incarica di smascherarli. La carità fraterna ha tutt’altro
sapore di quella viziata dai favoritismi (1Cor 13,4). “Poiché
chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un punto
solo, diventa colpevole di tutto”.
Per Giacomo la Legge sono i comandamenti portati a perfezione, non già
la Torah con tutte le prescrizioni di Mosè. Il principio della
trasgressione di tutta la Legge anche per la trasgressione di un solo
punto, ha il suo il suo fondamento in Dt 27,26, ricordato in Gal 3,10.
Tale fatto valeva anche per la Torah. Trasgredendo un solo punto della
Torah non è che si contraessero tutti i singoli peccati denunciati dalla
Torah, ma la Torah, avendo la sua unità nell’amore a Dio e ai fratelli,
e l’amore a Dio e ai fratelli sono due comandamenti strettamente
concatenati (Mt 22,39), si aveva che pur peccando in un solo punto si
andava contro la Torah. Ora tanto più per la Legge perfetta, di
libertà e regale, dove la carità è portata alla perfezione ed è chiaro
che dai comandamenti dell’amore dipendono tutti gli altri (Mt 22,40): “Infatti
colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche: Non
uccidere. Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi
trasgressore della Legge”.
Ora per l’Israelita la Torah non poteva essere osservata in tutto, per
la debolezza dell’uomo ancora non rinnovato da Cristo, e ciò portava
portava ad attendere Cristo, liberatore dalle catene del peccato (Cf. Is
53,4-5.10-12; Gal 3,18; Rm 8,3; 2Cor 5,21; 1Gv 3,5). Praticare per
intero la Torah era solo un’illusione dei Farisei, che non domandavano a
Dio la sapienza (Cf. Ps 119/118,125; Sap 3,9; Dn 9,23; ecc.) per
intendere che la Torah, dando consapevolezza dei peccati e non avendo in
sé il potere di rimettere i peccati, conduceva all’attesa di Cristo (Cf.
Gal 3,24). “Parlate e agite
come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà,
perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto
misericordia”. La “legge
di libertà” è tale perché offerta
all’uomo liberato da Cristo dall’asservimento alla carne. La liberazione
è opera della misericordia di Dio e perciò chi è libero deve a sua volta
avere misericordia (Mt 19,33). “La
misericordia ha sempre la meglio sul giudizio”.
Il giudizio di per sé è corredato dalla condanna, ma la misericordia ha
sempre la meglio sul giudizio, e perciò toglie al giudizio
l’elaborazione della condanna. Il giudizio dell’uomo è poi sempre
difettoso non conoscendo tutti gli estremi presenti in un cuore per
giudicare la gravità di una colpa; è possibile tuttavia vedere quanto è
necessario per sapersi regolare, infatti (Mt 7,16): “Dai
loro frutti li riconoscerete”.
La fede e
le opere
14 A
che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?
Quella fede può forse salvarlo? 15
Se un fratello o una sorella sono senza
vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano
16 e uno di
voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non
date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? 17 Così anche la
fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. 18 Al
contrario uno potrebbe dire: "Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami
la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia
fede". 19 Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo
credono e tremano! 20 Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere
non ha valore? 21 Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le
sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22 Vedi: la
fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne
perfetta. 23 E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e
gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio. 24
Vedete: l’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede.
25 Così anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le
opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti
ripartire per un’altra strada? 26 Infatti come il corpo senza lo spirito
è morto, così anche la fede senza le opere è morta.
“A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede,
ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?”
Con una domanda in stile diatriba Giacomo introduce il nucleo teologico
centrale della lettera. Tra i fedeli doveva serpeggiare una distorsione
del pensiero di Paolo circa la fede che giustifica l’uomo, e non le
opere, con la conseguenza che non sono necessarie per conseguire la
salvezza. Paolo, tuttavia, parla di giustificazione per mezzo
della fede in Cristo, rigettando che ci possa essere giustificazione
per le opere della Legge, poiché la Legge con tutte le sue prescrizioni
(circoncisione, sacrifici al tempio, abluzioni, astensione dai cibi
impuri e dal sangue, e tutte le altre prescrizioni - in totale 613 - che
si era creduto di trovare nella Torah), non dà la giustificazione, come
credevano i farisei. Giacomo parla subito di salvezza. La
giustificazione per la fede in Cristo stabilisce l’uomo in figlio
adottivo di Dio, ma tale dono ha davanti a sé l’impegno della
corrispondenza, nel dono della grazia dello Spirito Santo, di seguire
Cristo, di imitarlo; lui che è l’autore e perfezionatore della Legge
(decalogo). Autore perché è il Verbo, uno con il Padre e lo Spirito
Santo, e perciò era presente nella teofania del Sinai; perfezionatore
del Decalogo, che poi raggiunge dodici Parole, essendo la prima l’amore
verso Dio e la seconda verso il prossimo; e senza queste due Parole non
è possibile vivere le altre. Cristo non è venuto ad abolire le 10
Parole, che sono 12, ma a portarle a compimento (Mt 5,17). Anche
Paolo parla di Legge intendendo il Decalogo, e lo pone anche nel cuore
dei pagani come voce della coscienza (Rm 2,14). I farisei mettevano in
pratica le loro prescrizioni, ma non mettevano in pratica la Legge, in
particolare l’amore a Dio e al prossimo (Mt 22,37 - 39). Come si
vede tra Giacomo e Paolo non c’è il minimo divario, ma perfetta sintonia
nella verità, come si legge in (Gal 5,5): “La fede che si
rende operosa per mezzo della carità”;
(Rm 2,5-6): “Renderà a ciascuno secondo le sue opere”.
(1Ts 1,3): “L’operosità della vostra fede; la fatica della
vostra carità e la fermezza della vostra speranza”.
Le opere sono perciò necessarie e segnano, nel dono della grazia, la
corrispondenza al dono di essere in Cristo, figli adottivi del Padre. La
teologia del dono, non può essere disgiunta dalla teologia della
corrispondenza, che vuole l’obbedienza alla Legge portata a compimento
con la Parola e con l’esempio, per le dieci Parole, più le due
essenziali Parole, non sono più solo scritte su tavole di pietra (Sinai)
o su fogli (Es 20,1s; Dt 6,5; Lv 19,18), ma anche su carne divina,
mediante sangue divino. “Se un fratello o una sorella
sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice
loro: ‹Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi›
, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?”. Giacomo fa un esempio concreto circa le opere. Non basta dire “buone parole” a chi è nelle necessità del corpo, bisogna compiere i fatti. Le “buone parole”, non accompagnate dalla concretezza dei fatti, non servono a nulla, sono addirittura beffarde: “andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”.
“Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta”. La fede se non è accompagnata dalle opere è morta in se stessa, così come sono prive di carità le parole di rifiuto dell’impegno.
Ci si domanda il perché, non solo i tre vangeli sinottici riportano la moltiplicazione dei pani, ma anche Giovanni che presenta molto materiale inedito dai sinottici. La risposta - oltre al significato eucaristico e tipologico del cammino nel deserto - la troviamo nel dovere di soccorrere i bisognosi, sapendo che Dio ci assiste in questo. La moltiplicazione dei pani è l’affermazione della necessità delle opere.
“Al contrario uno potrebbe dire: ‹Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede›”. Le opere - lasciamo da parte la filantropia dei magnati, che danno sempre delle briciole - si accompagnano talmente alla fede, che esse la testimoniano. (Mt 25,35s): “Venite benedetti del Padre mio…”. Le opere della carità che i pagani fanno ai poveri, ai bisognosi, sono fatte a Cristo, e rivelano un potenziale orientamento di fede a lui.
“Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano!”. Giacomo fa vedere la condizione di buio di uno che crede nell’esistenza di Dio, ma non ha la carità operosa, ricorrendo alla condizione dei demoni. I demoni scacciati da Gesù lo dichiaravano Figlio di Dio (Mt 8,29; Mc 3,11; Lc 4,41; 8,28), e perciò credevano; ma, già condannati nella ribellione in cielo, tremavano in attesa della condanna finale per le opere di odio compiute presso gli uomini (1Cor 6,3; Ap 20,10). La fede dei demoni è morta, non è virtù. Per essi è un supplizio averla, se potessero farebbero morire la fede morta, ma non possono. Credono non per virtù, ma perché hanno visto per una frazione d’istante la divina Essenza che li condannava, per la loro ribellione. Non si dà condanna senza vedere il Giudice, e vederlo per loro fu visione terrificante.
Si intravede l’abisso finale di coloro che credono senza le opere. Essi vedranno il Giudice e saranno condannati a credere, mentre qui in terra se ne vantavano tanto da scartare le opere, che poi è l’obbedienza a Gesù e l’imitazione di Gesù.
“Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?. Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta”.
Anche qui Giacomo è in piena sintonia con Paolo, che utilizza (Gn 15,6; Gal 3,6; Rm 4,3), per affermare che Abramo per la fede fu giustificato.
L’obbedienza di Abramo nell’offrire Isacco avvenne nella fede in Dio, che gli avrebbe risuscitato il figlio Isacco (Eb 11,17-19). Dio gli disse (Gn 22,12.17-18): “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito (…). Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”.
“E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio. Vedete: l’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede”.
Abramo era già giustificato per la fede, e qui Giacomo ricorre al testo citato da Paolo ((Gn 15,6), ma pone la crescita della fede mediante le opere. Abramo non decadde nella prova, così gli venne confermata la giustificazione, mediante il rinnovamento delle promesse. La sua fede nella prova “divenne perfetta”. La fede cresce con le opere, che la fede vuole, e con ciò cresce la potenza degli effetti del dono della giustificazione a figli di Dio, che si traduce in sviluppo della conformità a Cristo (Ef 4,13).
“Così anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada?”. Le opere non sono disgiunte dalla fede. (Gs 2,9): “So che il Signore vi ha consegnato la terra…”. Raab mostrò la sua fede soccorrendo i due esploratori inviati da Giosuè. “Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”. Il paragone del corpo privo dell’anima è estremamente efficace per descrivere la morte della fede. Senza le opere, non si ha moto come non può operare un morto. La fede morta è inattiva, dissolta. Di essa rimane solo una vaga ombra.
La temperanza nel parlare
3
1
Fratelli miei, non siate in molti a fare da maestri, sapendo che
riceveremo un giudizio più severo:
2
tutti infatti pecchiamo in molte cose. Se uno non pecca nel parlare,
costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il
corpo.
3
Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo
dirigere anche tutto il loro corpo.
4
Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti
gagliardi, con un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole il
pilota.
5
Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi
cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!
6
Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita
nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra
vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna.
7
Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini
sono domati e sono stati domati dall’uomo,
8
ma la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno
mortale.
9
Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli
uomini fatti a somiglianza di Dio.
10
Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev’essere
così, fratelli miei!
11
La sorgente può forse far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e
amara?
12
Può forse, miei fratelli, un albero di fichi produrre olive o una vite
produrre fichi? Così una sorgente salata non può produrre acqua dolce.
“Fratelli miei, non siate in molti a fare da maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo: tutti infatti pecchiamo in molte cose”. E’ un nuovo inizio tematico da cui Giacomo parte per uno sviluppo di punti concatenati. E’ la disciplina nel parlare, fatto essenziale nella vita di una comunità.
I maestri ci vogliono, ma “fare i maestri” in molti vuol dire desiderio di mettersi in vista, voglia di dire, di condurre gli altri a sé.
Bisognerebbe riflettere in questa voglia di essere “maestri” perché ciò comporta un giudizio più severo data la responsabilità. Il maestro, poiché insegna, parla, ma nel parlare se non è ben attento finisce per diffondere cose che rendono perplessi i fedeli. Così vale l’indicazione di Pietro (1Pt 4,11): “Chi parla lo faccia con parole di Dio”. Ne segue che bisogna applicarsi con la preghiera all’insegnamento (Rm 12,7).
“Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto,
capace di tenere a freno anche tutto il corpo”.
Non compiere “peccato di parola” è segno di perfezione, e
conseguentemente di capacità di dominio su tutto il corpo. Il vero
maestro sa dominare la sua lingua per servire la verità con umiltà e
sapienza. “Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli
perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo”.
Giacomo illustra il pensiero con degli esempi a tutti accessibili. Il “morso
in bocca” dell’esempio, è il dominio che
si deve avere su di sé per non lasciare libera la lingua. “Ecco,
anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti gagliardi, con
un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole il pilota. Così
anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose”.
L’immagine del timone è estremamente efficace per dare il senso del peso
che hanno le parole. La lingua è un organo del corpo e con esso ci
esprimiamo nelle relazioni con gli altri, e da essa procede il bene o il
male. Giacomo sottolinea l’organo della lingua, perché ciò che c’è nel
cuore lo si esprime con la lingua, e la lingua va tenuta sotto freno,
migliorando il cuore, e il cuore determina l’esprimersi della lingua (Mc
7,21). “Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande
foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è
inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta
la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna”.
Anche un piccolo fuoco può incendiare una foresta, come tutti sanno.
Così una parola maldestra, imprudente, può creare una situazione
difficilmente controllabile. Veramente, un attimo di pazienza in più
produce una lunga pace, un attimo di impazienza può produrre una guerra.
Giacomo dice che la “lingua è un
fuoco, il mondo del male!”. La
lingua “contagia tutto il corpo”
poiché come ha detto chi “non
pecca nel parlare è capace di tenere a freno anche tutto il corpo”
(3,2). Infatti, le parole sbagliate creano reazioni, rivalse, vendette,
la vita ne viene segnata, e se non si rimedia con l’umiltà e
l’accettazione delle conseguenze del mal detto ne nascono contrasti
alimentati da una fiamma che proviene “dalla
Geenna”. “Infatti
ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono
domati e sono stati domati dall’uomo,
8 ma
la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno
mortale”. La lingua una volta
lasciata libera diventa irrefrenabile, “piena
di veleno mortale”. “Con
essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini
fatti a somiglianza di Dio”. La
lingua è sede di ambiguità. Da una parte si usa per lodare il Signore,
poi con contraddizione la si usa per maledire gli uomini “fatti
a somiglianza di Dio”, e perciò
degni di rispetto. E’ il comportamento farisaico, che non si è estinto
con il tempo di Gesù, ma continua anche oggi. “Dalla
stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev’essere così,
fratelli miei!”. Giacomo
sottolinea ancora come con la lingua si possa fare il bene e poi poco
dopo il male, per cui il benedire il Signore e il non amare i fratelli è
fariseismo. “La sorgente può
forse far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara?”.
Il getto d’acqua di una sorgente proviene dal bacino e dal sifone. Ora
non si può pensare che l’acqua amara esca soltanto dalla gola, mentre
l’acqua buona dal cuore, poiché il bacino della sorgente è uno: il
cuore; dunque non ci può illudere credendo che ciò che diciamo venga
solo dalla gola. “Può forse,
miei fratelli, un albero di fichi produrre olive o una vite produrre
fichi? Così una sorgente salata non può produrre acqua dolce”.
Gli esempi presentati sono centrati sul fatto che la doppiezza del cuore
non è realtà possibile nella verità. Un fico non può dare olive, o una
vite produrre fichi; così come una sorgente salata non può dare acqua
dolce (Cf. Mt 7,16).
La vera e la falsa sapienza
13 Chi tra
voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue
opere sono ispirate a mitezza e sapienza.
14
Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e
spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità.
15 Non è
questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale,
diabolica;
16 perché
dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di
cattive azioni.
17
Invece la sapienza che viene dall’alto
anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia
e di buoni frutti, imparziale e sincera.
18 Per
coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di
giustizia.
“Chi
tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue
opere sono ispirate a mitezza e sapienza”.
Affermata l’estrema necessità del dominio sulla lingua, Giacomo passa a
ciò che deve esserci nel cuore di un cristiano, poiché è dal cuore che
procede ogni cosa (Mc 7,21). Chi è “saggio
e intelligente” comprende che le
opere non basta farle, poiché occorre farle bene. Sono le opere fatte
bene che manifestano la mitezza di un cuore e la sapienza che vi dimora.
"Ma se avete nel vostro cuore
gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne
contro la verità”. Se nel cuore
c’è “gelosia amara e spirito di
contesa”, bisogna convertirsi e
non vantarsi di essere buoni, mentendo contro la verità. La finzione
della carità (Rm 12,9) è desiderio di affermazione sugli altri,
ambizione, inganno. Chi è in Cristo sa però percepire chi è falso, anche
perché, a breve o a lunga distanza, non c’è nessuno che non finisca per
tradirsi (Mt 7,16). “Non è
questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale,
diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e
ogni sorta di cattive azioni”. Il
mondo si vuole costruire con una sapienza “terrestre”, che arriva ad
essere “diabolica”.
Il mondo non pensa secondo Dio, ma secondo la carne (Mt 16,23; Gal 5,17;
Rm 8,6). “Invece la sapienza
che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera”.
La sapienza che viene dall’alto “anzitutto
è pura”, cioè è esente da
inquinamenti terreni. E’ “pacifica”,
poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”,
cioè rifugge la collera, la polemica amara. E’ “arrendevole”,
non perché sia incline ai compromessi, ma perché sa accogliere le
ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente, non pronta alle
impennate. E’ “piena di
misericordia e di buoni frutti”,
poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e
liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni
frutti”. E’ “imparziale”,
cioè rifugge i favoritismi (2,1). E’ “sincera”,
cioè non alberga in un cuore doppio (Ps 12/11,3; 78/77,36; Os 10,2; Sir
1,25). “Per coloro che fanno
opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace”
Dio semina “nella pace”,
cioè non in un cuore in agitazione, un “frutto
di giustizia” (Cf. Eb 12,11). Il
“frutto di giustizia”
è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di
giustizia” poiché procede dalle
promesse di Dio (Cf. Mt 11,28; 13,12).
La causa delle discordie
4
1 Da dove
vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse
dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?
2 Siete
pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi
e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché
non chiedete;
3
chiedete e non ottenete perché chiedete male,
per soddisfare cioè le vostre passioni.
4 Gente
infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi
dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio.
5 O forse
pensate che invano la Scrittura dichiari: “Fino alla gelosia ci ama lo
Spirito, che egli ha fatto abitare in noi”?
6 Anzi, ci
concede la grazia più grande; per questo dice: Dio resiste ai superbi,
agli umili invece dà la sua grazia.
7
Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà
lontano da voi.
8
Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a
voi. Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso,
santificate i vostri cuori.
9
Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si
cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza.
10
Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.
11 Non dite
male gli uni degli altri, fratelli. Chi dice male del fratello, o
giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la Legge. E se
tu giudichi la Legge, non sei uno che osserva la Legge, ma uno che la
giudica. - Uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e
mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?
“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni
che fanno guerra nelle vostre membra?”.
Giacomo, mite vescovo di Gerusalemme, sa essere anche veemente. Il tomo
è forte, incisivo, eppure ancora dolce. “Le
passioni che fanno guerra nelle vostre membra”.
La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta
nelle passioni in una carne non dominata e che perciò travolgono lo
spirito. “Siete pieni di
desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non
riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”.
Giacomo parte da coloro che, non ottenendo i risultati formulati dai
molti desideri, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro
la pace e, resi insulsi dall’avidità insoddisfatta, fanno lotte che
diventano guerre, cioè volontà che uno dei due venga piegato. Le
comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge
avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
“Chiedete e non ottenete
perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni”.
Costoro, dominati dalle passioni, mentre non riescono ad ottenere il
soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad
ottenere da Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda
e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose
terrene. “Gente infedele! Non
sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?”.
Giacomo dicendo “gente infedele”
sottintende che il peccato è adulterio con le cose elevate a divinità
(Mt 6,24; Lc 16,13); è disprezzo di Dio, che ama di amore geloso (4,5).
“Chi dunque vuole essere amico
del mondo si rende nemico di Dio”.
Essere amico del mondo comporta immediatamente l’essere nemico di Dio
“O forse pensate che invano la
Scrittura dichiari: ‹Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha
fatto abitare in noi›?”. La
gelosia di Dio dichiara il suo amore sponsale. Il tema della gelosia di
Dio lo ritroviamo molto presente nella Bibbia ( Es 20,5; 34,14; Dt 4,24;
5,9; 6,15; Gs 24,19; Gl 2,18; Na 1,2; Sof 1,18; 1Cor 10,22). “Anzi, ci
concede la grazia più grande; per questo dice: Dio resiste ai superbi,
agli umili invece dà la sua grazia”. Dio geloso resiste ai superbi e dà
grazia agli umili (Pr 3,34 versione LXX; 1Pt 5,5).
Dio nel suo amore
difende gli umili dall’arroganza dei superbi e dà loro grazia. Il
Magnificat esprime pienamente questo (Lc 1,52): “Ha rovesciato i potenti
dai troni, ha innalzato gli umili”.
“Sottomettetevi dunque a Dio;
resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi”. Sottomettersi a
Dio non quali schiavi, ma quali figli obbedienti, che danno gloria a Dio
resistendo all’istigatore alla disobbedienza, che è il diavolo, e lo
mettono in fuga con la loro obbedienza a Dio. “Peccatori, purificate le
vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori”.
“Purificate le vostre mani”,
l’espressione richiama alle azioni inique compiute, nelle quali le mani
hanno gran parte: violenze, ruberie, uccisioni, avarizie, lavoro
disonesto, ingordigie. L’indecisione (1,6-7) procede dalla viltà nel
seguire il Signore. Giacomo invita alla decisione per il Signore, e tale
decisione santifica il cuore. “Riconoscete
la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in
lutto e la vostra allegria in tristezza”.
Il riconoscimento della propria miseria è il presupposto per il
pentimento, e il pentimento non è solo mosso dalla costatazione del male
fatto a se stessi, ma anzitutto dell’offesa fatta a Dio, degno di essere
amato sopra ogni cosa. La penitenza deve accompagnarsi con i segni di un
volto in lutto con lacrime di pentimento. Tutta la persona deve essere
coinvolta. La vita frivola deve lasciare il posto a una santa tristezza
(2Cor 7,10). “Umiliatevi
davanti al Signore ed egli vi esalterà”.
La penitenza richiede l’umiliarsi davanti al Signore (Cf. 1Re 21,29),
che perdona ed esalta, cioè ridà la vita della grazia perduta col
peccato. Umiliarsi significa riconoscere che non possiamo guarire le
ferite dell’anima da noi stessi, ma di necessità con l’aiuto di Dio.
“Non dite male gli uni degli
altri, fratelli”. La maldicenza
doveva essere molto diffusa e per questo Giacomo vi insiste. La
maldicenza crea continui pregiudizi, sospetti, che sgretolano la carità.
“Chi dice male del fratello, o
giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la Legge”.
La Legge perfetta, la Legge regale, la Legge di libertà, vuole la
carità, il perdono, la comprensione. Così chi “dice
male del fratello, o giudica il suo fratello”
si pone contro la Legge, che comanda l’amore. Mettendosi contro la
carità giudica la Legge come trascurabile, ponendosi con superbia al di
sopra della Legge. “Uno solo è
legislatore e giudice, Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi
sei tu, che giudichi il tuo prossimo?”.
Giudicare la Legge spetta solo a Dio che è “legislatore
e giudice”, e in quanto “giudice”
può “mandare in rovina”.
Ma ecco, l’uomo vuole essere giudice del suo prossimo, e non ne ha la
facoltà, poiché se vede le colpe deve pregare per la conversione del suo
fratello (5,19), e anche perché gli estremi completi di una colpa li
conosce solo Dio, e perciò bisogna lasciare a Dio il giudizio, mentre
però bisogna saper ben osservare i frutti per riconoscere le persone
finte e ingannatrici (Mt 7,16).
L’uomo è relativo a Dio
13
E ora a voi, che dite: “Oggi o domani andremo
nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”,
14
mentre non sapete quale sarà domani la vostra
vita! Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare.
15 Dovreste
dire invece: “Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello”. 16
Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo
genere è iniquo. 17
Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccat
“E ora a voi, che dite: ‹Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni›, mentre non sapete quale sarà domani la vostra vita!”. Giacomo passa a quei commercianti che, avidi di ricchezze, pianificano il futuro all’insegna dei guadagni, come se i loro giorni fossero una costante di cui disporre con certezza. Vero è che è buono fare progetti, ma non buono farli senza Dio. Buono è avere ottimismo di vita, ma non buono pensare che il futuro sia con certezza nelle nostre mani, poiché: “Non sapete quale sarà domani la vostra vita”; (Gb 14,1-2; Pr 27, 1; Lc 12,19s; Gv 9,41; 15,22).
“Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare”. L’esistenza dell’uomo è relativa a Dio. Non bisogna insuperbirsi, ma ricordare sempre che la vita dell’uomo sulla terra è “come vapore che appare per un istante e poi scompare”.
“Dovreste dire invece: ‹Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello›”. La vita dell’uomo è nelle mani di Dio, pur essendo vero che l’uomo è autore del proprio destino, con i suoi sì e i suoi no ai disegni di Dio, sempre a favore dell’uomo. Così è cosa giusta e doverosa riconoscere la sovranità di Dio, e non innalzarsi vantandosi come degli uguali a lui: “Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo”.
“Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato”. Giacomo conclude dicendo che il bene da farsi è conosciuto e chi non lo fa “commette peccato”; i cristiani infatti conoscono la Parola che è stata loro annunciata (1,22).
La sventura incombe sui ricchi disonesti
5
1 E ora a
voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi!
2 Le vostre
ricchezze sono marce, 3
i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro
argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad
accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori per gli ultimi giorni! 4
Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e
che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte
agli orecchi del Signore onnipotente.
5 Sulla terra avete vissuto in mezzo a
piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
6 Avete condannato e ucciso il giusto
ed egli non vi ha opposto resistenza.
“E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi!”. Giacomo ha la stessa veemenza appassionata di Gesù nei confronti dei ricchi disonesti (Lc 6,24s). Giacomo inizia con il tempo al futuro, per poi passare subito al tempo presente, per scuotere i ricchi disonesti causa delle destabilizzazioni maggiori nel mondo.
“Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco”. Le parole di Gesù sulla corruttibilità dei beni terreni, che i ricchi idolatrano sono presenti nel cuore di Giacomo (Mt 6,19; Lc 12,33). “Le vostre ricchezze sono marce”, sono marce fin da ora, e ciò da l’idea del putridume delle ricchezze che rendono nauseante la vita dei ricchi, anche se essi non lo vogliono percepire. “I vostri vestiti sono mangiati dalle tarme”, sono già disfatte ora, poiché sono orpelli, addobbi,, che non affascinano chi si è rivestito di Cristo (Gal 3,27; Rm 13,14). “Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine”.
L’oro può ossidarsi, così, con più facilità, l’argento. Giacomo, sa questo, ma va oltre presentando l’oro e l’argento come consumati dalla ruggine; una
ruggine simbolo della caducità terrena. L’oro e argento derivanti dall’iniquità, sono grandemente
impuri e perciò arrugginiscono. “La loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco”. La ruggine stessa, che Giacomo personifica, li accuserà, perché i ricchi disonesti hanno fondato la loro vita su ciò che non è durevole per l’uomo, scartando Dio, che è eterno. La ruggine stessa si avventerà come un fuoco su di loro accusandoli di avere preferito il contingente, il passeggero, a Dio.
“Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!“. Tutto l’accumulo di oro e di argento dei ricchi iniqui, sono solo tesori che si rivolteranno contro di loro nel tempo della fine del mondo (“ultimi giorni”) e del ritorno del Signore.
“Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente”. Il giudizio di Dio incombe su di loro, perché Dio ascolta le grida dei lavoratori umiliati nei loro diritti.
“Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage”. Il risultato dei ricchi disonesti è che i loro piaceri, la loro vita spavalda, è ciò che li schiaccerà nel “giorno della strage”, cioè nel giorno del ritorno di Cristo (Gdt 1,17; Pr 11,4; Sap 3,18; Rm 2,5; 1Cor 3,13; 2Pt 2,9; 3,7; ecc.). “Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”. Tanto era il loro potere, tuttavia il giusto ha resistito interiormente con la forza della fede e dell’amore, e ha vinto.
La venuta del Signore
7
Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate
l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra
finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge.
8 Siate
costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del
Signore è vicina. 9
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere
giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10 Fratelli, prendete a
modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel
nome del Signore. 11
Ecco, noi chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti. Avete udito
parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli
riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di
compassione. 12
Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra
e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro “sì” sia sì, e il vostro
“no” no, per non incorrere nella condanna.
“Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore”. Pur urtati dal mondo bisogna essere costanti nell’amare (Mt 24,12), fino “alla venuta del Signore”. Giacomo non pensa che i fedeli ai quali scrive vedranno il ritorno del Signore, ma ugualmente pone loro questa prospettiva.
“Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge”. Il desiderio di quel giorno non deve essere accompagnato da impazienza, che è dubbio circa le promesse del Signore. La pazienza dell’agricoltore che aspetta il momento della raccolta dopo aver seminato, non perde di costanza fino a che non giungano “le prime e le ultime piogge”. Non si scoraggia se esse tardano. Le prime piogge vengono in Palestina nell’autunno, le seconde in primavera.
“Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”. L’esempio della costanza dell’agricoltore è un invito a rinfrancare il cuore, a non lasciarsi prendere dallo sgomento di fronte alle situazioni negative della storia. “La venuta del Signore è vicina”. La data del ritorno del Signore nessuno la conosce, ma sostare nel pensiero che sia lontana porta a raffreddare il desiderio di quel giorno dove ci sarà la risurrezione e l’apoteosi dei figli di Dio e la condanna degli empi. Senza il desiderio di quel giorno, la speranza si affievolisce e l’uomo si appiattisce al presente.
“Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte”. Poiché il giudice è alle porte, e il giudizio è vicino non bisogna mancare di carità con lamentele reciproche, in uno spirito di negatività, che abbatte l’entusiasmo, il coraggio di procedere. Giacomo ora fa leva sul giudizio per toccare i più lenti alla conversione, ma prima ha presentato il Cristo che viene per dare giudizio di gloria eterna a coloro che gli sono stati fedeli (5,8). Nell’attesa, quelli che sono ferventi e hanno bisogno solo di costanza (Eb 10,35), non sono presi dal timore di quel giorno, ma dal desiderio perché (1Gv 4,18): “L’amore prefetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore”.
“Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore”. Giacomo, dal paragone con l’agricoltore circa la pazienza nell’attesa, passa a presentare modelli di pazienza e costanza in mezzo alle prove, come già aveva fatto Gesù (Mt 5,12; 23,29; Lc 11,49).
“Ecco, noi chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione”. La pazienza ha un’opera da compiere e va lasciato che la compia (1.2-4). Dio non manca poi di premiare. Il paziente Giobbe ebbe esito felice in terra dopo dure prove (Gb 42,10s), ma esiste un esito incommensurabilmente maggiore in cielo per coloro che lasciano che la pazienza compia l’opera sua.
“Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro ‹sì› sia sì, e il vostro ‹no› no, per non incorrere nella condanna”. La parola del labbro deve corrispondere a ciò che c’è nel cuore, altrimenti si è dei finti, degli ipocriti. Neppure bisogna giurare, perché un uomo onesto può chiedere di essere creduto sulla parola.
I Rabbini dicevano che i giuramenti dovevano consistere in un’invocazione che si riferiva a Dio - non nominando il nome di Dio (Es 20,7) - e abusavano del giuramento per nascondere la
loro inaffidabilità (Cf. Mt 5,34s).
L’unzione degli infermi
13
Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode.
14 Chi è
malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino
su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore.
15 E la
preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e,
se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.
16
Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni
per gli altri per essere guariti. Molto potente è la preghiera fervorosa
del giusto. 17
Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non
piovve sulla terra per tre anni e sei mesi.
18 Poi pregò
di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.
“Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode”.
Giacomo afferma che in mezzo alle ostilità del mondo non bisogna
smarrirsi, ma pregare; e quando si è nella gioia non si deve escludere
Dio, ma cantare inni di lode a lui. “Chi
è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino
su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore”.
E’ a Giacomo il minore che Dio ha affidato il compito di proclamare il
Sacramento dell’unzione degli infermi. Si può pensare che
nell’apparizione a Giacomo (1Cor 15,7) il Risorto gli diede, insieme al
delicatissimo incarico di vescovo di Gerusalemme, il compito di
comunicare agli altri apostoli l’istituzione del Sacramento per gli
infermi. Questa ipotesi ha appoggio nell’episodio della
trasfigurazione dove venne affidato a Pietro, Giovanni e Giacomo, il
maggiore, il compito di trasmettere agli altri la notizia, ma solo dopo
la risurrezione (Mt 17,9; Lc 9,36). Il Sacramento degli infermi
dovette essere per Giacomo il minore guida di grande mitezza e
misericordia, nel governo della comunità di Gerusalemme. Giacomo
presenta quanto già era noto nella pratica pastorale, per incoraggiare
gli infermi a chiamare presso di sé i presbiteri, che hanno il dovere di
recarsi presso gli ammalati. L’amministrazione del Sacramento è
legato ai “presbiteri della Chiesa”,
che chiamati vanno dall’infermo, nel caso che nessuno possa condurre
l’infermo da loro. Andare dall’infermo è segno di sollecitudine
pastorale. I presbiteri pregano su di lui, “ungendolo
con olio nel nome del Signore”.
La pluralità dei presbiteri evidenza che l’evento è ecclesiale, ed è
certo che attorno all’infermo si formasse una piccola assemblea orante.
“E la preghiera fatta con fede
salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati,
gli saranno perdonati”. La grazia
del Sacramento degli infermi consiste fondamentalmente nel conforto,
nella comunicazione di pace e di coraggio per superare le difficoltà
della malattia, e unirsi con forza alla passione di Cristo, e se ciò
rientra nei disegni di Dio ottenere la guarigione. Il Sacramente
agisce di per sé (ex opere operato), ma richiede la preghiera, le
disposizioni di fede dell’infermo (ex opere operantis), così la
preghiera dell’infermo, della piccola assemblea e dei presbiteri “salverà
il malato: Il Signore lo solleverà”.
Se l’infermo non ha avuto l’occasione penitenziale del sacramento
della Riconciliazione, ottiene nel Sacramento il perdono dei peccati: “se
ha commesso peccati, gli saranno perdonati”.
“Confessate perciò i vostri
peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere
guariti”. Il perdono è connesso
sempre all’umile riconoscimento dei peccati, che deve quindi essere
espresso nella piccola assemblea familiare formatasi nella casa
dell’infermo per il Sacramento degli infermi amministrato dai
presbiteri. Non si tratta della Confessione sacramentale, ma di una
confessione pubblica come il Confiteor. Ogni fedele prima o poi fa
l’esperienza della debolezza della malattia; così i fedeli devono essere
sempre solleciti nel pregare gli uni per gli altri. Ne segue che nella
casa dell’infermo si deve formare una piccola assemblea orante, durante
l’amministrazione del Sacramento. “Molto
potente è la preghiera fervorosa del giusto. Elia era un uomo come noi:
pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre
anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la
terra produsse il suo frutto”.
Giacomo mette in risalto che Elia “era
un uomo come noi”, quindi
soggetto alle stesse nostre sofferenze, difficoltà. In lui la preghiera
rivelò quanto sia potente se fatta con intensa fede, in sintonia col
volere di Dio. La potenza della preghiera fatta con fede è stata
presentata da Gesù (Mt 17,20; Lc 17,5).
Ricondurre i peccatori alla verità
19
Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo
riconduce, 20
costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo
salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.
Ci deve
essere premura per chi “si
allontana dalla verità”, cercando
di ricondurlo alla verità. Se uno si adopera per salvare dalla morte
spirituale un fratello nell’errore deve sapere che “coprirà
una moltitudine di peccati”,
perché l’esercizio della carità purifica il cuore dalle conseguenze dei
peccati. Ugualmente dice Pietro (1Pt 4,8): “La
carità copre una moltitudine di peccati”.
|