Testo e
commento
Capitolo
1 2 3 4
Paolo si orientò verso la città di Filippi durante la sua seconda missione, a seguito della visione di un macedone che gli diceva (At 16,9): “Vieni in Macedonia e aiutaci!”. Paolo salpò da Troade e giunse a Neàpoli e quindi a Filippi. Filippi
(Philippoi) era la città più importante del primo dei quattro distretti della Macedonia, ma non ne era la capitale assegnata a Anfipoli. Filippi era situata in una fertile pianura ad est del monte Pangeo, famoso per le sue miniere d'oro e d'argento. La strada decumana che attraversava Filippi era la via Egnazia che, partendo da Bisanzio, giungeva a Durazzo e ad Apollonia sull'Adriatico.
Filippi era una città di media grandezza, si può pensare a 100.000/150.000 abitanti, includendovi gli schiavi. La città era stata fondata da Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, nel 358/57, su di un preesistente nucleo abitato caratterizzato da numerose sorgenti d'acqua. La pianura attorno la città era stata teatro nel 42 a.C della vittoria militare di Marcantonio contro Bruto e Cassio. Il nucleo dominante era costituito da cittadini romani, veterani e partigiani di Antonio espulsi dall'Italia in seguito alla sconfitta di questi ad Azio nel 31 a.C. La città godeva, per concessione dell'imperatore Ottaviano, dello
jus italicum. Presente nella città una piccola comunità giudaica, che non aveva però una sinagoga e si radunava fuori città probabilmente in un recinto, lungo un fiume. Paolo si diresse verso quel luogo di preghiera e si rivolse alle donne che vi erano presenti. Una donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città di Tiàtira accolse la Parola e venne poi battezzata insieme a tutta la sua famiglia.
Paolo continuò a frequentare quel luogo di preghiera. Vi era una schiava pagana che aveva uno spirito di divinazione, probabilmente in connessione con il culto al dio Apollo dal momento che il testo dice che aveva uno spirito
pyton, che designava il serpente che custodiva l'oracolo di Delfo. La schiava, che in tal modo procurava guadagni ai suoi padroni, incominciò ad additare Paolo e Sila gridando: “Questi uomini sono servi del Dio altissimo e vi annunciano la via della salvezza”.
Parole queste rivolte a far passare se stessa come autentica mettendosi al
centro dell'attenzione. Paolo ad un certo punto si rivolse allo spirito
immondo che la possedeva dicendo: “In
nome di Gesù Cristo ti ordino di uscire da lei”.
E all'istante lo spirito uscì. I proprietari della schiava, vedendo persa le
possibilità di guadagno, presero Paolo e Sila e li trascinarono davanti ai
capi della città, accusandoli di essere dei Giudei che fomentavano disordini
e usanze inaccettabili per dei romani. I magistrati sotto la spinta della
folla li fecero bastonare, e quindi li misero in carcere. Durante la notte
un terremoto aprì di colpo le porte del carcere e caddero le catene. Il
carceriere vedendo questo credette che Paolo e Sila fossero fuggiti e stava
per uccidersi, ma Paolo gli disse che non erano fuggiti. Il carceriere si
convertì e con lui tutta la sua famiglia. I magistrati il giorno dopo
disposero che Paolo e Sila fossero liberati dal carcere, ma Paolo protestò
di essere stato percosso senza alcun processo e che inoltre questo era stato
fatto ad un cittadino romano. Ne seguirono le scuse dei magistrati, che però
li fecero allontanare dalla città.
La lettera ai Filippesi pone il problema del luogo dove fu scritta. La tesi
tradizionale dice che venne scritta da Roma, durante la prima prigionia di
Paolo. A questo condurrebbe la menzione del pretorio e di quelli della casa
di Cesare. Dal 1900 questa certezza è stata incrinata dalle scoperte
archeologiche che indicano che ad Efeso c'era una stazione di pretoriani e
pure c'erano degli appartenenti alla “famiglia di Cesare”, incaricati di
gestire il fiscus asiaticus. Efeso sarebbe poi molto più vicina a
Filippi di Roma e quindi molti hanno cominciato a pensare che la lettera sia
stata scritta da Efeso, dove con più facilità che a Roma si sarebbe potuto
recare Epafrodito con gli aiuti finanziari donati dai Filippesi. Negli Atti
non c'è nessuna menzione di una prigionia di Paolo ad Efeso, e la
considerazione che tale prigionia potrebbe essere compendiata nelle gravi
difficoltà che Paolo incontrò in Asia è molto debole. Certo è che anche a
Cesarea si aveva un pretorio stabilito nell'antico palazzo di Erode (At
23,35) e “quelli della casa di Cesare” potrebbero essere benissimo gli
schiavi o i liberti imperiali dislocati un po' in tutto l'impero. La prigionia di Paolo a Cesarea è ben documentata negli Atti, e Paolo vi poté avere una certa libertà e contatti con "i suoi" che gli davano assistenza (At 24,23), e quindi scrivere. Durante la prima prigionia a Roma non fu ospite del palazzo del pretorio come a Cesarea (At 23,35; Fil 1,13), ma in una casa che aveva preso in affitto (At 28,30).
Fu certamente Epafrodito a dare notizie
sullo stato della chiesa di Filippi, che cominciava ad essere insidiata dai
cattivi operai, cioè dai giudaizzanti che affermavano che per giungere alla
salvezza bisognava circoncidersi (3,1).
Non poté essere che Epafrodito a portare la lettera a Filippi.
Riguardo all'unità della lettera qualcuno ha voluto vedervi tre lettere
scritte da Paolo ai Filippesi, ma è solo un'idea senza spessore. In una
lettera come quelle scritte da Paolo necessariamente c'erano dei cambi di
tema. Il carattere sconnesso - diciamo così - della lettera non vincola
affatto a pensare che essa sia la somma di più lettere, perché tale
carattere è in armonia con gli aspetti personali, affettivi di Paolo verso i
Filippesi. A uno come Paolo non si possono applicare le regole di un
congegnato e astratto procedere accademico.
Nessuno è più in grado di avanzare dubbi, circa l'autenticità paolina della
lettera, come si ebbe da parte di diversi autori sulla metà del XIX sec.
1
1
Paolo e
Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a
Filippi, con i vescovi e i diaconi:
2 grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
“Vescovi”
(episkopoi:
ispettore, colui che vigila potendo dare indicazioni).
“Diaconi”
(diakonoi: ministri). Gli episkopoi vanno indentificati con i
presbiteri (presbiteoi: anziani). Gli episkopoi non erano i
vescovi successori degli apostoli. Tali erano Paolo, in posizione
particolare dovuta alla singolarità della sua chiamata, Timoteo (1Tm 5,17s),
Tito (Tt 1,5). Gli episkopoi o presbiteroi celebravano
l'Eucaristia, spiegavano la Parola, e guidavano la comunità, mentre i
diakonoi erano i loro aiutanti nelle cose organizzative della Chiesa
presente a Filippi (Cf. At 6,1s). Che l'uso della parola episkopoi sia
qui un
equivalente di
presbiteroi lo si vede nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso, detti
presbiteroi e anche episkopoi (At 20,17-28). Lo si vede
pure nella lettera a Tito (1,5.7) e nella prima a Timoteo (3,2). Si noti come Paolo non mette al primo posto i profeti e i
dottori, che erano molto ricercati e stimati, come si vede nella Didaché, ma
gli episkopoi e i diakonoi, poiché essi costituiscono nella loro
comunione con gli apostoli e i vescovi veri e propri, secondo il termine
affermatosi già nel II secolo, la struttura fondamentale di una Chiesa locale.
3
Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi.
4
Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia
5
a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al
presente.
6
Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la
porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
“Giorno
di Cristo Gesù”. L'espressione viene generalmente letta come la manifestazione
finale di Cristo nella gloria (parusia) e il seguente giudizio
universale, ma essa include il giudizio particolare che si ha immediatamente
dopo la morte. Il “giorno di Cristo Gesù” è il giorno
in cui compariremo davanti al Cristo giudice, per ricevere quel premio che segna
il compimento dell'opera di Dio su di noi. Prima nella visione beatifica di Dio,
poi, alla fine del mondo, nella risurrezione gloriosa del corpo.
7 È
giusto, del resto, che io provi questi sentimenti per tutti voi, perché vi porto
nel cuore, sia quando sono in prigionia, sia quando difendo e confermo il
Vangelo, voi che con me siete tutti partecipi della grazia.
8 Infatti
Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di
Cristo Gesù.
9
E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno
discernimento,
10 perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e
irreprensibili per il giorno di Cristo,
11 ricolmi
di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e
lode di Dio.
“Il
giorno di Cristo”. È qui focalizzato il giudizio universale dove si avrà, per
coloro che hanno creduto in Cristo, il premio della risurrezione nella gloria.
12
Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto
per il progresso del Vangelo,
13 al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che
io sono prigioniero per Cristo.
14 In tal
modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene,
ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola.
15
Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma
altri con buoni sentimenti.
16 Questi lo fanno per amore, sapendo che io sono stato incaricato
della difesa del Vangelo;
17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con
intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene.
18
Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità,
Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene.
“Le
mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo”.
Paolo comunica ai Filippesi che le catene non lo hanno reso un finito, come
ritenevano quelli che pensavano di “accrescere dolore alle mie catene”. Al
contrario, esse si presentano vantaggiose per il Vangelo, perché gli danno
l'opportunità di venire a contatto con i pretoriani che si avvicendavano alla
sua custodia e che poi parlavano di lui “in tutto il palazzo del pretorio”. Le
catene per Paolo sono un'occasione magnifica di testimonianza.
19
So infatti che questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e
all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo,
20
secondo la mia
ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena
fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia
che io viva sia che io muoia.
“So
infatti che questo servirà alla mia salvezza”. L'apostolo
non si ferma al successo apostolico, e per non cadere in vanagloria resta ben
focalizzato ad adoperarsi per la sua salvezza.
21
Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.
22
Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa
scegliere.
23 Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di
lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio;
24
ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.
25 Persuaso di
questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il
progresso e la gioia della vostra fede,
26 affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in
Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi.
“Persuaso
di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi”.
Persuaso che deve ancora compiere tanto per il bene dei Filippesi e degli altri,
Paolo pensa che non è ancora giunto il tempo in cui lascerà la terra. Con ciò
non esprime una profezia, ma solo una sua profetizzazione.
27
Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga
e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in
un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo,
28
senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è segno di
perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio.
29
Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in
lui, ma anche di soffrire per lui,
30 sostenendo la
stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.
“A
voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per
lui”.
Il soffrire a causa della testimonianza resa a Cristo è una grazia e non una
sventura. Soffrire per Cristo vuol dire essere di Cristo e partecipare del suo
amore per la salvezza delle anime, per poi partecipare della sua gloria.
2
1
Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto
della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di
amore e di compassione,
2 rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa
carità, rimanendo unanimi e concordi.
3
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso.
4 Ciascuno
non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
“Se
dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto”,
non è in forma dubitativa, ma l'opposto. Paolo vuol dire che la carità non è solo donazione nel dolore, non si aspetta solo la croce, ma essa ha in sé il desiderio di un ritorno d'amore, senza pretenderlo, e senza cessare di amare qualora ci si trovasse di fronte all'ingratitudine. Paolo parla qui della consolazione data dai fratelli nella fede, non della consolazione che viene da Dio (2Cor. 1,4): Questa è la fonte della capacità di consolare i fratelli in ogni genere di afflizione nelle quali possano trovarsi.
“Se c'è qualche comunione di spirito”, poiché l'essere in Cristo porta con sé, come deve essere, la comunione di spirito nell'affetto e non una comunione fredda di professione di fede, che nulla sarebbe.
“Se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, cioè sentimenti di accoglienza nel cuore e di partecipazione delle sofferenze dell'altro.
Quello che darà pienezza di gioia a Paolo è che i Filippesi siano uniti in un medesimo sentire avendo la stessa carità cioè quella comunicata da Cristo per mezzo del dono dello Spirito, e ciò ha il suo sigillo di autenticità nell'unanimità e concordia tra i fedeli di Filippi.
5
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
7
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11
e ogni lingua proclami:
Gesù Cristo è Signore!,
a gloria di Dio Padre.
“Abbiate
in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”. Paolo
esorta i Filippesi ad imitare Gesù Cristo, nell'umiltà che sa giungere
all'accettazione delle umiliazioni.
“Egli,
pur essendo nella condizione di Dio”.
Letteralmente “nella forma di Dio (morphè Theou)”. Il significato è che
la natura umana assunta dall'unigenito Figlio di Dio, distinta rigorosamente
dalla natura divina, fa capo alla Persona divina. Due nature, ma una sola
Persona. La natura umana di Cristo ha, usando un termine della scolastica, come
subiecto la Persona divina. Inoltre Cristo essendo un ente, non è una
dualità, pur essendovi in lui due nature distinte, ma una unità. Così
essendo, Gesù Cristo poteva darsi una vita di eccezione, aureolando la sua
umanità di splendore, ma non lo fece. Egli invece “non
ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Un
privilegio è qualcosa che si ha il diritto di tenere gelosamente. Ma Cristo
rinunciò a questo, “svuotò
se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”.
Letteralmente “svuotò se stesso col prendere la forma di servo”. Il servo
è nella condizione di servire e non di essere servito, quindi in una condizione
di umiltà. Servo davanti al Padre con il compito di attuare la salvezza degli
uomini. Infatti, se Cristo si fosse dato una vita di eccezione noi saremmo
rimasti abbagliati, ammirati, ma non lo avremmo visto entrare nelle nostre
esistenze servendole per elevarle a Dio. Cristo volle vivere nella “forma
di servo”, per dare a noi la vita della grazia. Diventò “simile
agli uomini”, perché condivise la condizione umana, eccettuato il peccato (Eb
4,15).
“Dall’aspetto
riconosciuto come uomo, umiliò se stesso”. Non dandosi
una esistenza di splendore, ma rimanendo nei limiti della condizione umana,
venne ”riconosciuto
come uomo”. La sua natura di uomo fu evidente, ma egli andò ben oltre poiché
umiliò se stesso “facendosi obbediente fino
alla morte e a una morte di croce”. Egli volle essere umile anche nelle umiliazioni, nelle
ingiustizia. Il servo di Jahvéh fu obbediente fino ad accettare per noi la morte
di croce.
“Per
questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”.
L'esaltazione è avvenuta mediante la risurrezione gloriosa del suo corpo e
l'ascensione alla destra del Padre. Il “nome”
indica la sua gloria, la sua potenza, la sua maestà, la sua regalità su tutto,
così che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e
sotto terra”. “Nei cieli”: gli angeli e i beati, “sulla terra”:
gli uomini, “sotto terra”: i demoni e i dannati:
essi non possono resistere di fronte al nome di Gesù.
12
Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero
presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con
rispetto e timore.
13 È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il
suo disegno d’amore.
“È
Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno
d’amore”.
L'iniziativa nelle opere buone è sempre costantemente di Dio, e l'uomo lo deve
riconoscere per mantenersi nella verità e non attribuire a sé il suo agire nel
bene, che subito verrebbe vanificato. La corrispondenza non può essere
passivamente obbediente, ma deve essere attiva, con effettivo operare, sempre
nell'aiuto della grazia di Dio.
14
Fate tutto senza mormorare e senza esitare,
15 per
essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione
malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo,
16
tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di
non aver corso invano, né invano aver faticato.
17 Ma,
anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede,
sono contento e ne godo con tutti voi.
18 Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
“Ma,
anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede,
sono contento e ne godo con tutti voi”. Paolo
presenta che, nell'eventualità, molto possibile, che venga messo a morte da
Nerone proprio perché cristiano e quindi nella condizione di non potere
accettare minimamente l'idolatria come pure l'idea di un Cesare divinità, il suo
sangue verrà ad arricchire il sacrificio dei Filippesi, come le libagioni che
venivano versate sulle vittime (Nm 15,5s; 28,7s).
19
Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timoteo, per essere anch’io confortato
nel ricevere vostre notizie.
20 Infatti, non ho nessuno che condivida come lui i miei sentimenti e
prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda:
21
tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo.
22
Voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il Vangelo insieme
con me, come un figlio con il padre.
23 Spero
quindi di mandarvelo presto, appena avrò visto chiaro nella mia situazione.
24
Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona.
25
Ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, fratello mio, mio compagno di lavoro
e di lotta e vostro inviato per aiutarmi nelle mie necessità.
26
Aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a
conoscenza della sua malattia.
27 È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio ha avuto
misericordia di lui, e non di lui solo ma anche di me, perché non avessi dolore
su dolore.
28 Lo mando quindi con tanta premura, perché vi rallegriate al vederlo
di nuovo e io non sia più preoccupato.
29
Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso
persone come lui,
30
perché ha sfiorato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per
supplire a ciò che mancava al vostro servizio verso di me.
“Rischiando
la vita, per supplire a ciò che mancava al vostro servizio verso di me”.
La malattia di Epafrodito era in conseguenza degli strapazzi del viaggio.
3
1
Per il resto, fratelli miei, siate lieti nel Signore. Scrivere a voi le stesse
cose, a me non pesa e a voi dà sicurezza.
2
Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si
fanno mutilare!
3
I veri circoncisi siamo noi, che celebriamo il culto mossi dallo Spirito di Dio
e ci vantiamo in Cristo Gesù senza
porre fiducia nella carne,
4 sebbene anche in essa io possa confidare. Se qualcuno ritiene di
poter avere fiducia nella carne, io più di lui:
5
circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di
Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo;
6
quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva
dall’osservanza della Legge, irreprensibile.
7
Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a
motivo di Cristo.
8
Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità
della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte
queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo
9
ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla
Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio,
basata sulla fede:
10 perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la
comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte,
11
nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
“Avendo
come mia giustizia non quella derivante dalla Legge”,
tale giustizia non era giustificante davanti a Dio perché ometteva l'autentica
attesa del futuro Messia, presentato dalla Legge e dai Profeti (Lc 16,31).
“Nella
speranza di giungere alla risurrezione dai morti”.
E' la risurrezione gloriosa. Tutti risorgeranno, nella gloria quelli che avranno
creduto in Cristo, gli altri nella dannazione eterna.
12
Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo
di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo
Gesù.
13 Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto
questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta
di fronte,
14 corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù,
in Cristo Gesù.
“Non
ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione”.
Fin tanto che l'uomo è sotto il peso carne avrà sempre imperfezioni, contro le
quali dovrà sempre combattere per migliorare (Cf. Rm 7,16s). In cielo senza il
peso della carne e nella visione beatifica di Dio si raggiungerà la perfezione.
Tuttavia Paolo parla di “perfetti” (1Cor 3,5;
Fil 3,15; Col 1,28; Ef 4,13), ma si riferisce a coloro che hanno accolto la
Parola di vita e la fanno diventare midolla di esistenza.
15
Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche
cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo.
16
Intanto, dal punto a cui siamo arrivati, insieme procediamo.
17
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano
secondo l’esempio che avete in noi.
18
Perché molti -
ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto - si
comportano da nemici della croce di Cristo.
19
La loro sorte
finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui
dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
20
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il
Signore Gesù Cristo,
21
il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo
glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
“Fratelli,
fatevi insieme miei imitatori”, nel suo
costante impegno nel correre verso la meta, verso il “premio che Dio
ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
4
1
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona,
rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
2 Esorto
Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore.
3
E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto
per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i
cui nomi sono nel libro della vita.
Evòdia e Sintiche sono due donne che hanno fatto tanto per il Vangelo, ma che
ora sono in contrasto.
“Fedele
cooperatore”, letteralmente Sizigo. Sizigo probabilmente è un
nome di persona, che significa etimologicamente “compagno di giogo”
4
Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti.
5
La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!
6
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre
richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
7
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le
vostre menti in Cristo Gesù.
“E
la pace di Dio, che supera ogni intelligenza”. La pace di
Dio è riconciliazione con lui, è unione con lui. Ad essa si accede per la fede
ricca di imitazione di Cristo. La pace data dalle intelligenze è quella dei
filosofi.
8
In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è
giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è
virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri.
9
Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in
pratica. E il Dio della
pace sarà con voi!
10
Ho provato grande gioia nel Signore perché finalmente avete fatto rifiorire la
vostra premura nei miei riguardi: l’avevate anche prima, ma non ne avete avuto
l’occasione.
11 Non dico questo per bisogno, perché ho imparato a bastare a me
stesso in ogni occasione.
12 So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono
allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e
all’indigenza.
13
Tutto posso in colui che mi dà la forza.
14
Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
15
Lo sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo,
quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere,
se non voi soli;
16 e anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario.
17 Non è però il vostro dono che io cerco, ma il frutto che va in
abbondanza sul vostro conto.
18 Ho il
necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da
Epafrodìto, che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a
Dio.
19
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza
con magnificenza, in Cristo Gesù.
20
Al Dio e Padre
nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
21
Salutate ciascuno dei santi in Cristo Gesù.
22 Vi
salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto
quelli della casa di Cesare.
23 La
grazia del Signore Gesù Cristo sia
con il vostro spirito.
“Non
è però il vostro dono che io cerco”. Paolo non è stato
vicino ai Filippesi nella speranza di doni.
“Quelli
della casa di Cesare”. Sono addetti del palazzo imperiale.
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