Testo e
commento
Capitolo
1 2 3 4 5
6 7
8 9
10 11
12 13
14 15
16
L'ultima tappa del
secondo viaggio missionario di Paolo (At 15,36; 18,1s) fu Corinto. Era partito
da Antiochia con Sila (Silvano) attraversando la Siria del Nord e la Cilicia,
confermando nella fede le Chiese già fondate. Si era poi recato a Derbe e a
Listra dove aveva aggregato Timoteo, quindi era andato a Iconio in Licaonia.
Attraversò poi la Frigia e la regione della Galazia. Impedito dallo Spirito
Santo di passare in Asia, si diresse verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non
lo permise. Giunto vicino alla Misia, Paolo ebbe la visione di un Macedone che
lo supplicava di passare in Macedonia. Paolo, Sila e Timoteo si imbarcarono così
a Troade verso Samotracia e poi giunsero a Neapoli, quindi a Filippi nella
Macedonia. Paolo e Sila proseguirono giungendo a Tessalonica, da dove dovettero
allontanarsi a causa di una sollevazione dei Giudei. Unitamente a Timoteo
giunsero a Berea, ma la persecuzione dei giudei di Tessalonica li raggiunse
anche a Berea. L'apostolo partì da solo verso Atene, poi si recò a Corinto,
dove venne raggiunto da Sila e Timoteo. A Corinto fu ospite di due coniugi,
Aquila e Priscilla, lavorando come tessitore. A Corinto Paolo vi giunse nel 52
d.C e dovette restarci per circa diciotto mesi.
La città di Corinto
era stata distrutta nel 146 a.C. dal console Lucio Mummio, ma nel 44 a.C. Caio
Giulio Cesare la fece ricostruire e ripopolare con coloni italici. Nel 27 a.C.
Ottaviano Augusto la costituì capitale della provincia senatoriale dell'Acaia.
La città in breve arrivò a superare lo splendore antico. Affacciata sul mare,
con nel retroterra i monti Oneia, aveva due porti (Cencre sul golfo Saronico,
Lecheo sul golfo di Patrasso) frequentatissimi, tanto che Corinto divenne un
essenziale punto d'incontro dei mercati d'Italia, Grecia e Asia. Città di mare,
Corinto era una città cosmopolita, dove il denaro circolava in abbondanza e col
denaro la dissolutezza, tanto che la vita spensierata e dissoluta veniva
definita “portarsi alla maniera dei Corinzi”: “corintizzare”;
contemporaneamente vi erano tantissimi poveri. Sull'Acropoli a 575 m. sul
livello del mare c'era un tempio, di non grandi proporzioni - quattro colonne di
facciata come si ricava da una moneta - dedicato ad Afrodite. Strabone
(Geografia, VIII, 6, 20) parla della presenza di un migliaio di prostitute sacre
(ierodule) accanto al tempio, ma il dato si riferisce in realtà al grande numero
di prostitute presenti a Corinto. Capitale dell'Acaia, non è azzardato pensare
che a Corinto ci fossero circa 500.000 abitanti, dei quali due terzi erano
schiavi, addetti ai due porti e alle attività relative al commercio, nonché alle
case patrizie. C'era poi un buon numero di residenti temporanei.
La comunità fondata
da Paolo era in gran parte costituita da persone di bassa condizione, ma non
mancavano persone altolocate. Quanti erano i cristiani al tempo della prima
lettera? A giudicare da come Gesù incoraggiò Paolo a continuare a predicare
nonostante le difficoltà, perché a Corinto aveva un numeroso popolo (At
18,9-10), cioè persone che vivevano la legge senza la Legge (Rm 2,14) e che
erano pronte ad accogliere il Vangelo e a difendere Paolo, dovevano essere
non pochi, dopo diciotto mesi di lavoro apostolico.
I fedeli si
riunivano in giorni fissati (domenica) in varie case (At 2,46; Rm 16,5.10.11;
1Cor 16,19; Fil 4,22; Col 4,15) prima dell'alba per la preghiera, poi si
riunivano nuovamente per il pasto serale (Plinio il giovane, “Epistola a
Traiano X,96,1-9”). Al termine dell'agape si celebrava l'Eucaristia. C'erano
anche le convocazioni plenarie di tutta la comunità (14,23), che si prolungavano
fino a notte inoltrata, probabilmente in qualche luogo fuori città, con
sistemazione di ampi tendoni.
La comunità era
fervente, tuttavia esistevano motivi di preoccupazione.
Paolo scrisse ai Corinzi una prima lettera dove
raccomandava di tenersi a distanza da alcuni agitatori. La
lettera non venne conservata dalle comunità primitive, ma la sua sostanza si
ritrova nella 1Cor 5,9s. Non è da pensare che tale lettera non conservata fosse
parola di Dio, che altrimenti sarebbe entrata nella raccolta delle lettere
canoniche di san Paolo.
Tale lettera, di
carattere disciplinare, non risolse i problemi e anzi a Paolo arrivarono notizie
sempre più allarmanti sia da parte di alcune persone della famiglia di Cloe
(1,11), sia da Apollo (16,12) e sia da una delegazione appositamente inviata
(16,17).
Di fronte
alle tante situazioni che minacciavano di far naufragare la comunità, Paolo
provvide a mandare Timoteo a Corinto (4,17), e ad inviare un'altra lettera,
cioè la prima lettara ai Corinzi.
La prima
lettera ai Corinzi Paolo la scrisse nel 56 o 57, da Efeso (16,8).
La prima lettera
ai Corinzi presenta
un contenuto molteplice che risponde alle situazioni della comunità.
Pur non essendo tematicamente unitaria, ha tuttavia una fortissima unità nel
riferimento costante a Cristo, tanto che la lettera possiede una grande
ricchezza teologica.
Indirizzo e saluto
1
1
Paolo, chiamato a
essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sostene,
2
alla Chiesa di Dio
che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per
chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore
nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro:
3 grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù
Cristo!
Azione di grazie
4
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che
vi è stata data in Cristo Gesù,
5
perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e
quelli della conoscenza.
6
La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente
7
che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del
Signore nostro Gesù Cristo.
8
Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore
nostro Gesù Cristo.
9
Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio
suo Gesù Cristo, Signore nostro!
Paolo, dopo il
saluto e prima di entrare nel vivo delle varie situazioni dei fedeli di
Corinto, presenta il suo continuo grazie al Signore per la comunità. E' una
comunità viva, fervente; e se non ha ancora ricevuto i discorsi elevati della “sapienza” (3,2), possiede “tutti i doni, quelli della parola e quelli della
conoscenza”, cioè le “tradizioni” (1Cor 11,2) e la capacità di comunicarle mediante il “dono
della parola”.
Per la sua fedeltà alla testimonianza di Cristo la comunità “non manca più di alcun carisma”,
e ciò per crescere spiritualmente e numericamente estendersi. I fedeli sono in
attesa del ritorno del Signore, e il Signore fedele li “renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel
giorno del Signore nostro Gesù Cristo”.
Avendo tanta
ricchezza la comunità di Corinto non può, però, sfuggire alle responsabilità di
disordini che subito Paolo presenta.
Le fazioni
preferenziali
10
Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a
essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma
siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. 11 Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai
familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie.
12 Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice:
“Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di
Cristo”.
13
È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati
battezzati nel nome di Paolo?
14
Ringrazio Dio di non avere battezzato nessuno di voi, eccetto Crispo e Gaio,
15
perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome.
16
Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefanàs, ma degli altri non so se
io abbia battezzato qualcuno.
A Corinto si
ragionava per
stabilire chi tra gli apostoli e predicatori fosse il più
grande (Cf. Mc 9,33), e ci si schierava per l'uno o per l'altro. In ogni fazione
aveva maggior diritto di vanto chi aveva ricevuto il Battesimo dall'apostolo o
predicatore eletto a vessillo. Il partito di Pietro doveva essere costituito da
giudeo-cristiani convertiti da Pietro in qualche luogo della Giudea e poi
trasferitisi a Corinto. Quello di Apollo si era formato in seguito alla sua
presenza a Corinto (At 18,24s). Il partito di Cristo doveva essere il partito di
quelli che erano contro le fazioni, costituendone, di fatto, un'altra nel nome
di Cristo. Il partito di Paolo doveva essere quello più numeroso, ma non
possedeva che pochi battezzati da lui, certamente aveva lasciato a Timoteo e
Silvano (Sila) il compito di battezzare. Per i due compagni di Paolo non si
erano formati partiti. Probabilmente perché Timoteo era giovane e Silvano non
aveva una forte personalità.
Poste così le cose c'erano
discordie tra le varie fazioni, fino a livello di liti personali, che poi
venivano portate davanti ai tribunali pagani.
I
presbiteri istituiti dovevano
essere coinvolti in
qualche
modo anche loro nel fenomeno delle fazioni.
Cristo
crocifisso, sapienza di Dio
17
Cristo infatti non mi
ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di
parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
Paolo smonta l'idea
che l'amministrazione del Battesimo sia l’acquisizione di un titolo sul
battezzato. La paternità non sta nell'aver battezzato, ma nell'aver annunciato
Cristo (1Cor 4,15), non affidandosi al bel linguaggio, cioè “con
sapienza di parola”,
ma basandosi, invece, “sulla
potenza di Dio”
(2,5), affinché non risultasse vana la croce di Cristo, cioè l'opera salvifica
di Cristo.
18
La parola della croce
infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano,
ossia per noi, è potenza di Dio.
19 Sta scritto infatti (Is 29,14):
|
Distruggerò la sapienza dei
sapienti
e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. |
20
Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo?
Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo?
21 Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con
tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i
credenti con la stoltezza della predicazione.
22
Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano
sapienza, 23
noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i
pagani; 24
ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e
sapienza di Dio.
25
Infatti ciò che è
stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più
forte degli uomini.
“La
parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli
che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio”. La “parola della croce”
annunciata a chi era imbevuto di vizio, di epicureismo, di scetticismo, di
atarassia, di sete del potere, trovava come risposta il rifiuto e la derisione.
Per costoro era stoltezza, cosa che neppure andava detta e bisognava vergognarsi
di proporla. Per chi invece, pagano, era alla ricerca di Dio e osservava, pur
con tanti limiti, la legge dell'amore senza avere la Legge (Rm 2,14), la
parola della croce rimandava subito alla testimonianza di un amore senza
confini, e colpiva. Tanti e tanti nel paganesimo avvertivano bene l'assurdità
dell'Olimpo, il gravame soffocante delle mitologie piene di diatribe tra dei, di
adulteri di Zeus, di vendette, di proposte di lussuria, di frustrazione della
libertà dell'uomo sotto le beffe del Fato.
Se per i pagani
imbevuti di vizio la “parola della croce” era stoltezza, per i Giudei era scandalo,
perché proponeva un Messia crocifisso, tutto il contrario di quello che le
scuole rabbiniche avevano divulgato in Israele. Chi annunciava un Messia
crocifisso doveva vergognarsi di farlo. Ma Paolo non si vergognava di certo né
di fronte ai pagani, né di fronte ai Giudei, di annunciare la verità e la
salvezza (Rm 1,16): “Io non mi vergogno del Vangelo”. Ma tanti tra i Giudei, dal
comportamento retto, comprendevano il messaggio della croce e credevano a
Cristo: “Per
coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e
sapienza di Dio”.
I sapienti secondo
la carne, gli eruditi, i sottili ragionatori che cercano consolazione con errori
sui loro errori, falliscono e non ottengono la salvezza poiché non vogliono
riconoscere Dio, creatore dei cielo e la terra (Rm 1,21).
Credere nell'unico
Dio è la premessa per accogliere la “stoltezza della predicazione”; stoltezza
per la sapienza del mondo, perché annuncia Cristo crocifisso, ma sapienza
salvifica di Dio per coloro che non ricusano di credere.
26
Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti
sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.
27 Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha
scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha
scelto per confondere i forti;
28
quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla,
Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono,
29
perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. 30 Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato
sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione,
31
perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.
La salvezza di Cristo è per
tutti gli uomini, ma pochi tra i potenti, tra gli altolocati, l'accoglievano,
perché illusi di aver raggiunto una salvezza, che in realtà era effimera (Mt
16,25).
“Non
ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né
molti nobili”,
e ciò potrebbe far pensare ad una debolezza della comunità destinata per questo
a soccombere, ma ciò non è, perché ciò che è debole per il mondo è forte per la
potenza di Dio “quello
che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti”.
E ciò che è stato reso forte da Dio non può vantarsi di avere costruito da sé
tale forza, ma deve riferirlo a Dio poiché “grazie a lui voi siete in Cristo Gesù (...), perché, come sta
scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore”.
La predicazione
di Paolo a Corinto
2
1
Anch’io, fratelli,
quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con
l’eccellenza della parola o della sapienza.
2 Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
3 Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e
trepidazione. 4
La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di
sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza,
5
perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza
di Dio.
6
Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che
non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al
nulla. 7
Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta
e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria.
8 Nessuno dei
dominatori di questo
mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il
Signore della gloria.
9
Ma, come sta scritto (Is 64,3; 65,16):
|
Quelle cose che occhio non
vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
Dio le ha preparate per coloro che lo amano. |
10
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce
bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.
11 Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo
che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo
Spirito di Dio.
12
Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di
Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato.
13 Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla
sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in
termini spirituali.
14
Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio:
esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può
giudicare per mezzo dello Spirito.
15
L’uomo mosso dallo
Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.
16
Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da
poterlo consigliare? (Is 40,13) Ora, noi abbiamo il pensiero di
Cristo.
A Corinto non erano
ancora giunti i “superapostoli” (2Cor 11,5), ma i Corinzi, colpiti dall'arte retorica e dai
modi da tribuno dei “dominatori di questo mondo”, non si ritenevano soddisfatti
se i predicatori non erano forbiti, ricchi di cognizioni, seducenti come
tribuni. Paolo deve dunque fare la difesa della sua predicazione e del perché
si sia presentato loro “nella
debolezza e con molto timore e trepidazione” e questo per confidare solo nella potenza di Dio, la sola
capace di rendere viva la Parola in un cuore. Il suo sapere poi fu soltanto
questo: “Io ritenni infatti di non sapere altro in
mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”.
Paolo scartava la sapienza umana, quella di questo mondo, quella di coloro che
sono “i dominatori di questo mondo”,
cioè i tribuni, i governatori, i retori, ecc.. Esiste però una sapienza della
quale gli evangelizzatori parlano. E' una sapienza che viene da Dio, che è “sapienza
di Dio”
e che “nessuno
dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non
avrebbero crocifisso il Signore della gloria”.
“I
perfetti”,
sono i fedeli che non sono più degli infanti, ma sono diventati capaci di “cibo
solido”.
I perfetti non sono quelli che non hanno più bisogno di conversione permanente,
poiché tale è necessità permanente, senza fine, ma quelli maturi nella
conoscenza delle verità del Signore.
La conoscenza della
“cose che
occhio non vide, né orecchio udì”
Dio l'ha comunicata “per mezzo dello Spirito”, che ci illumina Cristo.
Ai Corinzi Paolo
non aveva ancora potuto parlare di ciò che diceva ai “perfetti”,
poiché erano ancora “carnali”,
cioè embrionali e quindi ancora presi da ciò che si vede e tocca, e non con lo
sguardo interiore ben fermo alle cose invisibili (2Cor 4,18).
“L’uomo
mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da
nessuno”.
L'uomo
spirituale sa distinguere nitidamente il giusto dall'ingiusto, sa cogliere
agilmente gli errori contro la verità, sa valutare le situazioni e percepisce le
finzioni degli uomini. Questo però non procede dalle sue capacità, ma dallo
Spirito presente in lui. Nessuno poi, “lasciato alle sue forze”,
può giudicare le cose dello Spirito, cioè valutare per quello che sono, poiché
per lui le cose di Dio “sono
follia”.
Nessun uomo lasciato alle sue sole forze può conoscere il pensiero del Signore,
e questa è la presunzione di tanti che giungono a trattare Dio alla pari
dandogli consigli o addirittura degli imperativi.
“Ora,
noi abbiamo il pensiero di Cristo”, ma lo abbiamo perché Cristo ce lo ha comunicato mediante la sua
Parola, che viene illuminata dallo Spirito (Gv 16,13).
Le divisioni segno di immaturità
3
1
Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma
carnali, come a neonati in Cristo.
2
Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci.
E neanche ora lo siete,
3
perché siete ancora carnali. Dal momento che vi sono tra voi invidia e
discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera umana?
4
Quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi
dimostrate semplicemente uomini?
5
Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete
venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso.
6 Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva
crescere. 7
Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere.
8
Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria
ricompensa secondo il proprio lavoro.
9
Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio.
Le fazioni a
Corinto non erano espressioni scismatiche, ma segno di immaturità. Paolo ha
presentato che con quelli che hanno raggiunto la maturità nella conoscenza delle
cose di Dio parla di una sapienza elevata, dando loro “cibo solido” che non ha potuto ancora dare ai Corinzi; per
il momento non ha potuto nutrirli che dando loro “da
bere latte”,
cioè i primi e generali elementi dell'annuncio evangelico. I fedeli di Corinto
sono ancora “carnali”,
e lo dimostra il loro dividersi in fazioni a pro dell'uno o dell'altro apostolo.
Paolo presenta così
la retta valutazione da dare al ministero dei vari apostoli e predicatori. Essi
sono dei “servitori”
del Signore; lui è il centro non loro. “Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa
crescere”.
Chi pianta e chi irriga “sono
una medesima cosa”,
cioè dei collaboratori di Dio, che riceveranno la loro ricompensa “secondo
il proprio lavoro”.
Chi compromette
il tempio di Dio verrà distrutto
10
Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho
posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento
a come costruisce.
11
Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova,
che è Gesù Cristo.
12
E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose,
legno, fieno, paglia,
13
l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere,
perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di
ciascuno. 14
Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una
ricompensa. 15
Ma se l’opera
di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però
quasi passando attraverso il fuoco.
16 Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in
voi? 17
Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio
di Dio, che siete voi.
18
Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si
faccia stolto per diventare sapiente,
19
perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta
scritto infatti: Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro
astuzia.
20 E ancora: Il Signore sa che i progetti dei
sapienti sono vani.
21
Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro:
22 Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte,
il presente, il futuro: tutto è vostro!
23 Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
Paolo ha posto il
fondamento, come un saggio architetto, cioè con ogni cura. E il fondamento è
Cristo. Poi altri costruiscono sopra il fondamento posto e ciò deve essere in
conformità al fondamento, cioè con insegnamenti che illuminino e approfondiscano
la Parola: “oro, argento, pietre preziose”.
Chi edifica sul fondamento con “legno, fieno, paglia”, cioè con materiale scadente, posticcio, avrà
come conseguenza che nel giorno stabilito dal Signore, cioè nel giorno della
prova, dello scatenarsi delle persecuzioni, simboleggiate dal “fuoco”,
ben si vedrà l'opera errata, che si incendierà, mentre resterà in piedi l'opera
edificata con “oro,
argento, pietre preziose”.
Chi avrà edificato
male sul fondamento sarà avvolto dalle fiamme. Si salverà il cattivo
costruttore, ma “quasi
passando attraverso il fuoco”. Questo passo è stato usato, e lo è ancora,
come presentazione della purificazione del purgatorio. Il senso immediato è però
che chi costruisce con materiale vile vedrà incendiarsi tutto, e lui non sarà
spettatore esterno, ma sarà coinvolto nell'incendio. Si salverà solo passando
attraverso il fuoco, e ne uscirà, se ne uscirà, attraverso il dolore, l'umiltà
e l'espiazione.
Paolo dopo aver
messo in guardia i Corinzi dai vani predicatori, passa a riferirsi a chi si
crede sapiente “in
questo mondo”, cioè capace di sapersi destreggiare nelle varie situazione della
vita, sfruttando le debolezze degli uomini, esortando a farsi “stolto
per diventare sapiente”.
Porre il proprio
vanto tra gli uomini, e i Corinzi lo facevano dividendosi in fazioni è
stoltezza, “perché
la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio”.
Del resto “tutto
è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il
futuro: tutto è vostro!”.
“Ma
voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”, e questa è la condizione che fa sì che “tutto
è vostro”.
La drammatica vita degli apostoli
4
1
Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio.
2 Ora, ciò che
si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele.
3 A me però importa assai poco di venire giudicato
da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso,
4
perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono
giustificato. Il mio giudice è il Signore!
5
Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore
verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni
dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.
6
Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per
vostro profitto, perché impariate dalle nostre persone a stare a ciò che è
scritto, e non vi gonfiate d’orgoglio favorendo uno a scapito di un altro.
7 Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa
possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti
come se non l’avessi ricevuto?
8
Voi siete già sazi,
siete già diventati ricchi; senza di noi, siete già diventati re. Magari foste
diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi.
9
Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come
condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli
uomini. 10
Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi
onorati, noi disprezzati.
11
Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi,
andiamo vagando di luogo in luogo,
12
ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo;
perseguitati, sopportiamo;
13 calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del
mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.
“A
me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano”.
Paolo è indifferente alle valutazioni delle fazioni, se ne parla contro non è
perché sia disturbato dai giudizi degli uomini. Anzi, l'apostolo non giudica
neppure se stesso “perché, anche se non sono consapevole di alcuna
colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!”.
Paolo non è consapevole di alcuna colpa, ma la giustificazione non può
assolutamente darsela da solo, poiché viene da Dio, che scruta i cuori e valuta
le azioni. Paolo tuttavia non è turbato dal dubbio circa il suo essere in
grazia, poiché ha la certezza morale di essere un giustificato per la
fede in Cristo “che
si rende operosa con la carità”
(Gal 5,6).
Se la giustificazione venisse dal giudizio di Dio secondo il giudizio dell'uomo, dall'uomo verrebbe anche la sentenza del premio, nel senso che Dio sarebbe costretto a darlo; ma Dio non può essere costretto in nulla. Dio è il Giudice che può sentenziare il premio, o la condanna (2Tm 4,8).
È verità definita che l’uomo meriti (Denzinger: 1582, can. 32; Concilio di Trento); tuttavia (Denzinger: 1548, Cap. 16; Concilio di Trento): “mai un cristiano deve confidare o gloriarsi in se stesso e non nel Signore (Cf. 1Cor 1,31; 2Cor 10,17)”.
Paolo da fariseo si vantava in se stesso delle sue opere buone, ora non lo fa più poiché il suo Giudice è il Signore e non lui,
anche se non è consapevole di alcuna colpa. Il Giudice è il Signore ed è lui che valuta i meriti conseguiti con la
corrispondenza ai doni, e dona il premio eterno che è lui stesso,
visto come egli è (1Cor 13,12; 1Gv 3,2). Ora, Dio (Denzinger: 1548, cap. 16; Concilio di Trento) “è talmente buono verso tutti gli uomini, da volere che diventino loro meriti quelli che sono suoi doni”.
L’uomo ingigantisce, gonfia, i suoi meriti, se ne gloria dandosi lui stesso il premio, che è un misero e illusorio sentirsi forte, potente, in alto, obbligante Dio. Per questo i santi non hanno
sostato col pensiero sui loro meriti; non hanno fatto la contabilità dei loro meriti, e non hanno voluto immaginarne il valore , che pur esiste, ma li hanno rimessi in tutto al Signore, affermando che lui è il Giudice e non loro.
“Siete
già diventati re”.
I Corinzi, divisi in fazioni di preferenza, si sentivano sazi e ricchi di quello
che avevano ricevuto, senza pensare che tanto avevano ancora bisogno di
ricevere. A Corinto poi si erano formate delle strutture di comando, che si erano spartite i più piccoli spazi di potere, come l'ordine delle
assemblee, le opere caritative, la catechesi, ma tutto ciò con fare di re. Paolo
è sferzante: “Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi”.
Se fossero diventati dei potenti, dei re di popoli, allora gli apostoli
avrebbero potuto regnare con loro, cioè esercitare, senza le dure condizioni di
vita che Paolo ha presentato, il loro specifico potere spirituale.
“Fino
a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi”.
La realtà della vita di Paolo e dei suoi collaboratori stride completamente con
la ricerca di potere, di onori e di vanti, promossa dal cattivo esempio di “quelli
che sono gonfi di orgoglio”.
14
Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli
miei carissimi.
15
Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti
padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo. 16 Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!
17
Per questo vi ho mandato Timoteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel
Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come
insegno dappertutto in ogni Chiesa.
18
Come se io non dovessi venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’orgoglio.
19
Ma da voi verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle
parole di quelli che sono gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare.
20
Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza.
21
Che cosa volete? Debbo venire da voi con il
bastone, o con amore e con dolcezza d’animo?
Paolo non ha
presentato la drammaticità della sua vita per far vergognare i Corinzi, non è
stato sarcastico con loro, anche se forte, ma ha voluto ammonirli come figli,
affinché considerino la sua vita. Lui li ha generati in Cristo Gesù mediante il
Vangelo, e altri padri non li potranno avere: “Potreste
infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri:
sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo”.
I figli devono guardare ai loro padri, devono seguirli, imitarli: “Vi
prego, dunque: diventate miei imitatori!”.
I “gonfi
di orgoglio”,
quelli che si atteggiavano a re, si illudevano che Paolo non si sarebbe
avventurato in una nuova visita a Corinto, visto che aveva inviato il giovane
Timoteo, ma si sbagliano perché una tale visita è nei programmi dell'apostolo,
che non ha difficoltà ad essere pronto a tutto: “Che cosa volete? Debbo venire da voi con il
bastone, o con amore e con dolcezza d’animo?”.
Il caso
dell'incestuoso
5
1
Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che
non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di
suo padre.
Il caso di incesto
che i Corinti tolleravano, non sapendo prendere una posizione di chiaro rigetto,
era quella di un figlio che conviveva con una moglie di suo padre. Cercando di
delineare il caso, non chiaro in tutti i suoi aspetti, si devono stabilire dei
punti precisi. Difficile pensare che il padre fosse ancora vivo, avrebbe reagito
con estrema durezza visto che un tale crimine era condannato chiaramente dalla
Legge (Lv 18,8; 20,11; Dt 27,20) e per esso si prevedeva la morte del figlio e
della moglie del padre. Il caso avviene in regime di poligamia e quindi in
ambito ebraico, poiché presso i greci e i romani non c'era la poligamia,
esisteva però la pratica di avere delle concubine.
Diversi rabbini
dell'epoca (H. L. Strack - P. Billerbeck, “Kommentar zum Neuen Testament”,
6 vol. Munich 1922-61) avevano teorizzato che alla morte di un uomo pagano, il
figlio, che da pagano diventava parte del popolo ebreo per mezzo della
circoncisione, poteva sposare la matrigna rimasta vedova, poiché la nuova
appartenenza al popolo ebraico per mezzo della circoncisione faceva cadere il
rapporto filiale che aveva con la matrigna. Ma tale soluzione, che voleva essere
un'esaltazione del potere della circoncisione, non reggeva poiché andava contro
la Legge la quale precisava che la moglie del padre è carne del padre in
virtù dell'unione sessuale, e il concetto di una sola carne non poteva essere
rimosso in alcun modo.
Tali
interpretazioni rabbiniche erano alla base della tolleranza verso l'incesto di
Corinto. Alla morte del padre ebreo, il figlio, diventato cristiano, aveva preso
a convivere con la matrigna ebrea, con la probabile motivazione che il
Battesimo aveva annullato il precedente rapporto filiale con la matrigna. Il
peccato era così limitato, per i Corinzi, a un caso di concubinato, mentre era
un ributtante incesto.
Tale incesto faceva
ribrezzo anche ai pagani e il diritto romano lo proibiva (Gaio, “Instituziones”
I,63). Cicerone pure condanna apertamente un tale incesto (“Pro Cluentio”
V,6). Presso i greci la condanna era altrettanto energica (Andocide, “Discorso
sui misteri”, 128, anno 399 a.C).
2
E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga
escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!
Di fronte a un tale
scandalo avrebbero dovuto provvedere immediatamente, invece sostavano nel
gonfiarsi di orgoglio militando in partiti di preferenza per un apostolo o un
altro inventati di sana pianta, per una
spartizione del potere dentro la comunità.
3
Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato,
come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione.
4 Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il
mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù,
5
questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo
spirito possa essere salvato nel giorno del Signore.
Che i Corinzi non
avessero aderito allo scandalo dell'incestuoso, ma soltanto tergiversato,
tollerato, lo dimostra la circostanza che Paolo può chiamare attorno a sé “presente
con lo spirito”
tutta la comunità: “essendo
radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù”.
Paolo fa ricorso
alla sua autorità apostolica, fondata “sulla potenza del Signore”
lanciando la scomunica contro l'incestuoso. La scomunica non viene lanciata
verso la donna perché ovviamente non cristiana.
La scomunica ha
come effetto di separare l'incestuoso dalla comunione dei santi, con la
conseguente consegna a Satana. Però, non è consegnato a Satana quanto allo
spirito, sia perché già Satana lo ha legato a sé, sia perché esponendolo, quanto
al corpo, a dolori, sventure, poiché privo degli aiuti spirituali che vengono
dalla comunione coi santi, possa ritornare sui suoi passi e pentirsi, ritornando
così nella comunione ecclesiale. La scomunica ha quindi un valore medicinale: “Affinché
lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore”.
6
Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare
tutta la pasta?
7 Togliete via
il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti
Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
8
Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia
e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.
9
Vi ho scritto nella
lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità.
10
Non mi riferivo però
agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti
dovreste uscire dal mondo!
11 Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è
immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali
non dovete neanche mangiare insieme.
12 Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli
di dentro che voi giudicate?
13 Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo
a voi!
“Non
è bello che voi vi vantiate”.
Paolo rimarca come il vantarsi dei Corinzi nei partiti di preferenza sia
veramente fuori luogo, poiché ha trascurato di considerare un principio
elementare, che cioè “un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta”.
Nella prima lettera, andata perduta, Paolo aveva raccomandato ai Corinzi di non
mescolarsi “con chi vive nell’immoralità”,
non riferendosi a quelli del mondo poiché i Corinzi dovrebbero uscire dal mondo,
ma ai fratelli che sono immorali, o avari, o idolatri, ecc. Con questi tali la
separazione deve essere tanto netta che “con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”.
Gli immorali di questo mondo non sono sotto la giurisdizione della comunità e
dell'autorità apostolica di Paolo: saranno giudicati dal tribunale di Dio. La
giurisdizione della comunità si esercita sui colpevoli accogliendo le sentenze
dell'autorità apostolica.
Le contese affidate ai tribunali pagani
6
1
Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli
ingiusti anziché dei santi?
2
Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il
mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza?
3 Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di
questa vita!
4
Se dunque siete in lite per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente
che non ha autorità nella Chiesa?
5
Lo dico per vostra vergogna! Sicché non vi sarebbe nessuna persona saggia tra
voi, che possa fare da arbitro tra fratello e fratello?
6 Anzi, un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello, e
per di più davanti a non credenti!
7
È già per voi una sconfitta avere liti tra voi! Perché non
subire piuttosto ingiustizie? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che
vi appartiene?
8
Siete voi invece che commettete ingiustizie e rubate, e questo con i fratelli!
9
Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né
immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti,
10
né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il
regno di Dio.
11 E tali
eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete
stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro
Dio.
Dopo aver esercitato il
potere di scomunica, avendo radunato attorno a sé, presente in spirito, la
comunità, Paolo passa ai contenziosi che erano presenti tra i Corinzi. In questi
contenzioni Paolo non esercita la sua autorità apostolica, ma chiede che nella
comunità le vertenze vengano risolte da qualche “persona saggia” evitando di
portare le contese davanti ai tribunali pagani generando scandalo.
Le contese devono essere
risolte nella comunità sulla base dell'istituzione di un tribunale
interno.
Le questioni erano
liti relative alle animosità delle fazioni, oppure riguardavano casi di furto di
oggetti, indumenti, denari. Azioni che erano
una vera sconfitta per dei credenti in Cristo.
Paolo con ciò non pensa a
tribunali alternativi a quelli di Roma: a Cesare va sempre lasciato ciò che è di
Cesare (Mt 22,21; Rm 13,1; 1Pt 2,13s). Paolo dice “degli
ingiusti”, circa i tribunali pagani, non nel senso negativo di
disonesti, ma che i giudici, essendo dei pagani, non hanno la giustificazione
portata da Cristo, e quindi una sensibilità per la
giustizia dovuta al loro non essere in Cristo. Ed è qui che
si comprende come l'autorità spirituale della Chiesa non vuole minimamente
togliere a Cesare il potere di far leggi e il potere di avere dei tribunali per
farle rispettare, ma vuole, per missione ricevuta da Cristo, che nelle leggi di
Cesare ci sia un rispetto sempre più oculato e alto dei diritti dell'uomo.
Infatti, se i cristiani danno a Cesare ciò che è di Cesare, Cesare non è
autonomo da Dio, ma deve dare a Dio ciò che è di Dio. Così la Chiesa non ha
nessunissima ingerenza nella gestione di uno Stato, ma non le si può togliere il
dovere di segnalare e denunciare le ingiustizie che vanno contro i diritti
dell'uomo, che non possono essere intesi in modo arbitrario, tale da scalzare la
legge d'amore di Dio.
I Corinzi pensavano che
l'autorità dei tribunali pagani fosse una garanzia per le loro questioni
interne, ma Paolo dice che i cristiani di autorità ne hanno tantissima quanto al
giudicare le vertenze interne, visto che un giorno, nel giudizio universale,
giudicheranno il mondo e anche gli angeli (Cf. Mt 19,28). Il giudizio sugli
angeli sarà quello sugli angeli cattivi, i quali saranno condannati dall'inno di
gloria a Cristo dei beati, che hanno sconfitto i demoni (Ap 12,11) con la forza
di Cristo,e che verranno sigillati per sempre nell'abisso (Ap 20,10). Nel
giudizio universale i giusti condanneranno gli empi, mostrando
come avrebbero ben potuto eseguire le opere della
salvezza e non l'hanno fatto (Mt 12,41-42).
Fuggire la
fornicazione
12
“Tutto mi è lecito!”. Sì, ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito!”. Sì, ma non
mi lascerò dominare da nulla.
13
“I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!”. Dio però distruggerà questo
e quelli. Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per
il corpo. 14
Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.
15
Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne
farò membra di una prostituta? Non sia mai!
16
Non sapete che chi si unisce alla prostituta forma
con essa un corpo solo? I due - è detto - diventeranno una sola carne.
17
Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito.
18
State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo
corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo.
19
Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo
avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi.
20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque
Dio nel vostro corpo!
“Tutto
mi è lecito”,
è certamente un’espressione che nel suo significato giusto riguardava i cibi, ma
che veniva usata in un generalizzazione tale da giustificare la posizione di
coloro che frequentavano le prostitute. A questa affermazione, ripetuta due
volte come segno di una posizione dalla quale non si vuole retrocedere, Paolo
risponde che “non
tutto giova”
e “non mi
lascerò dominare da nulla”,
cioè il “tutto
mi è lecito” ha dei limiti chiari. Gli ostinati evidenziano che c’è un
collegamento tra cibo e ventre, così l'appetito corrisponde ad una relazione
naturale. Ora, similmente, c'è una relazione tra soddisfazione sessuale (cibo) e
ventre (sesso) e quindi si ha la liceità, anche se si tratta di una prostituta.
Paolo a questo punto afferma la riprovazione di Dio, che distruggerà sia il cibo
che il ventre. Parole queste che vogliono dire che Dio interverrà con forti
correzioni (11,30).
La verità è invece
questa che “il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per
il corpo”.
E' questa appartenenza del corpo al Signore che farà si che Dio risusciterà
nella gloria quelli che non si sono contaminati col peccato.
La similitudine col
mangiare è poi del tutto zoppicante, poiché se è certamente vero che chi mangia
non si contamina con nessun cibo (Mc 7,15), e anche vero che chi si unisce a
prostituta forma con lei una sola carne (Gn 2,24) e quindi si contamina.
Questa
contaminazione distrugge l'unione col Signore, il quale è lo Sposo della Chiesa,
sua Sposa (Ef 5,31-32). L'unione con Cristo porta ad essere con lui “un
solo spirito”,
cioè
realizza una fusione spirituale.
Matrimonio e
verginità
7
1
Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna,
2
ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni
donna il proprio marito.
3
Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al
marito. 4
La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo
anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie.
5 Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune
accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme,
perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza.
6
Questo lo dico per
condiscendenza, non per comando.
7 Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il
proprio dono, chi in un modo, chi in un altro.
8
Ai non sposati e alle
vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io;
9
ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare.
I Corinzi avevano
scritto che molti volevano seguire lo stato celibatario, ma poi accadevano dei “casi
di immoralità”, facili in una città come Corinto; per cui Paolo raccomanda che “ciascuno
abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito”.
Affinché poi non si
pensi che uno dei coniugi possa vivere in castità senza che l'altro lo condivida
facendo uguale scelta afferma che “la
moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo
anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie”.
Nei casi in cui i
due coniugi volessero vivere in continenza lo facciano di comune accordo, ma
temporaneamente, e allo scopo di dedicarsi alla preghiera. Poi tornino a vivere
insieme, per non cadere nell'incontinenza, gestita da Satana per creare
infedeltà, ipocrisia tra i coniugi, e liti, nonché pessimo esempio ai figli.
Paolo guarda alla decisione dei coniugi di vivere in castità, ad un certo punto
del loro cammino, per cui quanto ha detto circa l'astensione solo temporanea non
l'ha detto “per comando”, ma “per condiscendenza”.
Paolo conclude
dicendo che lo stato celibatario è “cosa buona”, ma se non ci si sa dominare “è
meglio sposarsi che bruciare”.
Indissolubilità
del matrimonio
10
Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito -
11
e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il
marito non ripudi la moglie.
12
Agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha la moglie non credente e
questa acconsente a rimanere con lui, non la ripudi;
13 e una donna che abbia il marito non credente, se questi
acconsente a rimanere con lei, non lo ripudi.
14 Il marito non credente, infatti, viene reso santo
dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito
credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, ora invece sono santi.
15
Ma se il non credente vuole separarsi, si separi; in queste circostanze il
fratello o la sorella non sono soggetti a schiavitù: Dio vi ha chiamati a stare
in pace! 16
E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai
la moglie?
17
Fuori di questi casi, ciascuno - come il Signore gli ha assegnato - continui a
vivere come era quando Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese.
Il matrimonio è
indissolubile e il Signore vuole che rimanga sempre tale anche in difficoltà
estreme: “Agli
sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito”
(Mt 5,32; 19,6-9; Mc 10,9-12; Lc 16,18). Esiste però la concessione che i due si
possano separare (l'odierna separazione legale) per gravi
situazioni insostenibili, ma non si potrà passare a convivere con altra persona.
E' abolito il diritto introdotto da Mosè che un marito ripudi la moglie (Mt
19,7).
Il caso di due
coniugi pagani di cui uno si sia convertito al cristianesimo viene risolto da
Paolo (“dico
io, non il Signore”).
Le situazioni sono due: o il coniuge pagano acconsente di coabitare col coniuge
divenuto cristiano rispettando la sua adesione a Cristo e la sua appartenenza
alla Chiesa, oppure non vuole coabitare rispettando la fede del congiunto. Nel
primo caso vale il principio di indissolubilità che, oltre che essere un
principio cristiano, è anche un principio naturale. I due formano una carne
sola, da ciò ne segue che
c'è un
influsso positivo del coniuge credente verso quello non credente, ma rispettoso
della fede cristiana.
“Altrimenti
i vostri figli sarebbero impuri, ora invece sono santi”. La spiegazione è che i figli di una coppia di
cui un coniuge si è convertito essendo l'altro ancora pagano, ma rispettoso
della fede cristiana, vengono educati cristianamente in attesa di ricevere il
battesimo, e questo proprio in virtù del rispetto del coniuge non credente il
quale in tal modo manifesta già qualche grado di conversione: “il
marito non credente, infatti, viene reso santo dalla moglie credente e la moglie
non credente viene resa santa dal marito credente”.
Nel secondo caso si
ha che se il coniuge pagano non vuole vivere pacificamente con il coniuge
convertito, ma lo ostacola nel suo essere cristiano, il coniuge convertitosi al
cristianesimo diventa libero e può passare ad altre nozze, ma solo con un
cristiano. E' il privilegio Paolino, che obbedisce al principio della difesa
della fede.
Ciò che conta è
l'osservanza dei comandamenti di Dio
18
Qualcuno è stato
chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era
circonciso? Non si faccia circoncidere!
19 La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non
conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio.
20
Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato.
21 Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se
puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!
22
Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio
del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di
Cristo. 23
Siete stati
comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini!
24 Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in
quella condizione in cui era quando è stato chiamato.
“Qualcuno
è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda!”. Sotto la pressione dell'ellenizzazione (1Mac
1,16) molti giudei si sottoposero ad un intervento (epispasmo) per togliere le
tracce della circoncisione. Ma in seguito non ci fu una pressione persecutoria
in tal senso, e perciò Paolo pensava semplicemente che un cristiano venuto dal
giudaismo non dovesse nascondere di essere un circonciso se interpellato, non
cedendo a considerare la cosa come un segno di inferiorità culturale rispetto ai
cristiani provenienti dal paganesimo e quindi dalla civiltà ellenica.
Per viceversa, chi
veniva dal paganesimo “non si faccia circoncidere”, pensando di acquistare un valore in
più.
Se uno era stato
chiamato a Cristo in stato di schiavo non doveva sentire come un peso la sua
bassa condizione, preoccupandosi di diventare libero di fronte alla possibilità
di diventare tale. ”Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero”.
Chiaro che diventare un liberto non era una cosa di poco conto, occorrevano
denari. Se uno riusciva poi a farsi strada poteva arrivare al tempo di Paolo ad
essere un cittadino romano, ma doveva versare denari destinati ad armare navi
destinate al commercio. Il liberto, affrancato dal dominus che diventava
patronus poteva svolgere attività economiche autonome, ma sempre aveva
delle corvèes da compiere per il patronus, continuando
generalmente ad abitare nella sua casa.
Poteva sposarsi con
riconoscimento dei diritti civili, cosa che lo schiavo non poteva fare essendo
il suo matrimonio considerato civilmente un contubernium (concubinato),
ma questo non creava nessun problema al matrimonio sacramento.
La stato di liberto
o di cittadino romano era certamente un fatto sociale importante, ma Paolo vuole
che si prenda coscienza di un'altra realtà: quella della libertà portata da
Cristo: “Perché
lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del
Signore!”.
E l'uomo che è stato chiamato da libero deve considerare che “è schiavo di Cristo”.
Non considerare la libertà portata da Cristo, che ci ha liberati a “caro
prezzo”,
significa diventare schiavi degli uomini, cioè godere di libertà che non sono
libertà. Paolo non spende una parola a favore della schiavitù, poiché essa non è
certo conforme ai diritti dell'uomo, vuole solo far considerare che il cristiano
possiede una libertà nuova, che lo rende affrancato dal peccato. Questa libertà,
come lievito, cambierà dall'interno i rapporti interpersonali tra il padrone e
lo schiavo (Fm 16).
Eccellenza del
celibato
25
Riguardo alle vergini, non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio,
come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia.
26
Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle
presenti difficoltà, rimanere così com’è.
27
Ti trovi legato a una donna? Non cercare di
scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla.
28
Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato.
Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei
risparmiarvele.
29
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che
hanno moglie, vivano come se non l’avessero;
30
quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non
gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero;
31
quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa
infatti la figura di questo mondo!
32
Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle
cose del Signore, come possa piacere al Signore;
33
chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa
piacere alla moglie,
34
e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa
delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna
sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
35
Questo lo dico per il
vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e
restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
“Avranno
tribolazioni nella loro vita”,
cioè nell'ambito delle relazioni di vita coniugale. Ma anche un celibe come
Paolo non faceva certo vita priva di tribolazioni, e nella lettera Paolo
presenta tale situazione senza mezzi termini (4,9).
Per quanto riguarda
le sofferenze per l'educazione dei figli, Paolo aveva tanti figli e soffriva per
essi. Quanto al lavoro, anche Paolo lavorava. Quanto alle responsabilità
pubbliche, Paolo ne aveva tantissime.
Dunque, c'è uno
specifico di tribolazioni per i coniugati, ma ciò non perché il matrimonio
l'abbia di per sé (Cf. Ps 127/128), ma per il contatto pressoché continuo col
mondo pagano.
Il fatto che la
donna sposata debba adoperarsi per piacere al marito e così si trovi divisa e
così per l'uomo non è una realtà fonte di dolore, ma rivela l'eccellenza dello
stato verginale; tuttavia questo cercare di piacere al partner diventava a
Corinto causa di tribolazione secondo la carne, come possibili gelosie di fronte
alle tante cortigiane e matrone, e anche alle centinaia di prostitute sacre, che
esercitavano sugli uomini la loro procacità, e per viceversa, le possibili
gelosie dell'uomo nei confronti della moglie, che poteva essere attirata dai
tanti eroi ginnici, e bellimbusti. Tutto ciò faceva parte “delle
presenti difficoltà”,
che potevano causare tribolazioni nel matrimonio.
Il caso dei
fidanzati
36
Se però qualcuno ritiene di non comportarsi in modo conveniente verso la sua
vergine, qualora essa abbia passato il fiore dell’età - e conviene che accada
così - faccia ciò che vuole: non pecca; si sposino pure!
37
Chi invece è fermamente deciso in cuor suo - pur non avendo nessuna
necessità, ma essendo arbitro della propria volontà - chi, dunque, ha deliberato
in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene.
38
In conclusione, colui che dà in sposa la sua vergine fa bene, e chi non la dà in
sposa fa meglio. Così chi sposa la sua vergine fa bene; chi non la sposa fa
meglio.
Gli attori di
questi due casi sono indubbiamente due giovani fidanzati; due promessi sposi.
Poiché Paolo
raccomandava lo stato verginale e i Corinzi avevano considerato il caso di un
fidanzato che voleva rimanere vergine, ma la sua fidanzata, avendo ormai
oltrepassato l'età maritale, richiedeva, insieme ai suoi familiari, che si
giungesse alle nozze, essendo sconveniente se ciò non fosse avvenuto. Paolo
risolve il caso dicendo che il giovane non commette peccato se si sposa, poiché
sul suo proposito di verginità prevale l’impegno vincolante contratto con il
fidanzamento: “Si sposino pure!”. Il caso in esame non presenta la soluzione che i due si
sposino per salvare le apparenze e poi vivano verginalmente, perché occorrerebbe
una precisa e decisa volontà di entrambi i fidanzati, che il caso non presenta.
Un giovane, invece,
che ha una vera determinazione di abbracciare lo stato celibatario, e non ha
delle difficoltà derivanti dall'età maritale della fidanzata, fa bene a non
sposarsi: “conservare
la sua vergine”. “Conservare”, è un verbo che dice un senso di un'appartenenza, e corrisponde
al vincolo del fidanzamento, che allora era un fatto rilevante. La giovane
rimarrà ad abitare nella casa del padre, e quindi non “accasata”, ma il padre
verrà in parte sollevato dall'onere del sostentamento della figlia dal
contributo dell'ex fidanzato, fin tanto che non vi sarà un nuovo pretendente.
La traduzione: “In
conclusione, colui che dà in sposa la sua vergine fa bene, e chi non la dà in
sposa fa meglio”
è forzata dall'interpretazione che il centro dei due casi sia il padre, poiché
un padre non può decidere che una figlia abbracci lo stato verginale. La
traduzione coerente è questa: “Così chi sposa la sua vergine fa bene; chi non la sposa fa meglio”.
Le vedove
39
La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito
muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore.
40
Ma se rimane così com’è, a mio parere è meglio;
credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio.
Le carni immolate agli idoli e la regola della carità
8
1
Riguardo alle carni
sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza
riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica.
2 Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha
ancora imparato come bisogna conoscere. 3 Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto.
4
Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che
non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo.
5
In realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo che sulla terra - e
difatti ci sono molti dei e molti signori -,
|
6
per noi c’è un solo Dio,
il Padre,
dal quale tutto proviene e noi siamo per lui;
e un solo Signore, Gesù Cristo,
in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui. |
7
Ma non tutti hanno la
conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se
fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta
contaminata. 8
Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo
a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio.
9 Badate però
che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli.
10
Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di
idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le
carni sacrificate agli idoli?
11
Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale
Cristo è morto!
12
Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate
contro Cristo.
13 Per questo,
se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare
scandalo al mio fratello.
Il Concilio di
Gerusalemme (At 15,5s) aveva prescritto che non si consumassero le carni
immolate agli idoli, ci si astenesse dagli animali soffocati e dal sangue. Norme
che venivano dopo che Paolo aveva già fondato delle comunità etnico-cristiane
(At 13,48) senza che ci fossero tali disposizioni, tra queste c'erano quelle
della Galazia. La lettera ai Galati presuppone che il Concilio di Gerusalemme
sia un fatto successivo alla loro evangelizzazione.
L'osservanza delle
disposizioni del Concilio, introdotte per la concordia tra i giudeo-cristiani e
gli etnico-cristiani, presentava però dei problemi, in terra pagana, circa le
carni immolate agli idoli, poiché esse erano vendute nei mercati insieme a
quelle delle macellazioni non rituali e non se ne poteva avere il tracciato di
provenienza. Riguardo all'astenersi dal sangue (sangue cotto o da cuocere) non
era un problema, essendo immediatamente identificabile nei mercati. Per evitare
di mangiare gli animali soffocati, cioè uccisi con una macellazione che aveva
tagliato loro la trachea e quindi erano morti soffocati dal loro stesso sangue,
che in parte rimaneva nell'animale, si dovevano fare macellazioni su propri
animali, che i poveri e gli schiavi non potevano avere. La macellazione giudaica
evitava questa situazione di soffocamento, non toccando nel taglio la trachea
dell'animale (E. P: Sanders, “Il giudaismo. Fede e prassi”, Morcelliana
1999, pag. 146).
Paolo affronta solo
il problema degli animali sacrificati agli idoli, perché portava in sé l'idea
della contaminazione con gli idoli, che il Concilio confermava con la sua
proibizione.
Paolo di necessità
deve affrontare il problema da una visuale più ampia di quella del Concilio,
così afferma che le carni immolate agli idoli di per sé sono esattamente uguali
alle altre. Detto questo, esamina i fatti concreti alla luce della carità,
affinché non sia offesa una coscienza debole che crede che le carni immolate
agli idoli siano contaminanti. La non possibilità di identificazione della
provenienza delle carni viene risolta togliendo ogni peso di coscienza negli
acquisti al mercato, e anche nella partecipazione su invito a banchetti privati,
a meno che venga detto esplicitamente che è carne che viene dai sacrifici agli
idoli.
Circa il sangue
Paolo indubbiamente era allineato con le disposizioni del Concilio.
Il significato del
non consumare la carne col sangue deriva dal fatto che Dio ha concesso il potere
agli uomini sugli animali per averne cibo (Gn 9,4), ma essi devono riconoscere,
non mangiando il sangue, inteso come l'elemento vitale dell'animale, che la vita
appartiene sempre a Dio.
Ovviamente, ad
esempio, il leone mangia la carne con il sangue, e con ciò segue una
disposizione della sua natura. Il serpente soffoca con le sue spire la preda e
poi la inghiottisce, e in questo rispetta l'ordine disposto del Creatore.
Per l'uomo del
Vecchio Testamento la legge sul sangue aveva un valore morale, affinché egli non
si sentisse il padrone della vita, e soprattutto il despota della vita dell'uomo
(Gn 9,5-6). Per l'uomo rinnovato in Cristo tale legge è ampiamente superata
dalla legge della carità, infatti pieno compimento della legge è la carità
(Rm 13,10).
La legge
dell'astensione dalle carni con il sangue venne richiamata da alcuni autori
(Clemente Alessandrino e Tertulliano) fin verso il 250 d.C.
Sant'Agostino
(354-430) la presenta, in “Contro Fausto manicheo” XXXII,13, come una
realtà già scontata, sostenendo che tale disposizione aveva come causa
l'accondiscendenza verso i giudeo-cristiani, che, per più che millenaria
tradizione, l'avevano come mentalità.
L'esempio
apostolico di Paolo
9
1
Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù,
Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2 Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi
siete nel Signore il sigillo del mio apostolato.
3
La mia difesa contro quelli che mi accusano è
questa: 4
non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere?
5
Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come
fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?
6
Oppure soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?
7
E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza
mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del
gregge? 8
Io non dico
questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così.
9 Nella legge di Mosè infatti sta scritto: Non
metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si prende cura dei buoi?
10
Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui
che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella
speranza di avere la sua parte.
11
Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se
raccoglieremo beni materiali?
12
Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non
abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere
ostacoli al vangelo di Cristo.
13
Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e
quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte?
14
Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano
del Vangelo.
15
Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo
perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi
toglierà questo vanto!
16
Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che
mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
17 Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se
non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato.
18
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo
senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
“Non
sono forse libero, io?”.
Nulla aveva preso dai Corinzi per il suo sostentamento, lavorando da tessitore
in casa di Aquila e Priscilla (At 18,3; Fil 4,15); era dunque libero da ogni
onere verso di loro e soprattutto dal sospetto che agisse per utili terreni.
“Non
sono forse un apostolo?”,
e quindi dotato di autorità apostolica perché scelto e inviato dal Signore (At
9,15; 13,1; 22,14; 26,15), e convalidato nel suo apostolato ai pagani da Pietro,
Giacomo e Giovanni (Gal 2,9).
“Non
ho veduto Gesù, Signore nostro?” (15,8), e quindi testimone della risurrezione e di conseguenza
equiparabile agli altri apostoli, dai quali tuttavia dipende perché essi sono
all'origine dell'annuncio e dell'azione sacramentale che ha raggiunto Paolo.
Specie dipende da Pietro, in virtù del suo primato.
“E
non siete voi la mia opera nel Signore?”, cioè il risultato evidente dell'autenticità del mio operare per
il Vangelo.
“Anche
se non sono apostolo per altri”.
Paolo aveva dei detrattori che in mala fede dicevano che non era un apostolo, e
agiva per scopi di denaro: “Voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato.
La mia difesa
contro quelli che mi accusano è questa: non abbiamo forse il diritto di
mangiare...”.
Paolo poteva avvalersi del diritto al sostentamento da parte dei Corinzi e di
questo diritto ne spiega le ragioni. Avrebbe potuto avvalersi anche del diritto
di portare con sé quale domestica “una donna credente”, come “gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa”.
“Io
invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché
si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire”.
Il totale rifiuto
di esercitare i diritti che pur aveva, Paolo lo motiva con la sua dedizione
all'annuncio del Vangelo, dal quale trae la sua ricompensa, che è quella di
ottemperare ad un incarico che gli è stato dato dal Signore: “Qual
è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza
usare il diritto conferitomi dal Vangelo”.
19
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti:
20 mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per
guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge - pur non essendo io
sotto la Legge - mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di
guadagnare coloro che sono sotto la Legge.
21 Per coloro che non hanno Legge - pur non essendo io senza la
legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo - mi sono fatto come uno che è
senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge.
22
Mi sono fatto debole
per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per
salvare a ogni costo qualcuno.
23
Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
24
Non sapete che, nelle
corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche
voi in modo da conquistarlo!
25 Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per
ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre.
26
Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio pugilato, ma non come chi
batte l’aria;
27 anzi tratto
duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo
avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.
Libero da tutti,
cioè non legato a dei ritorni di favore, Paolo si è però “fatto
servo di tutti per guadagnarne il maggior numero...”. La ragione di tutto ciò è quella di servire
Cristo. La parola del Vangelo che Paolo annuncia è la Parola alla quale
obbedisce nella fede, nella carità e nella speranza, per essere salvo. Egli non
è al riparo dal cadere, e per questo vigila e “anzi
tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che,
dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato”.
Il valore
tipologico del cammino dell'esodo
10
1
Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti
sotto la nube, tutti attraversarono il mare,
2
tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare,
3
tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale,
4
tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia
spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.
5
Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel
deserto.
6
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come
essi le desiderarono.
7
Non diventate
idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a
mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi.
8
Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un
solo giorno ne caddero ventitremila.
9
Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e
caddero vittime dei serpenti.
10 Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime
dello sterminatore.
11
Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per
nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.
12
Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
13
Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi
ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati
oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di
uscirne per poterla sostenere.
I pagani per mezzo
della fede in Cristo sono stati innestati nell'olivo buono (Rm 11,17), e quindi
sono stati resi partecipi della storia di Israele, che diventa anche per la loro
adesione a Cristo la loro storia, perché Cristo è il senso dell'esistenza di
Israele. Dunque Paolo può dire ai Corinzi, in massima parte provenienti dal
paganesimo. “I nostri padri furono tutti sotto la nube...”.
L'esodo dall'Egitto
trova il suo compimento di liberazione, nella liberazione dal peccato attuata da
Cristo, e già nell'Esodo operava Cristo: “quella
roccia era il Cristo”.
“Tutti
furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare”, il passaggio del mar Rosso era teso verso un
altro passaggio, quello nell'acqua battesimale. Il passaggio del mar
Rosso era una prefigurazione del Battesimo, che avviene in rapporto a Cristo,
cioè per appartenere a Cristo. Il passaggio del mar Rosso avvenne “in
rapporto a Mosè”,
che fu il condottiero del Signore nella liberazione dall'Egitto. La “nube
e il mare”
furono gli elementi con i quali Dio liberò Israele dal faraone presente con la
potenza del suo esercito. La nube tenne lontano l'esercito del faraone il mare
lo travolse.
“Tutti
mangiarono lo stesso cibo spirituale”. La manna è a sua volta una prefigurazione dell'Eucaristia, il
pane vivo necessario per il sostentamento del popolo di Dio lungo il cammino
segnato da Cristo per giungere alla patria eterna nel cielo.
“Bevevano
infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il
Cristo”.
Si allude alla roccia da cui scaturì l'acqua nel deserto (Es 17,6; Dt 8,15).
Quella roccia è presa come segno di Cristo fondamento di Israele, per cui è “roccia
spirituale”
(Cf. Dt 32,4.15s; 2Sam 22,32; Ps 17/18,3; Is 44,8). Tale roccia spirituale
sosteneva il cammino di Israele dissetandolo con acqua spirituale, cioè
l'invisibile azione dello Spirito Santo.
“Ma
la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel
deserto”.
I doni furono tanti, ma la maggior parte del popolo non fu gradita a Dio e fu
sterminata nel deserto. Questo ha valore anche per i cristiani: “Ciò
avvenne come esempio per noi”.
Non mancano le
tentazioni nel cammino della vita al seguito di Cristo, ma Dio è fedele; “Dio
infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze
ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla
sostenere”.
Dunque chi cade, cade perché vuole cadere. La tentazione è utile perché pone il
credente nella condizione di scegliere sempre di più il Signore, mentre il
Signore stesso lo sostiene nel momento della prova, sicché egli è più che
vincitore (Rm 8,37).
Non partecipare
ai pasti sacri dei pagani
14
Perciò, miei cari,
state lontani dall’idolatria.
15
Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che
dico: 16
il calice della
benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?
E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
17
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti
partecipiamo all’unico pane.
18
Guardate l’Israele
secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in
comunione con l’altare?
19
Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli
vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa?
20
No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai
demoni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i
demoni; 21
non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete
partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni.
22
O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo
forse più forti di lui?
“Dico
che quei sacrifici sono offerti ai demoni e non a Dio”.
Gli idoli sono nulla, ma all'ombra degli idoli, frutto della
menzogna, ci sono i demoni.
Soluzioni per i
conviti privati
23
“Tutto è lecito!”. Sì, ma non tutto giova. “Tutto è lecito!”. Sì, ma non tutto
edifica. 24
Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri.
25
Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo
pure, senza indagare per motivo di coscienza,
26 perché del Signore è la terra e tutto ciò che
essa contiene.
27
Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene
posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza.
28 Ma se qualcuno vi dicesse: “È carne immolata in sacrificio”,
non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di
coscienza; 29
della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Per quale motivo, infatti, questa
mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui?
30
Se io partecipo alla
mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo
grazie?
31
Dunque, sia che
mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per
la gloria di Dio.
32
Non siate motivo di
scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio;
33
così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio
interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
“Tutto
ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di
coscienza”.
L'osservanza stretta delle disposizioni del Concilio di Gerusalemme avrebbe
creato enormi problemi, specie tra la gente povera che non aveva in possesso
armenti per cui Paolo dispensa i fedeli dal fare ricerche sull'origine delle
carni, ricerca dai risultati non attendibili.
Parimenti, se
alcuni cristiani sono invitati in un convito in casa di un non credente, non
devono farsi il problema di appurare la provenienza della carne; ma se un
cristiano dicesse con cognizione di causa, o solo per timore ragionevole, che è
“carne
immolata in sacrificio”, bisogna astenersene per non scandalizzare quel fratello.
Il velo delle
donne nelle assemblee liturgiche
11
1
Diventate miei
imitatori, come io lo sono di Cristo.
2
Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così
come ve le ho trasmesse.
3 Voglio però
che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e
capo di Cristo è Dio.
4 Ogni uomo
che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo.
5 Ma ogni
donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo,
perché è come se fosse rasata.
6
Se dunque una donna
non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna
tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
7
L’uomo non deve
coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è
gloria dell’uomo.
8
E infatti non è
l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo;
9
né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo.
10
Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli
angeli. 11
Tuttavia, nel
Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna.
12
Come infatti la donna
deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.
13
Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna preghi Dio col capo scoperto?
14
Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi
crescere i capelli,
15
mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La lunga capigliatura le
è stata data a modo di velo.
16
Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa
consuetudine e neanche le Chiese di Dio.
Le indicazione
rabbiniche dicevano che le donne sposate non potevano uscire di casa senza
portare un velo sulla testa come segno di modestia e di accoglienza
dell'autorità maritale. Anche nel mondo greco-romano era abbastanza diffuso il
costume che la donna avesse un velo sul capo quando si mostrava in pubblico.
A Corinto, nelle
assemblee liturgiche, le donne avevano preso a stare a capo scoperto. In sé il
fatto non aveva niente di assolutamente riprovevole, ma lo erano le motivazioni
di emancipazione dall'uomo, secondo l'abile femminismo presente tra le matrone
romane, che il velo non lo portavano proprio, ma facevano sfoggio di
acconciature con spille d'oro, d'argento, d'avorio, nastri, e a volte
applicavano ai capelli piccole spirali d'oro a forma di boccoli pendenti alle
tempie. Non mancavano le tinture per i capelli fatte con varie essenze, e si
giungeva a fare delle vere costruzioni di riccioli sulla fronte a tracciare
diademi coi capelli. Tutto ciò per aumentare il potere di seduzione. Nel mondo
romano le donna altolocate arrivavano spesso a influire sui vertici dell'impero.
Plutarco (“Vita di Cicerone”) riferisce queste parole di Cicerone: “Tutti
gli uomini comandano sulle loro donne, noi su tutti gli uomini, e le nostre
donne su di noi ”.
Ciò minava l'ordine
voluto da Dio nel creare l'uomo e la donna, e tale ordine Paolo lo afferma con
forza dando valore all'uso di portare il velo. Tuttavia egli non trascura di
dire che il velo non tocca la bellezza della donna perché la capigliatura lunga
le è consona, e dunque il velo si accompagna alla lunghezza della capigliatura:
”La lunga
capigliatura le è stata data a modo di velo”.
Circa l'uomo Paolo
afferma che stia a capo scoperto e non abbia i capelli lunghi, seguendo l'uso
romano che per i capelli aveva un taglio semplice e corto. Solo i facoltosi
avevano acconciature con leggeri arricciamenti alla fronte, ma sempre con
capelli corti; per loro la moda era dettata dall'acconciatura degli imperatori.
Gli efebi (giovani greci) tenevano i capelli lunghi acconciati in ciocche a
riccioli attorno al capo, come se fossero una corona.
L'apostolo lascia
da parte la condizione del nazireato praticato nel giudaismo, che voleva che
l'uomo si lasciasse crescere la capigliatura (Nm 6,5; Gdc 13,5). Ciò apparteneva
ad un'altra cultura non a quella romana propria della grande maggioranza dei
cristiani di Corinto venuti dal paganesimo. Paolo, nel quadro giudaico, si era
lasciato crescere i capelli per un voto, radendosi poi a Cencre (At 18,18). Il
voto Paolo indubbiamente lo fece dopo la permanenza a Corinto, altrimenti gli
sarebbe stato ben difficile affermare che l'uomo non deve tenere i capelli
lunghi, perché indecoroso.
Affermato che la
donna è stata tratta dall'uomo e che quindi non può sopravanzare l'uomo, Paolo
afferma che tutto è venuto da Dio poiché “la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita
dalla donna”.
“A
motivo degli angeli
”. Su queste parole
si è ragionato tantissimo. L'interpretazione più semplice è che negli angeli c'è
un ordine gerarchico che non è interpretato come stato di oppressioni, ma come
stato di ordine per la felicità comune. Ora la donna che porta il velo non
rifiuta la diversità di ruoli stabiliti da Dio tra l'uomo e la donna e ne trova
positività, così come positività è negli angeli.
Dunque, le donne
nell'assemblea devono stare con il velo sul capo, mentre l'uomo no.
Paolo non concede
nulla a eventuali contestazioni, troncando ogni discorso: “Se
poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa
consuetudine e neanche le Chiese di Dio”.
La celebrazione
dell'Eucaristica
17
Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non
per il meglio, ma per il peggio.
18
Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni
tra voi, e in parte lo credo.
19
È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi,
perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova.
20
Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del
Signore. 21
Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e
così uno ha fame, l’altro è ubriaco.
22
Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete
gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?
I Corinzi, prima
della celebrazione Eucaristica, usavano cenare insieme nelle varie case
che ospitavano gli incontri di preghiera. Tale uso era presente anche nella
comunità di Gerusalemme (At 2,46). A Corinto, però, tale uso non produceva il
meglio fraterno, ma il peggio, poiché non c'era la condivisione del cibo, e con
ciò il triste spettacolo di chi facoltoso mangiava e beveva in abbondanza,
mentre il povero consumava solo una magra cena. Non c'era neppure l'osservanza
di un orario comune, che pur doveva essere stato stabilito. Paolo dice che se le
cose continuano ad andare così sarebbe meglio che tutti mangiassero a casa
propria. “Non
avete forse le vostre case per mangiare e per bere?”.
Che devo dirvi?
Lodarvi? In questo non vi lodo!
23
Io, infatti, ho
ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù,
nella notte in cui veniva tradito, prese del pane
24 e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio
corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.
25
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne
bevete, in memoria di me”.
26
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate
la morte del Signore, finché egli venga.
Paolo è sferzante
nel presentare l'ironica ipotesi che i Corinzi si aspettassero una lode per i
disordini che precedevano l'assemblea Eucaristica e che si ripercuotevano sulla
stessa; ma proprio una lode non se la meritavano.
La forza della
riprovazione di Paolo è fortissima proprio nell’affermare il suo essere ministro
dell'altare: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore”.
Le parole “ho
ricevuto dal Signore”
non vanno intese nel senso di una rivelazione del Signore, poiché Paolo
la catechesi sull'Eucaristia l'ha ricevuta indubbiamente dalla comunità di
Damasco (At 9,19) e quindi non direttamente dal Signore; tuttavia con
l'ordinazione sacerdotale, con tutta probabilità avuta nel primo viaggio a
Gerusalemme (At 9,27; Gal 2,18), ha “ricevuto dal Signore” quanto sta ripresentando ai Corinzi.
Quello che Paolo ha
trasmesso nella catechesi ai Corinzi, e che di nuovo presenta, ha poi
un'impronta chiaramente liturgica, data dall'esercizio del ministero sacerdotale
degli Apostoli.
27
Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno,
sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28 Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal
calice; 29
perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve
la propria condanna.
30
È per questo che tra
voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti.
31
Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati;
32
quando poi siamo
giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme
con il mondo.
33
Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli
altri. 34
E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna.
Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.
I doni dello
Spirito Santo
12
1
Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza.
2
Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza
alcun controllo verso gli idoli muti.
3
Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può
dire: “Gesù è anatema!”; e nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto
l’azione dello Spirito Santo.
4
Vi sono diversi
carismi, ma uno solo è lo Spirito;
5
vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore;
6
vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
7 A ciascuno è data una manifestazione particolare
dello Spirito per il bene comune:
8 a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il
linguaggio di
sapienza; a un altro
invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza;
9
a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono
delle guarigioni;
10
a uno il potere dei
miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere
gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione
delle lingue.
11 Ma tutte
queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come
vuole.
“Nessuno
può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo”.
Tanti hanno detto “Gesù
è Signore”
ma non va detto solo con le labbra, ma coi fatti, e, cioè, con l'obbedienza alla
parola del Signore. “Gesù
è Signore”,
e poiché è Signore, va obbedito (Cf. Mt 7,21) nella fede, nell'amore e nella
speranza, cioè “sotto l'azione dello Spirito Santo”.
“Il
linguaggio di sapienza”,
è il linguaggio di chi esprime le verità della fede dentro l'esistenza
quotidiana, vedendo come le verità della fede lievitino la vita dei credenti
conducendola all'intimità con Dio. Espresse dentro l'esistenza quotidiana, le
verità della fede illuminano il disegno d'amore di Dio per l'uomo, per cui il
linguaggio della sapienza procede dall'acume dell'amore che guarda l'Amore.
“Il
linguaggio di conoscenza”, è il linguaggio di chi espone le verità della fede affinché
siano credute e professate; è il linguaggio del ricercatore delle ricchezze
inesauribili della verità che poi comunica agli altri.
“La
fede”;
non è la fede teologale, ma un particolare dono che sostiene i fratelli (i
carismi sono per l'utilità comune) di fronte ad imprese considerate umanamente
impossibili. Coincide con il dono dell'esortazione (Rm 12,8). Si pensi al caso
di chi sostiene con determinazione i fratelli di fronte all'imminente martirio
(2Mac 7,2-5), o al caso di chi sa iniziare un movimento di resistenza contro i
nemici della fede, pur essendo in posizione minoritaria (1Mac 2,27). Tale
carisma era importante per sostenere la comunità di fronte allo sgomento causato
dalle persecuzioni.
“Il
dono delle guarigioni”;
tale dono venne dato ai discepoli inviati da Gesù (Mt 10,8). Marco riferisce che
i discepoli usavano ungere i malati con olio nell'ambito delle guarigioni.
L'olio non era affatto necessario, ma ciò serviva a rendere il prodigio più alla
portata della mente umana (Mc 6,13). Le guarigioni si riferiscono alle malattie.
“Il
potere dei miracoli”,
ha come proprio ambito non quelle situazioni di malattia dove la scienza può
qualcosa, ma fatti fuori da ogni portata terapeutica. Come far camminare gli
storpi, dare la vista ai ciechi, moltiplicare i pani, sanare i lebbrosi,
risuscitare i morti (1Re 17,17-24; 2Re 4,8-37; 13,21; Mt 9,25; At 9,36-41;
20,10).
“Il
dono della profezia”,
è il dono di annunciare cose che accadranno o una rivelazione del Signore circa
un compito da eseguire (At 11,27-30; 13,2; 15, 32,10-11) o per l'edificazione
comune nella preghiera (14,3).
“Il
dono di discernere gli spiriti“,
è il dono della scrutazione dei cuori per coglierne le intenzioni profonde, se
sincere o mentitrici.
“La
varietà delle lingue”;
tale dono lo vediamo in atto nel giorno della Pentecoste, dove gli apostoli
cominciarono a parlare in diverse lingue secondo l'azione dello Spirito (At
2,4). A Corinto, città cosmopolita, tale dono si esercitava negli incontri di
preghiera.
“L’interpretazione
delle lingue”,
è il dono di tradurre nella lingua comune dell'assemblea le parole di un inno
pronunciato dal glossologo nella lingua di un forestiero presente
nell'assemblea.
“Ma
tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno
come vuole”.
Tutti i carismi provengono da un solo Spirito che li distribuisce come vuole.
Non si ha dunque che un carisma possa oscurare un altro carisma, come non si dà
distribuzione dei carismi senza un disegno dello Spirito. Non è così possibile
forzare lo Spirito al proprio volere, né fare dei carismi un'occasione di
esaltazione di un fedele su di un altro fedele. I carismi infatti sono dati per
il “per il
bene comune”.
Il corpo e
le membra
12
Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo,
pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo.
13 Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo
Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati
dissetati da un solo Spirito.
14
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra.
15
Se il piede dicesse: “Poiché non sono mano, non
appartengo al corpo”, non per questo non farebbe parte del corpo.
16
E se l’orecchio dicesse: “Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo”, non
per questo non farebbe parte del corpo.
17
Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse
udito, dove sarebbe l’odorato? 18 Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto,
come egli ha voluto.
19
Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo?
20
Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21 Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la
testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”.
22 Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono
le più necessarie;
23
e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore
rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza,
24
mentre quelle decenti
non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a
ciò che non ne ha,
25
perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le
une delle altre.
26
Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è
onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
27
Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.
28
Alcuni perciò Dio li
ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come
profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono
delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.
29
Sono forse tutti
apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli?
30
Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le
interpretano?
31 Desiderate
invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più
sublime.
I fedeli sono
membra di un solo corpo, costituito in Cristo e che ha come capo Cristo. Ora
nessun membro può essere in contrasto con un altro membro, ma tutti non possono
che concorrere al bene del corpo di cui fanno parte, e nessun membro può dire di
non avere bisogno dell'altro.
“Le
membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie”; ad esempio, gli occhi, il naso,
l'orecchio, la lingua.
“Le
parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto”;
i piedi, le braccia, le mani, le gambe, il torace; sono meno onorevoli perché
usate nello sforzo fisico, tuttavia sono circondate di rispetto perché
espressione della forza e dell'agilità e dell'abilità: le gambe per la corsa, le
braccia per il lavoro, ecc..
“Quelle
indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne
hanno bisogno”;
la decenza sta nel ricoprirle (Cf. Gn 3,7).
Dal paragone del
corpo Paolo passa al punto che è in questione, poiché i Corinzi correvano il
rischio di desiderare i doni di Dio per emergere gli uni sugli altri: “Sono
forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti
possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le
interpretano?”.
La strada giusta e vera non è dunque quella di invidiarsi i doni sensazionali,
ma di aspirare ai doni più utili al bene comune.
“Desiderate
invece intensamente i carismi più grandi”, cioè quelli che sono di maggiore utilità
comune.
Certamente, non era
tra questi la glossolalia della quale i Corinzi si servivano per gareggiare gli
uni con gli altri.
In tutto ciò c'è
però una “via
più sublime”, che tutti devono percorrere e che conduce all'abbraccio eterno
con Dio.
Non tutti
hanno carismi straordinari, ma non sono questi che rendono l'uomo grande, bensì
la carità.
Il primato della carità
13
1
Se parlassi le lingue
degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che
rimbomba o come cimbalo che strepita.
2
E se avessi il dono
della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se
possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non
sarei nulla.
3
E se anche dessi in
cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non
avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
Chi avesse i
carismi più clamorosi, ma poi non avesse la carità non sarebbe che un nulla.
Il discorso di
perfetta letizia di san Francesco d'Assisi a frate Leone ha qui il suo
riferimento di base.
4
La carità è
magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia
d’orgoglio, 5
non manca di
rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male
ricevuto, 6
non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7
Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
“La
carità è magnanima”;
la magnanimità è la grandezza d'animo, la disposizione generosa a rapporti
interpersonali costruttivi, pazienti, lungimiranti nella fedeltà al quotidiano,
senza badare al denaro, a fatiche, a rinunce; sempre pronta a rigettare la
tentazione di avere onori e utili, e sempre pronta a sostenere le prove con
umile e ferma dignità; è l'avere un umore costante sì che gli uomini non
rimangano disorientati da variazioni di disponibilità.
“Benevola
è la carità”;
la benevolenza è la disposizione d'animo alla pace, alla comprensione, alla
fiducia pur sempre nella vigilanza e prudenza. E' disposizione pure
all'arrendevolezza, non per cedimento della verità, ma per lasciare cadere nel
vuoto le aggressività caratteriali che sovente si incontrano tra gli uomini.
“Non
è invidiosa”;
l'invidia è anticarità perché è godere del male altrui e rattristarsi del bene
altrui, questo per emergere sugli altri. L'invidia toglie la pace a chi la
coltiva; e poiché l'uomo una pace bisogna che la raggiunga la cerca
nell'abbassare gli altri, nel denigrarli, ma in tal modo la pace si allontana
ancor più da lui..
“Non
si vanta”;
la carità non può essere senza l'umiltà. Il millantatore, colui che vuole essere
notato, che si celebra da se stesso (2Cor 10,12), che esalta le sue iniziative e
risultati, non ha la carità. “Non si vanta”, perché chi ama riconosce di essere oggetto della
misericordia di Dio, e perciò non si vanta se non nel Signore (1Cor 1,31;
2Cor 10,17), cioè professando come il Signore gli ha usato misericordia, come lo
aiuta (15,10), e come le sue capacità vengono dal Signore (1Cor 2,12; 2Cor 3,5).
“Non
si gonfia d’orgoglio”;
la carità non conosce l'alterigia, il parlare superbo, duro, indisponente.
Tracotante.
“Non
manca di rispetto”;
il rispetto è necessario per la vita sociale. Il rispetto va dato a tutti, ma il
rispetto per gli uomini non vuol dire condividere idee distorte e nefaste. Nel
campo delle opinioni legittime, si deve rispetto all'opinione altrui. Nel caso
delle opinioni che urtano contro la verità rimane il rispetto per la persona, ma
non la condivisione dell'opinione dissennata o nefasta. Il rispetto rimane anche
quando l'autorità deve esercitare la correzione, poiché la correzione non può
essere degradante. La correzione umilia, ma non degrada.
“Non
cerca il proprio interesse”;
avere carità perché si cerca un utile terreno, vuol dire non avere la carità.
“Non
si adira”;
non fa la voce grossa, e di fronte all'errore di un fratello sa correggere
spiegando l'errore. Chi si adira è perché viene turbato nel suo quieto vivere,
vede compromesse le sue ambizioni. Calmo e tranquillo quando è appagato, l'uomo
egoista ed egocentrico, si adira in maniera inaspettata e violenta.
“Non
tiene conto del male ricevuto”;
perché sa sorvolare sulle cose spiacevoli, non si pone in stato di puntiglio, ma
sa comprendere, perdonare e aspettare.
“Non
gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità”; chi non ama non sopporta l'amore, vuole vedere attorno a
sé l'ingiustizia, salvo gridare quando l'ingiustizia lo tocca. Chi ama si
rallegra invece della verità, anche se si trova sul labbro di un uomo duro e
chiuso. Poiché la carità saprà far leva su quella verità per donare la Verità.
“Tutto
scusa”;
poiché la carità è riconciliazione, perdono e non litigiosità. Non c'è crimine
che la carità non sappia perdonare a chi umile si pente, e anche se chi ha
mancato non si pente, rimane sempre in lei il desiderio di perdonare e cerca di
facilitare la richiesta di perdono a chi ha mancato.
“Tutto
crede”;
non solo crede in Dio per la propria vita, ma crede che si possa portare a Dio
anche il peccatore incallito. Crede anche per lui sperando di portarlo a Dio,
poiché la carità “tutto
spera”,
pronta ad accettare e a valorizzare nella croce di Cristo tutte le sofferenze,
così essa “tutto
sopporta”.
8
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue
cesserà e la conoscenza svanirà.
9 Infatti,
in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo.
10
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
11
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da
bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
12
Adesso noi vediamo in
modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come
anch’io sono conosciuto. 13 Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la
carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
La profezia è superiore al dono delle lingue, se manca
l'interpretazione delle lingue
14
1
Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto
la profezia. 2
Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio
poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende.
Il dono delle lingue era stato promesso da Gesù (Mc 16,17), ed era al fine dell’evangelizzazione, e in questo senso Paolo lo possedeva (14,18). Il dono delle lingue nell’assemblea di Corinto aveva questa finalizzazione, ma in un quadro di preghiera. Consisteva nel pronunciare un inno, una lode a Dio, in una lingua non conosciuta dal glossologo, il quale pregava con lo spirito, ma non ne riceveva frutto per la mente non intendendo quanto stava pronunciando. La lingua in cui il glossologo si esprimeva veniva dall'azione dello Spirito, ed era un
carisma straordinario (!2,10) non appartenente perciò al pregare in Cristo nello Spirito Santo (15,28; Gd v. 20). La glossolalia di preghiera non era costituita da suoni armoniosi ma senza significato; era un vero dire, che anche il glossologo era chiamato a comprendere,
grazie al dono dell'interpretazione delle lingue, che poteva avere lui o un altro dell’assemblea; così anche l’assemblea ne veniva edificata.
A Corinto circa la
glossolalia le cose non andavano in tutto bene perché c'era uno smodato
desiderio di essere un glossologo, perché il fenomeno colpiva l'attenzione
dell'assemblea. Il risultato era che non sempre lo Spirito Santo agiva, ciò che
spingeva era solo la voglia di comparire, per cui quello che usciva dal labbro
di molti improvvisati glossologi era soltanto uno sfarfallare di suoni, e il
tutto era aggravato dal fatto che si mettevano a esibirsi contemporaneamente,
rendendo definitivamente insolubile il problema di capire cosa dicevano.
Occorreva perciò che parlassero uno alla volta (14,27) e ci fosse
qualcuno che traducesse per verificare se quanto veniva pronunciato aveva un
senso; era il dono dell'interpretazione delle lingue.
3
Chi profetizza,
invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto.
4
Chi parla con il dono
delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea.
5 Vorrei
vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il
dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che
parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l’assemblea ne
riceva edificazione.
Il dono delle
lingue Paolo non lo vuole svilire, ma afferma che è più augurabile che si abbia
il dono della profezia, oppure insieme al dono delle lingue ci sia quello della
interpretazione delle lingue, questo per l'edificazione dell'assemblea.
6
E ora, fratelli,
supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa
potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o
una profezia o un insegnamento?
7 Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il
flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà
distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra?
8
E se la tromba emette
un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?
9 Così anche voi, se non pronunciate parole chiare
con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al
vento!
Paolo fa l'esempio
degli strumenti musicali. Se due strumenti comunicano suoni in modo tale che non
si capisca l'identità dei due strumenti, l'ascoltatore rimarrà inappagato. Così
se il glossologo pronuncia suoni a cui non corrisponde un significato, cioè una
parola, non si potrà comprendere nulla del suo esprimersi: “Parlereste
al vento!”.
10
Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio
linguaggio. 11
Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi
mi parla è uno straniero per me.
Le lingue (lingue
locali) nel mondo sono tantissime e tutte comunicano delle realtà, dei pensieri,
dei concetti. Conoscendole si percepisce il discorso. Ma se uno parla e l'altro
non conosce che cosa designano i suoni linguistici, cioè “il
senso”,
chi ascolta non potrà considerare l'altro che come uno straniero.
12
Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in
abbondanza, per l’edificazione della comunità.
13 Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle
interpretare.
14 Quando
infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia
intelligenza rimane senza frutto.
15
Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza;
canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza.
Se il glossologo
avesse emesso solo suoni armoniosi e basta avrebbe creduto di possedere
l'interezza dell'esperienza, invece no, poiché rimaneva assente il contributo
della mente che passa attraverso l'interpretazione delle lingue. “Quando
infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia
intelligenza rimane senza frutto”.
Per capire in
qualche modo come il glossologo pregava pur non comprendendo quanto diceva si
può considerare come a volte nel passato negli istituti femminili si recitavano
i salmi in latino senza che tutte le religiose conoscessero il latino, eppure
tutte pregavano con grande fede, speranza e amore. Chiaro che questo non era
affatto il meglio, poiché “la mia intelligenza rimane senza frutto”.
Così la completezza si ha quando si prega con lo spirito, ma anche con la luce
della percezione dell'intelligenza, che rafforza e illumina la preghiera: “Pregherò
con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma
canterò anche con l’intelligenza”. Il glossologo esprimeva il suo inno, in forma di canto, secondo
l'uso della recita dei salmi.
16
Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che
sta fra i non iniziati potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento
che non capisce quello che dici?
“I
non iniziati:
idivtai (idioti)”, sono quelli che che frequentavano, senza vincoli di appartenenza, le riunioni di preghiera. Il termine idiota, nella sua accezione greca, significa “privato”, cioè non ancora appartenente alla comunità. Gli
idivton sono delle persone toccate dal primo annuncio del Vangelo e invitate a vedere l'assemblea cristiana; è il “vieni e vedi” (Gv 1,46). Potevano sopraggiungere (v. 24) dopo che la preghiera era iniziata, anche dei pagani: non erano assemblee a porte chiuse. L’adesione, nella sorpresa, al ringraziamento espresso dal glossologo non poteva avvenire presso i non iniziati, se non comprendevano le sue parole; e quindi il sopraggiunto le comprendeva.
17
Tu, certo, fai un bel
ringraziamento, ma l’altro non viene edificato.
18 Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue
più di tutti voi;
19
ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza
per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle
lingue.
20
Fratelli, non
comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto
a giudizi, comportatevi da uomini maturi.
21 Sta scritto nella Legge (Is 28,11-12):
|
In altre lingue e con labbra
di stranieri
parlerò a questo popolo,
ma neanche così mi ascolteranno, |
dice il Signore.
22
Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non
credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che
credono. 23
Quando si
raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle
lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che
siete pazzi?
Perché il dono della glossolalia? Non sarebbe più ovvio e consono al mistero dell'incarnazione della Parola che l'inno fosse pronunciato nella lingua greca o latina? Certo e questo valeva per la profezia, poiché la profezia si rivolgeva all’assemblea e perciò non era precisamente preghiera.
La glossolalia nell’assemblea di Corinto era invece preghiera, e perciò rivolta a Dio, ma nello stesso tempo rivolta a colpire una persona nuova non credente che sopraggiungesse nell’assemblea. Poi le parole del glossologo dovevano essere tradotte per edificare l’assemblea, e anche per intercettare falsificazioni.
La risposta che si deve dare è che l'assemblea di Corinto era aperta agli stranieri in sosta per traffici commerciali. Corinto era una città cosmopolita per la presenza di due porti e di una intensa attività commerciale. Questi forestieri dediti al commercio conoscevano almeno una delle due lingue ufficiali dell'impero romano (latino e greco), ma pure parlavano la loro “lingua nativa” (At 2,6). Ora il fatto sorprendente era che il glossologo pronunciava proprio la sua preghiera in queste
lingue native. A Gerusalemme nel giorno di Pentecoste i pellegrini conoscevano l'aramaico come lingua ufficiale degli ebrei, ma ecco che gli Apostoli sorprendono tutti. Sono dei Galilei, ma parlano usando lingua che assolutamente non potevano conoscere. Questo il fatto eclatante (At 2,7): “Erano stupiti e fuori di sé per la meraviglia, dicevano:
‹Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?›”. Precisamente gli Apostoli parlavano nella loro lingua e gli ascoltatori, in simultanea, udivano nella loro lingua nativa. Non avveniva, dunque, che gli Apostoli ora parlassero in una lingua e poi in un’altra; infatti parlavano non a gruppi linguistici distinti, ma a tutti.
A Corinto
succedeva diversamente: era il glossologo che si esprimeva in altra lingua
diversa dalla sua. Gli stranieri, invitati secondo il “vieni
e vedi”,
sentivano che il glossologo parlava nella loro lingua nativa, e questo era
un segno che impressionava.
Il dono delle
lingue non era un segno per coloro che già credevano, ma per i non credenti.
Paolo adatta liberamente Is XXVIII,11-12 per dire che Dio aveva parlato “In
altre lingue e con labbra di stranieri”,
cioè la lingua degli assalitori Assiri, a un popolo traviato, che,
ovviamente, non intendeva la loro lingua; e ciò lo avrebbe dovuto far
riflettere sulla sua sventura di essere deportato, ma ciò non servì “ma
neanche così mi ascoltarono”.
Così Dio con la glossolalia nell’assemblea di Corinto mirava a far
riflettere i non credenti sopraggiunti sulla sua azione sorprendente e
portarli a conversione. Dunque la glossolalia non era per i credenti,
ma per i non credenti.
"Quando
si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono
delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà
forse che siete pazzi?".
Queste parole non smentiscono la dichiarazione precedente, che afferma che
la glossolalia è per i non credenti.
Paolo presenta
la situazione corrente dell'assemblea dove c'era la gara a fare il
glossologo, e in tale gara usciva dalla bocca del glossologo niente
di sensato. Ora un non iniziato che entrava e incontrava una tale situazione
non veniva edificato, ma concludeva che tutti erano matti; e un carisma non
può generare una tale negativa impressione. È tuttavia del tutto insano
avvicinare tale situazione con le manifestazioni di esaltazione mantica dei
culti caribantici, dionisiaci, cibelici.
La cosa,
invece, va intesa come una contraffazione del carisma autentico, dovuta a
una sorta di competizione, di non voler essere da meno; ma il
risultato era solo emettere suoni senza significato: un parlare al vento
(14,9).
24
Se invece tutti
profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti
convinto del suo errore e da tutti giudicato,
25
i segreti del suo cuore saranno manifestati e così,
prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!
Regole sull'uso
dei carismi
26
Che fare dunque,
fratelli? Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno
ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di
interpretarle: tutto avvenga per l’edificazione.
27 Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due, o al
massimo in tre, a parlare, uno alla volta, e vi sia uno che faccia da
interprete. 28
Se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia nell’assemblea e parli solo
a se stesso e a Dio.
29
I profeti parlino in
due o tre e gli altri giudichino.
30
Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia:
31 uno alla
volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare ed essere
esortati. 32
Le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti,
33 perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
Paolo non spaventa
l'assemblea di Corinto dicendole che poteva esserci l'influsso del Demonio, ma
pone dei paletti, delle disposizioni realizzanti dei filtri di controllo, tali
che, se osservati fedelmente, facessero emergere l'azione dello spirito del
male.
Occorre ordine e il
dono della interpretazione delle lingue.
Anche per i profeti
occorre ordine. Essi devono parlare non più di due o tre in tempi successivi, in
tal modo viene frenata la voglia di improvvisarsi profeti e l'assemblea non
viene invasa da un eccesso di comunicazione che paralizza poi la preghiera.
Esiste quindi la necessità di vigilare con un giudizio: “gli
altri (profeti) giudichino”.
“Le
ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti”; la divina ispirazione non toglie la libertà al profeta,
così il profeta non è un invasato che parla in trans, senza controllo su di sé.
Ma poiché il profeta non è un invasato è capace di valutare se il suo discorso
viene da Dio o meno sulla base del criterio che Dio non è un Dio di disordine,
ma di pace. Le rivelazioni che lasciano turbamento e non pace, non vengono da
Dio, perché Dio è il Dio della pace. Il profeta deve essere molto vigilante
perché il Demonio presenta le sue perverse istruzioni sotto forma piacevole e
suadente, ma se sul momento il perverso messaggio sembra piacevole, subito dopo
lascia un oscuro turbamento. Resta fermo che sui carismi straordinari deve
vigilare l'autorità episcopale, come del resto faceva Paolo.
Come in tutte le
comunità dei santi,
34
le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano
invece sottomesse, come dice anche la Legge.
35
Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti,
perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
36
Da voi, forse, è
partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi?
37 Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni
dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore.
38
Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui viene riconosciuto.
39 Dunque, fratelli miei, desiderate intensamente la profezia e,
quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo.
40
Tutto però avvenga decorosamente e con ordine.
La risurrezione
di Cristo prova della risurrezione dei morti
15
1
Vi proclamo poi,
fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale
restate saldi 2
e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che
non abbiate creduto invano!
3
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè
|
che
Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che
4
fu
sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
5
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. |
6
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior
parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti.
7 Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli.
8
Ultimo fra tutti
apparve anche a me come a un aborto. 9 Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di
essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
10
Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata
vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che
è con me. 11
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
12
Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra
voi che non vi è risurrezione dei morti?
13
Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto!
14
Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche
la vostra fede.
15
Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo
testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha
risuscitato, se è vero che i morti non risorgono.
16
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;
17
ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri
peccati. 18
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
19 Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa
vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
“Ultimo
fra tutti apparve anche a me come a un aborto”. La ragione per cui Paolo si ricorda come un aborto deve
avere un riferimento preciso. Lo si può individuare nel fatto che egli, che era
stato discepolo di Gamaliele (At 22,3), aveva ribaltato il consiglio del suo
maestro di lasciare liberi gli apostoli (At 5,38), approvando prima l'uccisione
di Stefano, condannato in un processo pieno di illegalità, perché svoltosi con
falsi testimoni (At 6,13) e con incredibile ferocia, e poi chiedendo lettere per
perseguitare a morte i cristiani (At 9,2; 22,4). Così Paolo dichiara che il suo
duro distanziarsi da Gamaliele lo ridusse ad essere un rigettato (“aborto”) dalla giustizia contenuta nella stessa Legge
(At 23,3).
“Ma
se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la
vostra fede”.
La predicazione rivolta ad un giusto che è stato ucciso ed è stato regolarmente
sepolto non ha forza di liberazione dal peccato.
20
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
21
Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche
la risurrezione dei morti.
22
Come infatti in Adamo
tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
23
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta,
quelli che sono di Cristo.
24
Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere
ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
25 È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto
tutti i nemici sotto i suoi piedi.
26
L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte,
27
perché ogni cosa
ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata
sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni
cosa. 28
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso
a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
“Poi
sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al
nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. La fine è la conclusione di tutto il disegno
del Padre eseguito da Cristo. Ridotti al nulla i nemici di Dio nel giudizio
universale, che riguarderà anche i demoni (6,3), Cristo consegnerà il regno a
Dio Padre. “Ogni Principato e ogni Potenza e Forza”,
sono i demoni nella loro gerarchia che, già celeste (Ef 3,10; Col 1,16; 2,10),
si è deformata in infernale (Ef 6,12; Col 2,15).
“L’ultimo
nemico a essere annientato sarà la morte”. La morte, il cui pungiglione è il peccato, non potrà più
raggiungere gli uomini, riportandoli sotto il suo dominio (Ap 21,4).
29
Altrimenti, che cosa faranno quelli che si fanno battezzare per i morti? Se
davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro?
30 E perché noi ci esponiamo continuamente al
pericolo? 31
Ogni giorno io vado incontro alla morte, come è vero che voi, fratelli, siete il
mio vanto in Cristo Gesù, nostro Signore!
32
Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le
belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo,
perché domani moriremo (Is 22,13; Sap 2,2-6).
33
Non lasciatevi ingannare: “Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi”.
34
Tornate in voi stessi, come è giusto, e non peccate! Alcuni infatti dimostrano
di non conoscere Dio; ve lo dico a vostra vergogna.
“Altrimenti,
che cosa faranno quelli che si fanno battezzare per i morti?”.
Il farsi battezzare per i morti deve avere pure un senso dice Paolo, e questo
non può essere che la risurrezione.
Si congettura
spesso che a Corinto ci fosse l'uso che se un catecumeno moriva prima di
ricevere il Battesimo un amico o un parente, figurativamente, si faceva
battezzare per lui. La cosa risulta strana, e, anche se non eretica,
dottrinalmente pericolosa.
Paolo non spende
una parola né a favore né contro una tale pratica, che se avesse avuto un
riferimento al Battesimo cristiano, pur solo come figurazione, sarebbe
stata meritevole di qualche precisazione o correzione, vista l'attenzione
dell'apostolo per ogni poco di lievito che potesse portare a deviazioni
dottrinali.
Va notato che Paolo
dice “per”,
non “al loro posto”, così che quel battesimo doveva essere una pratica
devota che non aveva riferimento con l'azione battesimale istituita da Cristo,
ma con l'inizio di un cammino di suffragio per i defunti in Cristo, dunque non
cosa ristretta ai catecumeni.
La spiegazione va
ritrovata guardando alle ritualità purificatrici giudaiche (Cf. Le Camus “L'Oeuvre
des Apotres”, Paris, 1905, Vol III, pag. 182), magari riviste alla luce del
battesimo di conversione di Giovanni Battista.
Il battesimo per i
morti in tal caso si presenta come l'inizio di un cammino penitenziale in
suffragio dei defunti. Tale battesimo di suffragio contiene la verità che i
morti sono dei viventi e se viventi dovevano ritrovare la pienezza della
loro realtà umana con la risurrezione. E' l'argomento di Gesù contro i Sadducei
(Mc 12,27), i quali negavano l'esistenza dell'oltretomba e quindi la
risurrezione, nonché l'esistenza degli angeli (At 23,8), e restringevano il
corpo delle Scritture al solo Pentateuco. Paolo, già fariseo credente nella
risurrezione, conosceva benissimo il pensiero dei Sadducei (At 23,6) e la
risposta antropologica alla loro negazione della risurrezione era che l'uomo
vive oltre la morte e possiede un'unità anima corpo che verrà ricomposta nella
risurrezione. Per viceversa se non esiste la risurrezione dai morti non esiste
neppure l'anima: “Se
i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (Cf. Sap 2,2-6).
Il battesimo per i
morti ha per Paolo il valore di una testimonianza nell'esistenza dell'anima
nell'aldilà, e contiene l'affermazione, antropologicamente necessaria, della
risurrezione.
La pratica del
battesimo per i morti era un uso sporadico e non ebbe seguito nella Chiesa,
anche per ben distanziarsi nettamente dalle sette eretiche dei Marcioniti e dei
Montanisti (Sant'Epifanio, “Adeversus Haereses. XXVIII, 6”.), che
attraverso il battesimo impartito a un vivo intendevano battezzare, col
battesimo cristiano, un defunto.
La risurrezione e
la glorificazione dei corpi
35
Ma qualcuno dirà:
“Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?”.
36 Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se
prima non muore.
37
Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco
di grano o di altro genere. 38 E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio
corpo.
A Corinto c'era la
difficoltà di pensare alla risurrezione dei morti, pensiero estraneo al
paganesimo.
“Come
risorgono i morti? Con quale corpo verranno?”. La prima di queste due domande riguarda come sia
possibile la risurrezione di un corpo dopo il disfacimento della tomba. La
seconda riguarda con quale corpo i morti verranno dall'aldilà.
La risposta di
Paolo al primo interrogativo è data affermando la ragionevolezza del fatto con
un paragone. Poiché la morte nel mondo vegetale non segna la fine della
possibilità della vita, così è possibile la risurrezione. L'obiezione, dunque,
non è frutto di acutezza : “Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore”.
La seconda domanda
trova risposta sempre nell'esempio del seme. Non viene seminata una spiga per
avere un'altra spiga, ma viene seminato un granello dal quale si avrà una spiga:
“E Dio gli
dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo”.
Dunque, nessuno può pensare che la risurrezione riporti il corpo alla condizione
di vita che aveva prima di morire. Come il seme con la morte raggiunge la
pienezza di una spiga, così avverrà del corpo. La spiga poi non cambia di natura
rispetto al seme.
39
Non tutti i corpi sono uguali: altro è quello degli uomini e altro quello degli
animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci.
40 Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo
splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri.
41 Altro è lo
splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle
stelle. Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore.
42
Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge
nell’incorruttibilità;
43
è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza,
risorge nella potenza;
44
è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale.
Dio non è limitato
nella sua potenza e ha creato sulla terra tanti corpi costitutivi delle diverse
nature degli essere: “altro è quello degli uomini e altro quello degli animali; altro
quello degli uccelli e altro quello dei pesci”. Ci sono i corpi terrestri e i corpi
celesti, ma diverso ne è lo splendore. Lo splendore dei corpi terrestri sta
nella bellezza dei colori e delle forme e delle loro funzioni, quella dei corpi
celesti nella loro luminosità. I corpi celesti hanno poi diversità di splendore:
“Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro
lo splendore delle stelle”. E anche le stelle differiscono l'una dall'altra per lo
splendore. Ora Dio, che ha creato tanta varietà di corpi terreni e celesti, è
capace di trasformare i corpi umani corruttibili in incorruttibili, senza per
questo cambiarne la natura.
“E'
seminato corpo animale, risorge corpo spirituale”. Il corpo animale psychikon è seminato nella zolla
della terra, ma risorge spirituale pneumatikon. È spirituale non perché
cambi natura o il suo essere materiale, ma perché non più soggetto ai bisogni
della carne, essendo diventato conforme alla vita nella gloria celeste.
Spirituale anche perché sostenuto nello stato glorioso per tutta l'eternità
dalla potenza dello Spirito santo, che è lo Spirito della gloria (1Pt 4,14).
Se c’è un corpo
animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che
45
il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo
divenne spirito datore di vita.
46
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
47
Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal
cielo. 48
Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così
anche i celesti.
49
E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste.
50
Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di
Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità.
Esistendo nella
presente vita il corpo animale, vi sarà anche un corpo spirituale nella futura
vita. L'argomentazione Paolo la conduce partendo dalla Scrittura. Il primo uomo,
Adamo, divenne un essere vivente. Formato dalla terra Adamo divenne un essere
vivente per infusione dell'anima spirituale. Di per sé divenne un animale
razionale, aggiungendosi a ciò il dono di essere elevato nell'ordine
soprannaturale della grazia. Se Adamo non avesse peccato sarebbe salito al cielo
senza conoscere la morte e il suo corpo sarebbe stato glorificato, da corpo
animale sarebbe diventato spirituale. L'ordine voluto da Dio era questo così
Paolo può dire: “Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale”.
Ma il corpo
spirituale ora procede da Cristo, che è venuto dal cielo, perché è il
Figlio unigenito del Padre che ha assunto una natura umana nel grembo di Maria.
Venendo dal cielo aveva il diritto alla gloria celeste, ma tuttavia l'ha
ottenuto dopo la morte salvifica per il genere umano, affinché la morte
dell'uomo, sia quella del peccato, sia quella del corpo fosse vinta, e gli
uomini fossero uni in Cristo nella Chiesa, suo corpo mistico. Cristo, perciò, “divenne
spirito datore di vita”.
L'evento della
risurrezione nella gloria
51
Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo
trasformati, 52
in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti
suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati.
53
È necessario infatti
che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale
si vesta d’immortalità.
54
Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo
corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura (Is 25,8; Os
13,14):
|
La morte è stata
inghiottita nella vittoria.
55
Dov’è, o morte, la tua
vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? |
56
Il pungiglione della
morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge.
57 Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per
mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
58 Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e
irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la
vostra fatica non è vana nel Signore.
“Ecco,
io vi annuncio un mistero”,
cioè una verità di fede espressa in termini molto sintetici. Più precisamente, è
mistero della partecipazione in cielo alla gloria di Cristo “spirito
datore di vita”
(15,45). L'essere mistero non chiude ad ogni approfondimento, ma lo chiede,
senza che si abbia la pretesa di esaurirne la comprensione, essendo mistero di
unione con Cristo. Il ritorno del Signore è espresso in maniera estremamente
sintetica, solo questo: “al
suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà”. Nella prima Tessalonicesi Paolo dice di più,
ma ciò lo doveva aver comunicato nella predicazione ai Corinti. La novità della
prima ai Corinzi sta nel termine trasformazione, che nella prima Tessalonicesi
era espresso con la visione del rapimento nelle nubi verso il Signore (1Ts
4,17).
Il mistero riguarda
quanto accadrà ai morti e a quelli che saranno in vita al momento della
manifestazione del Signore. La Chiesa infatti sarà presente fino alla fine del
mondo e i vivi di allora saranno trasformati: “Tutti
saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima
tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo
trasformati”.
Paolo sembra mettersi tra quelli che saranno vivi, ma non è così perché il “noi”
riguarda tutti i fedeli, per l'unità del corpo mistico di Cristo.
I morti
risorgeranno incorruttibili, e i vivi, saranno trasformati, cioè il loro corpo
da corruttibile diventerà incorruttibile e da mortale immortale (15,42-44).
L'evento sarà repentino. La trasformazione, di necessità, richiede una morte
speciale. Sarà una morte per impeto divino d'amore (15,22), senza alcuna
corruzione di tomba, a cui si accompagnerà la trasformazione
all'incorruttibilità e all'immortalità, il tutto in un istante, in un batter
d'occhio. La trasformazione mette in evidenza che non cambierà l'identità
personale. Il corpo reso immortale, spirituale, è quello che prima era
animale.
Per capire come
nella trasformazione ci sarà un istantaneo momento di morte basti pensare che
non tutti i vivi saranno adulti, ma ci saranno bambini, anziani. Non tutti
saranno di natura belli, ma ci saranno anche i brutti; tuttavia tutti
risorgeranno belli, aitanti, gloriosi, bellissimi, perché Dio toglierà ogni
imperfezione dai corpi segnati nella loro bellezza dalle colpe commesse dagli
uomini, che hanno trasmesso spesso difetti fisici avvilenti la bellezza data al
primo Adamo e alla prima Donna. Paolo non parla della speciale morte di coloro
che non conosceranno la tomba, ma ha antecedentemente affermato (15,22): “Come
infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita”.
“La
forza del peccato è la Legge”,
(Cf. Rm 7,8).
La colletta
16
1
Riguardo poi alla colletta in favore dei santi, fate anche voi come ho ordinato
alle Chiese della Galazia.
2
Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi metta da parte ciò che è
riuscito a risparmiare, perché le collette non si facciano quando verrò.
3 Quando arriverò, quelli che avrete scelto li
manderò io con una mia lettera per portare il dono della vostra generosità a
Gerusalemme. 4
E se converrà che vada anch’io, essi verranno con me.
5
Verrò da voi dopo
aver attraversato la Macedonia, perché la Macedonia intendo solo attraversarla;
6
ma forse mi fermerò da voi o anche passerò l’inverno, perché prepariate il
necessario per dove andrò.
7
Non voglio infatti vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po’ di
tempo con voi, se il Signore lo permetterà.
8
Mi fermerò tuttavia a Efeso fino a Pentecoste,
9 perché mi si è aperta una porta grande e propizia
e gli avversari sono molti.
10 Se verrà Timoteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi:
anche lui infatti lavora come me per l’opera del Signore.
11
Nessuno dunque gli manchi di rispetto; al contrario, congedatelo in pace perché
ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli.
12 Riguardo al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi
con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà
tuttavia quando ne avrà l’occasione.
Raccomandazioni
finali e saluti. Augurio e attestazione di profonda comunione in Cristo
13
Vigilate, state saldi
nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti.
14
Tutto si faccia tra
voi nella carità.
15
Una raccomandazione ancora, fratelli: conoscete la famiglia di Stefanas. Furono
i primi credenti dell’Acaia e hanno dedicato se stessi a servizio dei santi.
16
Siate anche voi sottomessi verso costoro e verso quanti collaborano e si
affaticano con loro.
17
Io mi rallegro della visita di Stefanas, di Fortunato e di Acaico, i quali hanno
supplito alla vostra assenza:
18
hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Apprezzate
persone come queste.
19
Le Chiese dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca,
con la comunità che si raduna nella loro casa.
20
Vi salutano tutti i fratelli. Salutatevi a vicenda con il bacio
santo.
21
Il saluto è di mia mano, di Paolo.
22
Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema! Maràna tha!
23
La grazia del Signore
Gesù sia con voi.
24
Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!
“Il
saluto è di mia mano, di Paolo”.
Paolo dettava le lettere, secondo l'uso del tempo, ad uno scriba. La velocità di
scrittura dello scriba era notevole per l'introduzione di segni tachigrafici
a cui si aggiungevano le abbreviazioni. Si aveva così una stenografia del
dettato, che poi veniva esteso con tutte le parole. Orazio ci riferisce che il
poeta Lucilio Gaio (180 a.C. - 104 a.C.) riusciva a dettare ad uno scriba ben
200 versi in un'ora. Il carisma dell'ispirazione investiva anche lo scriba
affinché eseguisse fedelmente il dettato.
Il dono
delle lingue non era per coloro che già credevano e che quindi appartenevano
già alla Chiesa, ma per i non credenti. Paolo usa Is XXVIII,11-12 per dire
che se Dio parlava “In
altre lingue e con labbra di stranieri”
(cioè le lingue dei dominatori, che deportarono Israele) a un popolo
traviato e non credente, il dono delle lingue non è per i credenti, ma per i
non credenti, appunto per i pagani invitati all'assemblea.
"Quando si raduna tutta la
comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e
sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete
pazzi?". Queste parole non
smentiscono la dichiarazione precedente, che afferma che la glossolalia è
per i non credenti. Dire che qui Paolo usa il genere della diatriba mettendo
in bocca ad uno una proposizione per poi negarla, è del tutto assurdo e
fuori delle regole della diatriba che sempre chiaramente presenta la
proposizione da confutare come pronunciata da qualcuno per poi passare a
dire apologeticamente il contrario. Paolo,invece, presenta la situazione
corrente dell'assemblea dove c'era la gara nell'assemblea a fare il
glossologo, e in tale gara usciva dalla bocca del glossologo niente di
chiaro. Ora un non iniziato che entarava e incontrava una tale situazione
non veniva edificato, ma concludeva che tutti erano matti; e un carisma non
può generare una tale negativa impressione.
E' tuttavia del tutto insano avvicinare tale situazione con le
manifestazioni di esaltazione mantica dei culti caribantici,
dionisiaci, cibelici.
La
cosa, invece, va intesa come una imitazione del carisma autentico, nel
pensiero che fosse una preghiera superiore; ma il risultato era solo
emettere suoni senza significato: un parlare al vento (14,9).