Un
secondo incontro con padre Pio
Ai
lavori di ristrutturazione del noviziato seguirono, nel 1960, quelli
del convento. Le stanze erano di buone dimensioni, aerate da grandi
finestre e anch’esso venne dotato di impianto di termosifone,
collegato alla caldaia del noviziato.
I lavori del convento volgevano ormai al termine, quando il nuovo
ministro provinciale padre Teodosio Passini andò a visitare
i lavori, per poi salire a S. Agata Feltria, distante circa 40
chilometri da Cesena, nel Montefeltro.
Qui lo aspettava un caso umano: il braccio destro di
Giuffré, Pino Alessandri, dopo il crac, si era visto
minacciato di morte dai creditori e si era rifugiato a S. Agata
Feltria. Vi arrivò in una sera di fine settembre del 1958.
Andò subito dalle suore Clarisse per informarle
dell’accaduto. Le suore, che avevano sottosopra il monastero,
per lavori fondati sulle promesse dì Giuffré, si
sentirono venire meno. Il signor Alessandri era pallido, sconvolto.
Uscì in aperta campagna verso il convento dei cappuccini
passando attraverso un’apertura del cantiere. Rimase nascosto
nel convento fino al 18 giugno del 1960, quando si trasferì
in una casupola in via Case Sparse 137/bis. Trovò poi
alloggio in due stanze di fronte al Monastero delle Clarisse, in via
Angelo Battelli 15. Lì visse da recluso: lo aiutava solo la
signora che abitava al lato opposto della strada.
Pino Alessandri espresse al ministro tutta la sua angoscia con la
richiesta di essere accompagnato da un frate da padre Pio, per sentire
da lui una parola di rassicurazione sul suo futuro. Il ministro
provinciale decise che lo avrebbe accompagnato padre Guglielmo, che
disse un sì pieno di gioia, di particolare gioia per
ché ricorreva in quell’anno il suo 25° di
ordinazione sacerdotale. Ritornare a vedere la celebrazione eucaristica
di padre Pio era per lui il più grande dono che il Signore
potesse fargli.
I due partirono nell’estate avanzata del 1963. Appena
arrivati riuscirono ad avvicinare nella chiesetta padre Pio. Padre
Guglielmo gli presentò in poche parole il caso e si
abbandonò ad uno sfogo: “Padre...! I frati... la
povertà!”.
Padre Pio repentinamente lo zittì: “Sta’
zitto! Non vedi che dai scandalo?”. Poi si rivolse al signor
Alessandri dicendogli: “Non vedo che finirai male. Ti
andrà bene”.
Era quanto bastava al pover’uomo, che, ritornato a S. Agata
Feltria, uscì dalla “prigione” di via
Angelo Battelli e acquistò una casa in via del Mattatoio
(ora via Mariani) al n 3.
Nel matroneo di destra della nuova chiesa, padre Guglielmo, verso
mezzogiorno dello stesso giorno, poté incontrare padre Pio
ed esternargli quello che aveva nel cuore.
Gli chiese di accogliere e benedire il suo proposito di vivere
l’«altissima povertà»
così come suonava negli scritti e nella vita del poverello
di Assisi.
Padre Pio rimase un po’ in silenzio, poi gli disse:
“Va bene! Ti benedico!”.
Padre Guglielmo parlò ancora con lui nella cappellina del
convento, dove, in stato di segregazione, il cappuccino stimmatizzato
aveva celebrato la Messa dall’11 giugno 1931 al 16 luglio
1933. In quell’incontro padre Guglielmo rimase impressionato
dalla stanchezza e dalla sofferenza di padre Pio, che pur tutto
sopportava.
Il padre più che sedersi cadde seduto sul banco dicendo:
“Non ne posso più!”.
Padre Guglielmo in quell’occasione si confessò.
In seguito ebbe anche un colloquio con il signor Bertani, economo della
casa “Sollievo della sofferenza”, il quale gli
riferì che un giorno disse a padre Pìo:
“Padre, voi siete tutto per tutti!”. Egli gli
rispose, precisando il senso del passo paolino della prima lettera ai
Corinti (9,22): “No, figlio mio... Io sono tutto per
ognuno”. Questa frase di padre Pio divenne un punto fermo per
padre Guglielmo: la sua vita di relazione con i fedeli divenne nuova,
francescana. Scoprì intimamente che il donarsi in Cristo a
tutti comportava il donarsi a ciascuno e che il donarsi in Cristo a
ciascuno portava a donarsi a tutti.
L’«altissima povertà» era
slancio per la carità universale. Padre Guglielmo aveva
tante volte spiegato questo ai novizi, ma ora, dopo la profonda
comunione con padre Pio, ne sperimentava nello Spirito Santo tutta la
dolcezza e forza liberante.
Un abito tutto
toppe
Il
maestro dei novizi di Cesena cominciò a sorprendere,
perché iniziò ad indossare un rude abito a toppe
anche nei giorni festivi. Questo gesto, che voleva avere come scopo
l’umiltà, il porsi al servizio, il non avere
niente per sé per essere tutto degli altri, non venne
compreso da tutti. Alcuni frati pensarono che quel comportamento era
“culturalmente vecchio”, non idoneo ad un adeguato
approccio con la realtà contemporanea.
C’era poi un Concilio in atto: già stavano uscendo
i primi decreti di rinnovamento della liturgia e di valorizzazione dei
mezzi di comunicazione sociale, altri erano in arrivo come quello sul
rinnovamento della vita religiosa.
Posto sotto la pressione di questa critica, un giorno
domandò ad un giovane sacerdote, che regolarmente andava a
confessarsi da lui, cosa pensasse del suo abito. Il sacerdote rimase un
po’ pensoso, allora padre Guglielmo gli spiegò che
san Francesco nella sua Regola parla che i frati possono rattoppare
l’abito “con sacco e altre pezze”. Poi
aggiunse che se la moda aveva punte di scandalo e nessuno reagiva, non
vedeva perché lui avrebbe dovuto vergognarsi di portare un
tale abito.
Il giovane sacerdote alla fine non seppe cosa dire e, mediando, disse
che un po’ di ragione ce l’avevano quelli che lo
criticavano. La cosa finì così.
Le Cappuccine erano con padre Guglielmo. Quella, però, che
lo comprendeva del tutto era suor Anna Battiani che gli confezionava
gli abiti con pezze di stoffa più o meno della stessa tinta
marrone, giungendo ad un inconsapevole effetto estetico.
Cominciò a sembrare a diversi frati, che pur lo stimavano e
amavano, non più adatto alla formazione dei novizi. Ma non
era tanto questo il punto su cui si faceva leva, quanto il problema che
la gente di Cesena lo cercava tanto, che in noviziato non ci stava come
avrebbe dovuto, e i novizi, in pratica, erano seguiti dal vicemaestro.
Si creò, dunque, una tale pressione su padre Guglielmo che
lo condusse al gesto dolorosissimo di lasciare, nell’agosto
del 1964, il compito di maestro dei novizi.
Poco prima le suore Cappuccine non lo avevano più richiesto
come confessore ordinario, compito che aveva svolto ininterrottamente
dal 1949.
I superiori vollero, però, che padre Guglielmo rimanesse
accanto ai novizi in qualità di “padre
spirituale”, anche perché venne stabilito che il
noviziato fosse in comune con la Provincia monastica di Parma, che
diede il maestro dei novizi: così il maestro era della
Provincia di Parma, il padre spirituale di quella di Bologna.
Dal noviziato padre Guglielmo dovette trasferirsi in convento.
Sistemò la stanza in questa maniera: il letto divenne un
piano per i libri, per terra le assiciole del giaciglio, un tavolo con
sedia per scrivere. Adibì poi ad oratorio uno sgabuzzino che
aveva una finestra circolare che dava sul presbiterio della chiesa.
La notizia, che padre Guglielmo non era più maestro dei
novizi, giunse nella curia generalizia a Roma e il ministro generale
scrisse, l’8 ottobre 1964, al ministro provinciale di Bologna
con la richiesta di inviare padre Guglielmo a Campobasso, quale
direttore dello studentato. Probabilmente la domanda venne avviata da
padre Clemente da S. Maria in Punta definitore generale, in quanto
esperto delle cose della Provincia di Foggia per esserne stato
commissario e molto vicino a suor Chiara Scalfi, che rimaneva grande
ammiratrice di padre Guglielmo.
La richiesta non ebbe seguito, e padre Guglielmo non ne venne a
conoscenza.
La
pubblicità di padre Pio
Ma
padre Guglielmo non era senza idee. Desiderava dare vita ad un
“luoghetto”, cioè ad un piccolo e povero
ritiro. Ne aveva già fatto un accenno al ministro
provinciale ma, il 26 maggio del 1965, volle porre per iscritto il suo
desiderio.
”Capisco abbastanza bene (ma immensamente poco) che sono un
buono a nulla... che un granellino di superbia potrà
annullare tutto... rendere tutto vano e ridicolo... Senza pensare a
scissioni.., tutto in seno all’ Ordine Cappuccino
com’è avvenuto pei Ritiri degli Osservanti dopo la
nostra riforma cappuccina. Ritiri che hanno dato tanti
santi...”.
Alla fine di luglio del 1965 padre Guglielmo venne
invitato da tre fedeli di Cesena ad andare con loro da padre Pio. Il
sì era scontato.
Quando i quattro giunsero in auto a S. Giovanni Rotondo, si
intrufolarono nel corridoio del convento dal quale doveva passare padre
Pio per scendere in chiesa. Quando lo videro i quattro si misero in
ginocchio per chiedere la benedizione.
Padre Guglielmo si pose una mano sulla testa, sulla “testa
dura” e umilmente gli disse: “Padre, benedica
questa testa... che diventi santa!”.
Padre Pio gli mise dolcemente la mano sulla testa dicendogli:
“Ma questa testa è già
santa!”.
Uno del gruppetto, appena usciti nel piazzale, tradusse tutto
così: “Padre Guglielmo, padre Pio le ha detto che
è santo”. Niente di peggio per
l’interessato, che con forza disse che non era vero, che
padre Pio non aveva inteso dire così e che non si mettessero
in giro voci distorte.
Altro incontro con padre Pio quella volta non ci fu.
In seguito, quando padre Guglielmo parlò di
quell’incontro, disse sempre che padre Pio gli aveva detto:
“Eh, questa testolina...! Ancora non è
santa!”.
La pubblicità gliela fece, però, padre Pio stesso
che, incontrando un gruppo di Cesena e sentendo il discorso ammirato di
una grande simpatizzante dei terziari di Cesena su padre Guglielmo,
disse: “Cosa venite a fare da me, che avete già
padre Guglielmo?”. La cosa corse di bocca in bocca, specie
tra i terziari francescani di Cesena, dei quali dal 1965 padre
Guglielmo divenne assistente, rimanendo in tale ufficio fino al 1973.
La posa della prima pietra del nuovo Monastero delle Cappuccine avvenne
il 15 aprile 1965, ma già i lavori erano avviati da tempo. I
muri del nuovo monastero si ergevano in un’area salubre
abbastanza distante dal cimitero e ai piedi del verde colle dei
Cappuccini. Il vecchio monastero in città era veramente
malsano, da ciò il desiderio di averne uno veramente
salubre.
L’architetto progettò corridoi larghi, buone
stanzette e tanta luce. Padre Guglielmo, che diede
un’occhiata ai disegni, disse che il progetto era buono.
Però la posa della prima pietra la fece padre Clemente da S.
Maria in Punta, che si scurì in volto poiché,
secondo lui, i corridoi e gli spazi erano ampi per un monastero di
stampo francescano. Si adombrò pure il volto del nuovo
assistente della Federazione dei Monasteri delle Cappuccine, padre
Antonio Pastorella.
Chi il colpevole? Padre Guglielmo comprese che doveva saltare fuori un
capro espiatorio, allora si mise in ginocchio davanti ai due dicendo
che la colpa era tutta sua. In tal modo salvava i buoni rapporti dei
due frati con le suore. Il “colpevole”
chiamò il ministro provinciale sul posto per vedere se si
poteva sanare la situazione, ma ormai tutto l’impianto era
fissato dal cemento e rimedi non ce n’erano. Del resto, il
rinnovato convento dei frati non aveva spazi tanto più
piccoli; inoltre il monastero veniva costruito in gran parte con la
carità dei benefattori.
Grande questuante fu padre Guglielmo. Il cemento lo richiese nientemeno
che a Enrico Mattei, in visita al cementificio Anic di Ravenna. Il
cappellano dell’Anic era un confratello cappuccino e quindi
favorì l’incontro, ma quando lo vide tutto una
toppa, gli disse: “Cosa vai a fare vestito
così?”. Tuttavia il “questuante
pezzente” si avvicinò al commendatore, che rimase
subito impressionato dall’umiltà e dalla
dignità del volto di quel frate inusitato che gli chiedeva
del cemento per un monastero di Cappuccine in costruzione.
A Cesena arrivò tanto cemento che la ditta costruttrice ne
utilizzò una parte anche per un altro cantiere.
Arrivarono inoltre per il monastero tanti mattoni che padre Guglielmo
questuò in varie fornaci.
La costruzione procedette velocemente e il 22 dicembre 1966 le suore
entrarono nel nuovo edificio.
Il 10 luglio 1965, festa di 5. Veronica Giuliani, padre Guglielmo
scriveva nuovamente al ministro provinciale avanzando la richiesta di
potersi trasferire in una “guardiola” da costruirsi
all’inizio del viale del nuovo Monastero delle Cappuccine.
Nella lettera parlava del ritiro come di un
“fortino”:
”Io vorrei essere fatto degno dal Signore e
dall’obbedienza del primo fortino, altri e altri del secondo,
del terzo, dell’ennesimo”. Da quei
“fortini” sarebbe partito un incendio di
carità: “Per poi con la carità darci
fuoco per creare un rogo immenso di carità. Altro che
Paradiso Terrestre! Il Padre, per Gesù, nello Spirito
Santo”.
Il disegno di andare ad abitare nella guardiola aveva avuto una sua
elaborazione. Padre Guglielmo sarebbe stato cappellano delle cappuccine
e, in quella posizione, vicino all’ingresso dei cimitero di
Cesena, avrebbe potuto raccogliere la provvidenza della gente per le
suore. Il vescovo di Cesena non aveva obiezioni in materia.
Per il nuovo ministro provinciale, alle prime armi, la cosa fu un
grattacapo serio. Così decise di chiedere un parere al
ministro generale, il quale lo espresse con lettera del 5 dicembre1966.
Per lui la cosa era fattibile in quanto nell’Ordine
c’erano esempi di frati cappellani che vivevano in locali
annessi ai monasteri delle religiose, pur legati ad un determinato
convento; ma alla fine il ministro generale lasciava al provinciale
l’ultima decisione.
Cosa farebbe
oggi San Francesco?
In
occasione della promulgazione del decreto “Perfectae
Caritatis”, avvenuta il 28 ottobre 1965, a Bologna si tenne
un convegno presieduto da don Giuseppe Dossetti sul rinnovamento della
vita religiosa.
Alla fine dell’incontro, padre Guglielmo fece al relatore
questa domanda: “San Francesco attuò il Concilio
Lateranense IV con la sua vocazione tutta conforme al Vangelo e a
Cristo, nella povertà integrale, fino ad escludere
rigorosamente anche il denaro, e nella carità serafica verso
Dio e verso ogni fratello e creatura. I Cappuccini, nel secolo XVI
attuarono il Tridentino riprendendo eroicamente l’ideale di
san Francesco quanto alla lettera e quanto allo spirito. Se San
Francesco tornasse a nascere, come attuerebbe il Vaticano
II?”.
La risposta fu: “Rifarebbe quello che ha fatto; in piccole
fraternità”.
Don Dossetti poi domandò: “Quanti frati siete
nell’Ordine?”.
”16.000”, rispose padre Guglielmo.
”E una macchina troppo grande. E difficile che tutto un
Ordine possa rinnovarsi in blocco, ma è possibile partire da
piccole fraternità”.
Padre Guglielmo si commosse profondamente. Era precisamente quello che
pensava: un rinnovamento a diverse velocità iniziali.
Poco dopo questo incontro, padre Guglielmo ritornò a 5.
Giovanni Rotondo. Questa volta riuscì solo a far pervenire
un biglietto a padre Pio. La domanda era: “Se San Francesco
nascesse oggi, cosa farebbe?”. La risposta fu:
“Rifarebbe quello che ha fatto”.
A padre Guglielmo si presentò di lì a poco
un’altra occasione di andare a S. Giovanni Rotondo. Il
signore che si offrì di accompagnarlo si chiamava
Gigìn, era un comunista della prima ora. Andarono solo loro
due con una proletaria, e anche francescana, cinquecento. La speranza
del frate era che la curiosità di Gigìn per padre
Pio si tramutasse in conversione. E le cose andarono proprio
così.
Questa volta padre Guglielmo ebbe modo di avvicinare padre Pio, al
quale presentò la sua idea di dare vita
nell’Ordine, con il permesso dei superiori, ad un
“luoghetto”, ad una piccola Santa Maria degli
Angeli. Padre Pio mostrò simpatia per quel proposito e
benedì il confratello dicendogli: “Facciamoci
santi insieme”.
Poco dopo, mentre era nel convento, padre Guglielmo fu investito
più volte da un fortissimo odore di acido fenico: era il
segno che lungo il suo cammino avrebbe incontrato croci, che avrebbe
dovuto sempre accettare, anzi, amare.
Il ministro provinciale decise di non assecondare il disegno di padre
Guglielmo circa la “guardiola” e non gli si
può dare torto perché questa sistemazione non
avrebbe dato al frate nessuna ritiratezza.
Quest’ultimo, di fronte alla netta decisione del ministro
provinciale, fu preso dall’incertezza e, nel luglio del 1967,
inviò una lettera a padre Pio tramite Enzo Bertani. In essa
chiedeva un incoraggiamento, una benedizione a proseguire lungo la
strada della costituzione di un “luoghetto”.
La lettera che gli ritornò dopo molto tempo era ancora
chiusa, ma le risposte padre Pio le dava anche senza avere aperto le
lettere. Il messaggio da parte sua era di due parole, riferite
attraverso quattro persone successive: “Va bene”.
Francamente padre Guglielmo non si aspettava che la lettera gli fosse
restituita e per di più intatta e con un messaggio
così breve: c’era da pensare che in
realtà non fosse giunta a padre Pio.
Visto che il ministro provinciale considerava non ben precisato il suo
pensiero, padre Guglielmo, in una lettera del 4 settembre 1967,
così gli scriveva:
“Io non debbo e non voglio pensare, per discutere e
teorizzare, ma voglio chiedere “cogitatione, verbo et
opere” al Signore e ai miei superiori questa grazia di
rivivere alla lettera, come dal Signore sarà dato alla mia
piccolezza, il P.S. Francesco in tutto, ma specialmente riguardo a
danaro, povertà, lavoro (gratis accepistis, gratis date),
carità,.., per la carità universale e perenne
verso tutti i miei fratelli. Questo ideale e questa sintesi
dell’ideale realizzato nella forma completa; a gloria del
Padre, nello Spirito Santo, per Cristo, mediante Maria SS.ma, gli
angeli e santi tutti...».
Nella lettera diceva poi di avere posto l’occhio su di un
“luoghetto” adatto per dar il via al suo ideale di
vita e chiedeva di poter avere con sé un confratello o due.
Il «luoghetto» era un casottino del vecchio
impianto idraulico di Cesena, da 21 anni del tutto inutilizzato, pur
essendo stato preso in affitto dai proprietari del fondo nel quale si
trovava. Il minuscolo fabbricato era a 300 metri dalla chiesa di S.
Giovanni Bono, non lontano dal cimitero. Dunque solitudine, ma con un
confratello o due, per poi uscire per una forte testimonianza tra la
gente, che padre Guglielmo già dava con la sua
carità. La sua austerità non spaventava, non
teneva lontana la gente, perché questa ne percepiva il
frutto: la carità. Molte persone addirittura non hanno
saputo rispondere subito se padre Guglielmo avesse un abito a pezze: le
toppe non apparivano singolari in un uomo fatto così.
La proposta del “capottino” del vecchio acquedotto
era esente dai difetti che presentava la soluzione della guardiola che,
visto il no del ministro provinciale, non venne neppure costruita. Il
problema era trovare un frate o due disposti a tale vita.
Padre Guglielmo pensava in questo momento ad una sensibilizzazione da
parte dei superiori.
Ma la richiesta di una piccola comunità nel minuscolo
edificio fu messa in frigorifero da parte del ministro, che ammirava
sinceramente padre Guglielmo.
Il rinnovamento richiesto dal Concilio non era e non è cosa
facile e comporta un lungo cammino di ascolto dello Spirito da parte
del vertice e, di obbedienza, da parte della base, con tutti i rischi
di fallimento che la condizione umana comporta.
No per
Lagrimone, ma con una proposta
Padre
Guglielmo, all’indomani della “Perfectae
Caritatis” era una piccola voce che si augurava una
sensibilizzazione da parte dei superiori verso quella
radicalità da lui intesa e umilmente vissuta. Inoltre la sua
voce non era sola. Infatti, a Fabriano, nelle Marche, già da
qualche tempo, si era costituita una fraternità di ritorno
effettivo alla radicalità evangelica del carisma francescano
e un’altra simile si era costituita a Napoli.
C’era poi suor Chiara Scalfi che condivideva fino in fondo la
convinzione che san Francesco avrebbe rifatto oggi quanto aveva fatto
ai suoi tempi.
Per questo la religiosa decise, con una parte delle sorelle del
monastero di Ferrara, di dare vita ad una comunità tutta
improntata alla radicalità evangelica delle origini.
Il terreno per la costruzione del monastero suor Chiara lo ebbe in
beneficenza a Lagrimone, un paese collinare a 40 chilo metri da Parma.
Il monastero doveva essere poverissimo: niente luce elettrica, nessun
impianto di riscaldamento, niente telefono, niente televisione ed
esclusione del denaro.
Il cantiere venne aperto nel luglio del 1968.
In una lettera del 15 luglio 1968, padre Guglielmo esponeva il suo
pensiero sull’aggiornamento: “Aggiornamento: si
tratta di adattare la norma pratica a ragionevoli esigenze nuove, ma
non di rilassare lo spirito della regola antica, né di
contraddirne la lettera”.
Proprio in quei giorni, in un dialogo con due o tre giovani frati, egli
aveva detto di non guardare a lui, che aveva trovato la sua strada
rimanendo fermo a forme tradizionali; essi dovevano cercare nuove
forme, purché fossero autentiche.
Padre Guglielmo chiese ai superiori, come già aveva fatto
per le Cappuccine di Cesena, il permesso di poter andare alla questua
di materiale e anche di denaro, per aiutare la costruzione del
monastero.
La questua del denaro per un’opera straordinaria dice che
padre Guglielmo non misconosceva l’uso del denaro come mezzo
necessario per la facilitazione dell’economia: non gli
passava neppure per la mente che essa scendesse ai livelli del baratto.
Chiese poi il permesso di potere stare vicino al cantiere di Lagrimone,
ma il ministro provinciale glielo negò, paventando una sua
presenza permanente colà. Così, il 7 agosto 1968,
il ministro gli scrisse queste righe: “Mentre approvo
pienamente i sentimenti di cui è pervaso, non sono
d’accordo che lei vada a Lagrimone, perché sono
oltremodo convinto che ella debba compiere una missione importante in
Provincia: a Cesena: nel convento, nel noviziato, presso il Clero della
città e tanti fedeli che ricorrono a lei. Tuttavia, di
fronte alle sue reiterate insistenze, nella riunione definitoriale del
5 agosto, abbiamo formulato il seguente proposito: Le chiediamo una
proposta. Ella, cioè, dovrebbe indicarci un luogo e uno o
due compagni disposti a venire con lei, per una testimonianza
più perfetta del Vangelo e noi prenderemo in esame la cosa,
sperando che si possa attuare, se così è la
volontà di Dio, almeno parte di ciò che
è in cima ai suoi santi desideri”.
Padre Guglielmo si mise a pregare fervorosamente affinché il
Signore gli desse uno o due confratelli disposti a condividere il suo
ideale di perfezione evangelica.
Il 23 settembre 1968, alle ore 2,30 della notte, padre Pio da
Pietrelcina morì. Padre Guglielmo trovò subito
un’occasione per raggiungere S. Giovanni Rotondo.
All’una di notte del 26 era già in preghiera
davanti alla salma. Vi passò tutta la notte sempre in
ginocchio e in lacrime, fino alle 8. Poi nel pomeriggio, verso le 15,30
partecipò all’immenso corteo che portò
la bara per le strade del paese. Alle 19 partecipò alla
solenne officiatura sul sagrato della chiesa.
L’11 ottobre 1968, padre Guglielmo scrisse di nuovo al
ministro provinciale presentandogli di nuovo il suo piano di vita e
dicendogli che aveva trovato un confratello disposto a vivere la sua
stessa esperienza.
Era fra Stefano da Putignano. Il “luogo” lo
avrebbero trovato nei pressi di Cesena. I due sarebbero stati alle
dipendenze del guardiano del convento della città. Lui
avrebbe continuato il suo servizio di padre spirituale dei novizi e di
confessore dei fedeli nella chiesa del convento. Precisava poi che
voleva essere estraneo ad ogni aspetto economico.
La proposta fu esaminata, ma non ebbe seguito; molto probabilmente si
considerò che fra Stefano, essendo debole di sistema
nervoso, non avrebbe retto a quella vita.
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