L'altissima povertà

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Un secondo incontro con padre Pio

Ai lavori di ristrutturazione del noviziato seguirono, nel 1960, quelli del convento. Le stanze erano di buone dimensioni, aerate da grandi finestre e anch’esso venne dotato di impianto di termosifone, collegato alla caldaia del noviziato.
I lavori del convento volgevano ormai al termine, quando il nuovo ministro provinciale padre Teodosio Passini andò a visitare i lavori, per poi salire a S. Agata Feltria, distante circa 40 chilometri da Cesena, nel Montefeltro.
Qui lo aspettava un caso umano: il braccio destro di Giuffré, Pino Alessandri, dopo il crac, si era visto minacciato di morte dai creditori e si era rifugiato a S. Agata Feltria. Vi arrivò in una sera di fine settembre del 1958. Andò subito dalle suore Clarisse per informarle dell’accaduto. Le suore, che avevano sottosopra il monastero, per lavori fondati sulle promesse dì Giuffré, si sentirono venire meno. Il signor Alessandri era pallido, sconvolto. Uscì in aperta campagna verso il convento dei cappuccini passando attraverso un’apertura del cantiere. Rimase nascosto nel convento fino al 18 giugno del 1960, quando si trasferì in una casupola in via Case Sparse 137/bis. Trovò poi alloggio in due stanze di fronte al Monastero delle Clarisse, in via Angelo Battelli 15. Lì visse da recluso: lo aiutava solo la signora che abitava al lato opposto della strada.
Pino Alessandri espresse al ministro tutta la sua angoscia con la richiesta di essere accompagnato da un frate da padre Pio, per sentire da lui una parola di rassicurazione sul suo futuro. Il ministro provinciale decise che lo avrebbe accompagnato padre Guglielmo, che disse un sì pieno di gioia, di particolare gioia per ché ricorreva in quell’anno il suo 25° di ordinazione sacerdotale. Ritornare a vedere la celebrazione eucaristica di padre Pio era per lui il più grande dono che il Signore potesse fargli.
I due partirono nell’estate avanzata del 1963. Appena arrivati riuscirono ad avvicinare nella chiesetta padre Pio. Padre Guglielmo gli presentò in poche parole il caso e si abbandonò ad uno sfogo: “Padre...! I frati... la povertà!”.
Padre Pio repentinamente lo zittì: “Sta’ zitto! Non vedi che dai scandalo?”. Poi si rivolse al signor Alessandri dicendogli: “Non vedo che finirai male. Ti andrà bene”.
Era quanto bastava al pover’uomo, che, ritornato a S. Agata Feltria, uscì dalla “prigione” di via Angelo Battelli e acquistò una casa in via del Mattatoio (ora via Mariani) al n 3.
Nel matroneo di destra della nuova chiesa, padre Guglielmo, verso mezzogiorno dello stesso giorno, poté incontrare padre Pio ed esternargli quello che aveva nel cuore.
Gli chiese di accogliere e benedire il suo proposito di vivere l’«altissima povertà» così come suonava negli scritti e nella vita del poverello di Assisi.
Padre Pio rimase un po’ in silenzio, poi gli disse: “Va bene! Ti benedico!”.
Padre Guglielmo parlò ancora con lui nella cappellina del convento, dove, in stato di segregazione, il cappuccino stimmatizzato aveva celebrato la Messa dall’11 giugno 1931 al 16 luglio 1933. In quell’incontro padre Guglielmo rimase impressionato dalla stanchezza e dalla sofferenza di padre Pio, che pur tutto sopportava.
Il padre più che sedersi cadde seduto sul banco dicendo: “Non ne posso più!”.
Padre Guglielmo in quell’occasione si confessò.
In seguito ebbe anche un colloquio con il signor Bertani, economo della casa “Sollievo della sofferenza”, il quale gli riferì che un giorno disse a padre Pìo: “Padre, voi siete tutto per tutti!”. Egli gli rispose, precisando il senso del passo paolino della prima lettera ai Corinti (9,22): “No, figlio mio... Io sono tutto per ognuno”. Questa frase di padre Pio divenne un punto fermo per padre Guglielmo: la sua vita di relazione con i fedeli divenne nuova, francescana. Scoprì intimamente che il donarsi in Cristo a tutti comportava il donarsi a ciascuno e che il donarsi in Cristo a ciascuno portava a donarsi a tutti.
L’«altissima povertà» era slancio per la carità universale. Padre Guglielmo aveva tante volte spiegato questo ai novizi, ma ora, dopo la profonda comunione con padre Pio, ne sperimentava nello Spirito Santo tutta la dolcezza e forza liberante.

Un abito tutto toppe

Il maestro dei novizi di Cesena cominciò a sorprendere, perché iniziò ad indossare un rude abito a toppe anche nei giorni festivi. Questo gesto, che voleva avere come scopo l’umiltà, il porsi al servizio, il non avere niente per sé per essere tutto degli altri, non venne compreso da tutti. Alcuni frati pensarono che quel comportamento era “culturalmente vecchio”, non idoneo ad un adeguato approccio con la realtà contemporanea.
C’era poi un Concilio in atto: già stavano uscendo i primi decreti di rinnovamento della liturgia e di valorizzazione dei mezzi di comunicazione sociale, altri erano in arrivo come quello sul rinnovamento della vita religiosa.
Posto sotto la pressione di questa critica, un giorno domandò ad un giovane sacerdote, che regolarmente andava a confessarsi da lui, cosa pensasse del suo abito. Il sacerdote rimase un po’ pensoso, allora padre Guglielmo gli spiegò che san Francesco nella sua Regola parla che i frati possono rattoppare l’abito “con sacco e altre pezze”. Poi aggiunse che se la moda aveva punte di scandalo e nessuno reagiva, non vedeva perché lui avrebbe dovuto vergognarsi di portare un tale abito.
Il giovane sacerdote alla fine non seppe cosa dire e, mediando, disse che un po’ di ragione ce l’avevano quelli che lo criticavano. La cosa finì così.
Le Cappuccine erano con padre Guglielmo. Quella, però, che lo comprendeva del tutto era suor Anna Battiani che gli confezionava gli abiti con pezze di stoffa più o meno della stessa tinta marrone, giungendo ad un inconsapevole effetto estetico.
Cominciò a sembrare a diversi frati, che pur lo stimavano e amavano, non più adatto alla formazione dei novizi. Ma non era tanto questo il punto su cui si faceva leva, quanto il problema che la gente di Cesena lo cercava tanto, che in noviziato non ci stava come avrebbe dovuto, e i novizi, in pratica, erano seguiti dal vicemaestro.
Si creò, dunque, una tale pressione su padre Guglielmo che lo condusse al gesto dolorosissimo di lasciare, nell’agosto del 1964, il compito di maestro dei novizi.
Poco prima le suore Cappuccine non lo avevano più richiesto come confessore ordinario, compito che aveva svolto ininterrottamente dal 1949.
I superiori vollero, però, che padre Guglielmo rimanesse accanto ai novizi in qualità di “padre spirituale”, anche perché venne stabilito che il noviziato fosse in comune con la Provincia monastica di Parma, che diede il maestro dei novizi: così il maestro era della Provincia di Parma, il padre spirituale di quella di Bologna.
Dal noviziato padre Guglielmo dovette trasferirsi in convento. Sistemò la stanza in questa maniera: il letto divenne un piano per i libri, per terra le assiciole del giaciglio, un tavolo con sedia per scrivere. Adibì poi ad oratorio uno sgabuzzino che aveva una finestra circolare che dava sul presbiterio della chiesa.
La notizia, che padre Guglielmo non era più maestro dei novizi, giunse nella curia generalizia a Roma e il ministro generale scrisse, l’8 ottobre 1964, al ministro provinciale di Bologna con la richiesta di inviare padre Guglielmo a Campobasso, quale direttore dello studentato. Probabilmente la domanda venne avviata da padre Clemente da S. Maria in Punta definitore generale, in quanto esperto delle cose della Provincia di Foggia per esserne stato commissario e molto vicino a suor Chiara Scalfi, che rimaneva grande ammiratrice di padre Guglielmo.
La richiesta non ebbe seguito, e padre Guglielmo non ne venne a conoscenza.

La pubblicità di padre Pio

Ma padre Guglielmo non era senza idee. Desiderava dare vita ad un “luoghetto”, cioè ad un piccolo e povero ritiro. Ne aveva già fatto un accenno al ministro provinciale ma, il 26 maggio del 1965, volle porre per iscritto il suo desiderio.
”Capisco abbastanza bene (ma immensamente poco) che sono un buono a nulla... che un granellino di superbia potrà annullare tutto... rendere tutto vano e ridicolo... Senza pensare a scissioni.., tutto in seno all’ Ordine Cappuccino com’è avvenuto pei Ritiri degli Osservanti dopo la nostra riforma cappuccina. Ritiri che hanno dato tanti santi...”.
Alla fine di luglio del 1965 padre Guglielmo venne invitato da tre fedeli di Cesena ad andare con loro da padre Pio. Il sì era scontato.
Quando i quattro giunsero in auto a S. Giovanni Rotondo, si intrufolarono nel corridoio del convento dal quale doveva passare padre Pio per scendere in chiesa. Quando lo videro i quattro si misero in ginocchio per chiedere la benedizione.
Padre Guglielmo si pose una mano sulla testa, sulla “testa dura” e umilmente gli disse: “Padre, benedica questa testa... che diventi santa!”.
Padre Pio gli mise dolcemente la mano sulla testa dicendogli: “Ma questa testa è già santa!”.
Uno del gruppetto, appena usciti nel piazzale, tradusse tutto così: “Padre Guglielmo, padre Pio le ha detto che è santo”. Niente di peggio per l’interessato, che con forza disse che non era vero, che padre Pio non aveva inteso dire così e che non si mettessero in giro voci distorte.
Altro incontro con padre Pio quella volta non ci fu.
In seguito, quando padre Guglielmo parlò di quell’incontro, disse sempre che padre Pio gli aveva detto: “Eh, questa testolina...! Ancora non è santa!”.
La pubblicità gliela fece, però, padre Pio stesso che, incontrando un gruppo di Cesena e sentendo il discorso ammirato di una grande simpatizzante dei terziari di Cesena su padre Guglielmo, disse: “Cosa venite a fare da me, che avete già padre Guglielmo?”. La cosa corse di bocca in bocca, specie tra i terziari francescani di Cesena, dei quali dal 1965 padre Guglielmo divenne assistente, rimanendo in tale ufficio fino al 1973.
La posa della prima pietra del nuovo Monastero delle Cappuccine avvenne il 15 aprile 1965, ma già i lavori erano avviati da tempo. I muri del nuovo monastero si ergevano in un’area salubre abbastanza distante dal cimitero e ai piedi del verde colle dei Cappuccini. Il vecchio monastero in città era veramente malsano, da ciò il desiderio di averne uno veramente salubre.
L’architetto progettò corridoi larghi, buone stanzette e tanta luce. Padre Guglielmo, che diede un’occhiata ai disegni, disse che il progetto era buono. Però la posa della prima pietra la fece padre Clemente da S. Maria in Punta, che si scurì in volto poiché, secondo lui, i corridoi e gli spazi erano ampi per un monastero di stampo francescano. Si adombrò pure il volto del nuovo assistente della Federazione dei Monasteri delle Cappuccine, padre Antonio Pastorella.
Chi il colpevole? Padre Guglielmo comprese che doveva saltare fuori un capro espiatorio, allora si mise in ginocchio davanti ai due dicendo che la colpa era tutta sua. In tal modo salvava i buoni rapporti dei due frati con le suore. Il “colpevole” chiamò il ministro provinciale sul posto per vedere se si poteva sanare la situazione, ma ormai tutto l’impianto era fissato dal cemento e rimedi non ce n’erano. Del resto, il rinnovato convento dei frati non aveva spazi tanto più piccoli; inoltre il monastero veniva costruito in gran parte con la carità dei benefattori.
Grande questuante fu padre Guglielmo. Il cemento lo richiese nientemeno che a Enrico Mattei, in visita al cementificio Anic di Ravenna. Il cappellano dell’Anic era un confratello cappuccino e quindi favorì l’incontro, ma quando lo vide tutto una toppa, gli disse: “Cosa vai a fare vestito così?”. Tuttavia il “questuante pezzente” si avvicinò al commendatore, che rimase subito impressionato dall’umiltà e dalla dignità del volto di quel frate inusitato che gli chiedeva del cemento per un monastero di Cappuccine in costruzione.
A Cesena arrivò tanto cemento che la ditta costruttrice ne utilizzò una parte anche per un altro cantiere.
Arrivarono inoltre per il monastero tanti mattoni che padre Guglielmo questuò in varie fornaci.
La costruzione procedette velocemente e il 22 dicembre 1966 le suore entrarono nel nuovo edificio.
Il 10 luglio 1965, festa di 5. Veronica Giuliani, padre Guglielmo scriveva nuovamente al ministro provinciale avanzando la richiesta di potersi trasferire in una “guardiola” da costruirsi all’inizio del viale del nuovo Monastero delle Cappuccine.
Nella lettera parlava del ritiro come di un “fortino”:
”Io vorrei essere fatto degno dal Signore e dall’obbedienza del primo fortino, altri e altri del secondo, del terzo, dell’ennesimo”. Da quei “fortini” sarebbe partito un incendio di carità: “Per poi con la carità darci fuoco per creare un rogo immenso di carità. Altro che Paradiso Terrestre! Il Padre, per Gesù, nello Spirito Santo”.
Il disegno di andare ad abitare nella guardiola aveva avuto una sua elaborazione. Padre Guglielmo sarebbe stato cappellano delle cappuccine e, in quella posizione, vicino all’ingresso dei cimitero di Cesena, avrebbe potuto raccogliere la provvidenza della gente per le suore. Il vescovo di Cesena non aveva obiezioni in materia.
Per il nuovo ministro provinciale, alle prime armi, la cosa fu un grattacapo serio. Così decise di chiedere un parere al ministro generale, il quale lo espresse con lettera del 5 dicembre1966.
Per lui la cosa era fattibile in quanto nell’Ordine c’erano esempi di frati cappellani che vivevano in locali annessi ai monasteri delle religiose, pur legati ad un determinato convento; ma alla fine il ministro generale lasciava al provinciale l’ultima decisione.

Cosa farebbe oggi San Francesco?

In occasione della promulgazione del decreto “Perfectae Caritatis”, avvenuta il 28 ottobre 1965, a Bologna si tenne un convegno presieduto da don Giuseppe Dossetti sul rinnovamento della vita religiosa.
Alla fine dell’incontro, padre Guglielmo fece al relatore questa domanda: “San Francesco attuò il Concilio Lateranense IV con la sua vocazione tutta conforme al Vangelo e a Cristo, nella povertà integrale, fino ad escludere rigorosamente anche il denaro, e nella carità serafica verso Dio e verso ogni fratello e creatura. I Cappuccini, nel secolo XVI attuarono il Tridentino riprendendo eroicamente l’ideale di san Francesco quanto alla lettera e quanto allo spirito. Se San Francesco tornasse a nascere, come attuerebbe il Vaticano II?”.
La risposta fu: “Rifarebbe quello che ha fatto; in piccole fraternità”.
Don Dossetti poi domandò: “Quanti frati siete nell’Ordine?”.
”16.000”, rispose padre Guglielmo.
”E una macchina troppo grande. E difficile che tutto un Ordine possa rinnovarsi in blocco, ma è possibile partire da piccole fraternità”.
Padre Guglielmo si commosse profondamente. Era precisamente quello che pensava: un rinnovamento a diverse velocità iniziali.
Poco dopo questo incontro, padre Guglielmo ritornò a 5. Giovanni Rotondo. Questa volta riuscì solo a far pervenire un biglietto a padre Pio. La domanda era: “Se San Francesco nascesse oggi, cosa farebbe?”. La risposta fu: “Rifarebbe quello che ha fatto”.
A padre Guglielmo si presentò di lì a poco un’altra occasione di andare a S. Giovanni Rotondo. Il signore che si offrì di accompagnarlo si chiamava Gigìn, era un comunista della prima ora. Andarono solo loro due con una proletaria, e anche francescana, cinquecento. La speranza del frate era che la curiosità di Gigìn per padre Pio si tramutasse in conversione. E le cose andarono proprio così.
Questa volta padre Guglielmo ebbe modo di avvicinare padre Pio, al quale presentò la sua idea di dare vita nell’Ordine, con il permesso dei superiori, ad un “luoghetto”, ad una piccola Santa Maria degli Angeli. Padre Pio mostrò simpatia per quel proposito e benedì il confratello dicendogli: “Facciamoci santi insieme”.
Poco dopo, mentre era nel convento, padre Guglielmo fu investito più volte da un fortissimo odore di acido fenico: era il segno che lungo il suo cammino avrebbe incontrato croci, che avrebbe dovuto sempre accettare, anzi, amare.
Il ministro provinciale decise di non assecondare il disegno di padre Guglielmo circa la “guardiola” e non gli si può dare torto perché questa sistemazione non avrebbe dato al frate nessuna ritiratezza.
Quest’ultimo, di fronte alla netta decisione del ministro provinciale, fu preso dall’incertezza e, nel luglio del 1967, inviò una lettera a padre Pio tramite Enzo Bertani. In essa chiedeva un incoraggiamento, una benedizione a proseguire lungo la strada della costituzione di un “luoghetto”.
La lettera che gli ritornò dopo molto tempo era ancora chiusa, ma le risposte padre Pio le dava anche senza avere aperto le lettere. Il messaggio da parte sua era di due parole, riferite attraverso quattro persone successive: “Va bene”.
Francamente padre Guglielmo non si aspettava che la lettera gli fosse restituita e per di più intatta e con un messaggio così breve: c’era da pensare che in realtà non fosse giunta a padre Pio.
Visto che il ministro provinciale considerava non ben precisato il suo pensiero, padre Guglielmo, in una lettera del 4 settembre 1967, così gli scriveva:
“Io non debbo e non voglio pensare, per discutere e teorizzare, ma voglio chiedere “cogitatione, verbo et opere” al Signore e ai miei superiori questa grazia di rivivere alla lettera, come dal Signore sarà dato alla mia piccolezza, il P.S. Francesco in tutto, ma specialmente riguardo a danaro, povertà, lavoro (gratis accepistis, gratis date), carità,.., per la carità universale e perenne verso tutti i miei fratelli. Questo ideale e questa sintesi dell’ideale realizzato nella forma completa; a gloria del Padre, nello Spirito Santo, per Cristo, mediante Maria SS.ma, gli angeli e santi tutti...».
Nella lettera diceva poi di avere posto l’occhio su di un “luoghetto” adatto per dar il via al suo ideale di vita e chiedeva di poter avere con sé un confratello o due.
Il «luoghetto» era un casottino del vecchio impianto idraulico di Cesena, da 21 anni del tutto inutilizzato, pur essendo stato preso in affitto dai proprietari del fondo nel quale si trovava. Il minuscolo fabbricato era a 300 metri dalla chiesa di S. Giovanni Bono, non lontano dal cimitero. Dunque solitudine, ma con un confratello o due, per poi uscire per una forte testimonianza tra la gente, che padre Guglielmo già dava con la sua carità. La sua austerità non spaventava, non teneva lontana la gente, perché questa ne percepiva il frutto: la carità. Molte persone addirittura non hanno saputo rispondere subito se padre Guglielmo avesse un abito a pezze: le toppe non apparivano singolari in un uomo fatto così.
La proposta del “capottino” del vecchio acquedotto era esente dai difetti che presentava la soluzione della guardiola che, visto il no del ministro provinciale, non venne neppure costruita. Il problema era trovare un frate o due disposti a tale vita.
Padre Guglielmo pensava in questo momento ad una sensibilizzazione da parte dei superiori.
Ma la richiesta di una piccola comunità nel minuscolo edificio fu messa in frigorifero da parte del ministro, che ammirava sinceramente padre Guglielmo.
Il rinnovamento richiesto dal Concilio non era e non è cosa facile e comporta un lungo cammino di ascolto dello Spirito da parte del vertice e, di obbedienza, da parte della base, con tutti i rischi di fallimento che la condizione umana comporta.

No per Lagrimone, ma con una proposta

Padre Guglielmo, all’indomani della “Perfectae Caritatis” era una piccola voce che si augurava una sensibilizzazione da parte dei superiori verso quella radicalità da lui intesa e umilmente vissuta. Inoltre la sua voce non era sola. Infatti, a Fabriano, nelle Marche, già da qualche tempo, si era costituita una fraternità di ritorno effettivo alla radicalità evangelica del carisma francescano e un’altra simile si era costituita a Napoli.
C’era poi suor Chiara Scalfi che condivideva fino in fondo la convinzione che san Francesco avrebbe rifatto oggi quanto aveva fatto ai suoi tempi.
Per questo la religiosa decise, con una parte delle sorelle del monastero di Ferrara, di dare vita ad una comunità tutta improntata alla radicalità evangelica delle origini.
Il terreno per la costruzione del monastero suor Chiara lo ebbe in beneficenza a Lagrimone, un paese collinare a 40 chilo metri da Parma. Il monastero doveva essere poverissimo: niente luce elettrica, nessun impianto di riscaldamento, niente telefono, niente televisione ed esclusione del denaro.
Il cantiere venne aperto nel luglio del 1968.
In una lettera del 15 luglio 1968, padre Guglielmo esponeva il suo pensiero sull’aggiornamento: “Aggiornamento: si tratta di adattare la norma pratica a ragionevoli esigenze nuove, ma non di rilassare lo spirito della regola antica, né di contraddirne la lettera”.
Proprio in quei giorni, in un dialogo con due o tre giovani frati, egli aveva detto di non guardare a lui, che aveva trovato la sua strada rimanendo fermo a forme tradizionali; essi dovevano cercare nuove forme, purché fossero autentiche.
Padre Guglielmo chiese ai superiori, come già aveva fatto per le Cappuccine di Cesena, il permesso di poter andare alla questua di materiale e anche di denaro, per aiutare la costruzione del monastero.
La questua del denaro per un’opera straordinaria dice che padre Guglielmo non misconosceva l’uso del denaro come mezzo necessario per la facilitazione dell’economia: non gli passava neppure per la mente che essa scendesse ai livelli del baratto.
Chiese poi il permesso di potere stare vicino al cantiere di Lagrimone, ma il ministro provinciale glielo negò, paventando una sua presenza permanente colà. Così, il 7 agosto 1968, il ministro gli scrisse queste righe: “Mentre approvo pienamente i sentimenti di cui è pervaso, non sono d’accordo che lei vada a Lagrimone, perché sono oltremodo convinto che ella debba compiere una missione importante in Provincia: a Cesena: nel convento, nel noviziato, presso il Clero della città e tanti fedeli che ricorrono a lei. Tuttavia, di fronte alle sue reiterate insistenze, nella riunione definitoriale del 5 agosto, abbiamo formulato il seguente proposito: Le chiediamo una proposta. Ella, cioè, dovrebbe indicarci un luogo e uno o due compagni disposti a venire con lei, per una testimonianza più perfetta del Vangelo e noi prenderemo in esame la cosa, sperando che si possa attuare, se così è la volontà di Dio, almeno parte di ciò che è in cima ai suoi santi desideri”.
Padre Guglielmo si mise a pregare fervorosamente affinché il Signore gli desse uno o due confratelli disposti a condividere il suo ideale di perfezione evangelica.
Il 23 settembre 1968, alle ore 2,30 della notte, padre Pio da Pietrelcina morì. Padre Guglielmo trovò subito un’occasione per raggiungere S. Giovanni Rotondo. All’una di notte del 26 era già in preghiera davanti alla salma. Vi passò tutta la notte sempre in ginocchio e in lacrime, fino alle 8. Poi nel pomeriggio, verso le 15,30 partecipò all’immenso corteo che portò la bara per le strade del paese. Alle 19 partecipò alla solenne officiatura sul sagrato della chiesa.
L’11 ottobre 1968, padre Guglielmo scrisse di nuovo al ministro provinciale presentandogli di nuovo il suo piano di vita e dicendogli che aveva trovato un confratello disposto a vivere la sua stessa esperienza.
Era fra Stefano da Putignano. Il “luogo” lo avrebbero trovato nei pressi di Cesena. I due sarebbero stati alle dipendenze del guardiano del convento della città. Lui avrebbe continuato il suo servizio di padre spirituale dei novizi e di confessore dei fedeli nella chiesa del convento. Precisava poi che voleva essere estraneo ad ogni aspetto economico.
La proposta fu esaminata, ma non ebbe seguito; molto probabilmente si considerò che fra Stefano, essendo debole di sistema nervoso, non avrebbe retto a quella vita.