|
Nei secoli, pittori e scultori si sono esercitati a rappresentare san Francesco secondo quello che la loro sensibilità e immaginazione suggerivano. Anche noi inevitabilmente ce lo raffiguriamo, ma con l'aiuto del ritratto presente nella “Vita prima” di Tommaso da Celano; ritratto che è la guida indispensabile per la valutazione di due affreschi ritraenti il santo: uno contemporaneo al santo, quello allo Speco di Subiaco, l'altro di Cimabue, eseguito, qualche decennio dopo la morte del santo, nella Basilica inferiore di Assisi.
Il Messale Serafico, nella liturgia eucaristica per la solennità del serafico padre S. Francesco (4 ottobre) presenta l'applicazione a san Francesco del passo (50,1.3-7) del Siracide, dandoci così un'immagine gloriosa di san Francesco:
“Ecco chi nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario (...). Com'era stupendo quando si aggirava fra il popolo, quando usciva dal santuario dietro il velo.
Come astro mattutino fra le nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante, così egli rifulse nel tempio di Dio”.
Immediato è vedere la missione di Francesco ricevuta nella chiesetta di S. Damiano. “Francesco, va e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina” (FF 1038). Pure immediato il riferimento a san Francesco insignito delle sacre stimmate, che lo rese allo sguardo della fede dei fedeli “come astro mattutino fra le nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come sole sfolgorante”, e ciò “nel tempio di Dio”, cioè nell'intensissima comunione con la Chiesa.
Ma com'erano le sembianze di san Francesco? Quanto alto? Come il suo volto? Come la sua voce?
Tommaso da Celano nella sua prima biografia, scritta tra il 1228 e il 1229, ci dà, al capitolo 29 (FF 465), un ritratto di san Francesco, estremamente prezioso. Il Celano entrò nell'Ordine nel 1214/15 e quindi ebbe l'opportunità di vedere Francesco, ma non stette molto con san Francesco. Certamente poté vederlo bene nel capitolo delle stuoie del 1217 (5 maggio). Lo rivide ancora nel capitolo del 1221, dove si offrì per andare in Germania.
Che fosse ad Assisi al momento della morte di Francesco non è probabile. Fu indubbiamente presente ad Assisi il 16 luglio 1228 quando Gregorio IX canonizzò san Francesco. In quell'occasione ricevette dal Pontefice l'incarico di redigere la biografia ufficiale di san Francesco.
Tommaso da Celano trae dalla sua memoria le sembianze di Francesco.
("Vita Prima", cap. 29): “Statura mediocris parvitati vicinior, caput mediocre ac rotundum, facies utcumque oblonga et protensa, frons plana et parva, mediocres oculi, nigri et simplices, fusci capilli, supercilia recta, nasus aequalis, subtilis et rectus, aures erectae sed parvae, tempora plana, lingua placabilis, ignea et acuta, vox vehemens, dulcis, clara atque sonora, dentes coniuncti, aequales et albi, modica labia atque subtilia, barba nigra, pilis non plene respersa, collum subtile, humeri recti, brevia brachia, tenues manus, digiti longi, ungues producti, crura subtilia, parvuli pedes, tenuis cutis, caro paucissima, aspera vestis, somnus brevissimus, manus largissima”.
Tenendo presente che “mediocris” è parola latina che vuol dire “di grandezza media”:
medius (medio); ocris (rilievo del terreno). La traduzione che propongo, cercando di interpretare i termini del Celano, è questa:
“Di media statura, quasi piccolo, testa con conformazione rotonda, non grande, volto un po' ovale e proteso, fronte piana, non larga (Ndr. In sintonia con il volto proteso, quindi il Celano non indica fronte bassa), occhi di grandezza media, neri e sereni, capelli scuri, sopracciglia rettilinee, naso proporzionato, sottile e rettilineo, orecchie erette, ma piccole, tempie piane (Ndr. Ciò concorda con la fronte non bassa), parola mite, ardente e penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti ben allineati, regolari e bianchi, labbra sottili, barba nera e rada, collo sottile, spalle dritte, braccia deboli, mani scarne, dita lunghe, unghie allungate, gambe esili, pelle delicata, magrissimo, veste rozza, sonno brevissimo, mano generosissima”.
La statura di san Francesco
Il Celano nella “Vita Secunda” (1246 - 1247) (FF 603), descrivendo la visione avuta da Innocenzo III su san Francesco che puntellava la Basilica del Laterano, presenta il santo “piccolo e spregevole”; “spregevole” nel senso di vestito di abito poverissimo. Ciò lo si ritrova nella “Leggenda dei tre compagni” (FF 1460), che nella stessa visione presenta san Francesco “piccolo e di aspetto meschino”;
meschino per il suo saio di panno rozzo e probabilmente con toppe.
Durante la ricognizione dell'urna funeraria nel 1978 si effettuò la misurazione dell'omero destro, rinvenuto intatto (cm. 27,9), e del femore destro, pure intatto (cm. 40,2). Partendo da queste due misurazioni e usando dei parametri osteometrici si è dedotto un'altezza pari a 1,58 m. Un risultato di probabilità, in una gamma ristretta.
Questo dato può essere messo a confronto con le misurazioni del saio di san Francesco conservato alla Verna, detto delle stimmate, e di quello conservato nella Basilica di Assisi.
br> IIl saio conservato a Cortona nella chiesa di S. Francesco non apparteneva al poverello di Assisi, non essendo le sue proporzioni. Tale saio, esaminato con sofisticati metodi di rilevamento del carbonio C14 e C12, risulta contemporaneo al tempo in cui visse san Francesco. Il saio conservato nella chiesa di Santa Croce a Firenze, sottoposto ai medesimi esami, è stato datato ad un'età posteriore a quella di san Francesco, anche se non di molto, e quindi non fu indossato dal santo.
Il saio delle stimmate venne valutato da Ciro Cannarozzi, nel 1924, con un'altezza di 1,25 m. (em>Storia dell'abito col quale san Francesco ricevette le Sacre Stimmate, in “Studi Francescani" -
già La Verna -, gennaio-marzo 1924): "La lunghezza di questo abito dall'apertura superiore del collo al margine inferiore dei piedi e di m. 1,25””. Questo dato è frutto probabilmente di un errore di stampa, poiché l'altezza del saio risulta in realtà maggiore di 10 cm. Si deve tenere poi conto che il bordo inferiore è stato oggetto di tagli per ottenere reliquie, per cui si possono aggiungere 3/4 cm., nel quali era compreso l'orlo finale.
Con ciò si arriva ad una altezza di 1,38/1,39 m.
A questa misura va aggiunta la distanza tra l'orlo e la pianta del piede, stimabile in circa 15/20 cm. Il risultato è di circa 1,54/59 m, e corrisponde alla stima osteometrica di 1,58 m.
Lo stesso computo si può fare per il saio della Basilica di Assisi, che misura 1,35 m. di altezza, ma doveva essere di più, avendo il bordo inferiore tagliuzzato per ottenere reliquie.
Mediando questi dati si può dire che san Francesco aveva un'altezza di 1,59/62 m.; leggermente inferiore alla media di allora che si aggirava per un uomo su 1,65/66 m.
Il volto di san Francesco: risposta difficile
San Francesco non era precisamente bello. (FF 1838;
Fioretti di san Francesco): “tu non sei bello uomo del corpo”.
Il Celano dice “facies utcumque oblonga et protensa”, cioè non rotonda, ma “oblonga et protensa”, cioè un ovale leggermente allungato. Il volto doveva essere incavato nelle guance magre. Circa la fronte, “plana et parva”, verrebbe da dire che il Celano intenda una fronte bassa,
ma ciò è in contrasto con la “facies utcumque oblonga”, per cui non va affatto intesa bassa. Ciò è confermato dall'esame delle fotografie scattate nella ricognizione del marzo 1978.
Il Celano ci dà così delle indicazioni preziosissime sul volto di san Francesco, anche se noi avremmo voluto di più.
Il naso di Francesco era regolare, non grosso “subtilis” e non adunco o all'insù, ma “rectus”.
I capelli erano “fusci”, cioè scuri. Per la barba il Celano usa il termine “nigra” indicando pure che non era densa: “pilis non plene respersa”. Gli occhi li presenta altamente espressivi dell'animo di Francesco e li dice “nigri”, cioè di color nero.
I capelli sono “fusci”, la barba è “nigra”. Probabilmente il Celano descrive capelli leggermente brizzolati, mentre la barba non lo è ancora.
Oltre la descrizione di Tommaso da Celano, come documento si ha un affresco presso lo Speco di Subiaco, composto in relazione al soggiorno di san Francesco nel 1228/29. San Francesco è ritratto prima di aver ricevuto le stimmate. L'affresco esprime la devozione di un fedele per il santo.
Gli elementi dell'affresco che collimano con i dati della descrizione del Celano sono il naso “subtilis et rectus”. Le sopracciglia rettilinee: “recta”. Il volto allungato, ma non proprio ovale.
Non collima con la descrizione del Celano il colore degli occhi. Il Celano parla di occhi “nigri”, l'affresco dello Speco di Subiaco li presenta castani. Il Celano presenta i capelli e la barba scuri, neri, mentre l'affresco dello Speco di Subiaco li presenta castani.
La statura posta dall'affresco di Subiaco è del tutto eccessiva, e si spiega in quanto funzionale all'impianto che riporta ai piedi del santo, in piccolo, il devoto committente.
Dobbiamo scegliere per il colore dei capelli e della barba la descrizione del Celano, testimone oculare.
Abbiamo un ritratto di Francesco del 1255, quale primo documento delle stimmate, presente nel Museo della Porziuncola. il ritratto è dipinto sull’asse del giaciglio di Francesco.
Il ritratto corrisponde con la descrizione del Celano quanto all’ovale del volto, al naso lungo e sottile, alle orecchie piccole. Non si hanno le
supercilia recta. Manca soprattutto la caro paucissima. L’abito non corrisponde affatto a
aspera vestis. E’ un Francesco ieratico, non espressivo, pienamente sottoposto alle capacità artistiche dell’ignoto pittore.
Un altro ritratto è dato dall’affresco di Cimabue (Cenni di Pepo: 1240-1302), nella Basilica inferiore di Assisi, datato al 1290.
L'affresco di Cimabue non dipende dalla descrizione del Celano, ma dalla trasmissione orale in quanto “Il Capitolo Generale dei Frati Minori” svoltosi a Parigi nel 1266, ordinò che fossero distrutte tutte le biografie su san Francesco antecedenti alla “Legenda Maior”, compilata nel 1963 da san Bonaventura, e che diventò quella ufficiale dell'Ordine. Inoltre, solo la prima vita del Celano presenta la descrizione delle sembianze di san Francesco.
Questa “Vita Prima” non venne accettata dall'Ordine nel Capitolo di Genova del 1244, perché troppo circoscritta ai “signa et prodigia”, per cui il Celano ne redasse una seconda intesa ad integrare la prima (1248/50), più attenta ai fatti e alle parole dette da san Francesco. Anche questa seconda biografia fu soggetta all'ordine di distruzione.
L'affresco di Cimabue raccoglie così la tradizione orale presente ad Assisi. Il pittore non ci presenta il volto di san Francesco dai tratti regolari e ciò corrisponde al fatto che Francesco non era bello di aspetto, ma va sempre tenuto presente che in quel volto traluceva la bellezza spirituale dell'anima di Francesco. L'affresco non è incompatibile con la descrizione del Celano, ma per gli occhi si ha chiaramente il castano molto scuro e per i capelli e la barba si ha il castano scuro. Volendo dare una spiegazione di quest'ultima divergenza si può dire che il Celano volle sottolineare che i capelli di Francesco erano leggermente brizzolati “fusci”, mentre la barba non lo era.
Da tutto ciò si conclude che il ritratto di Cimabue è il più vicino alla descrizione del Celano, e perciò è quello adottato come riferimento. Si nota soprattutto il volto ovale, scarno, quasi triangolare, il naso sottile e lungo, l’aspetto generale umile. Tuttavia è immediato notare che le orecchie sono grandi, al contrario della descrizione del Celano, e le irregolarità del volto appaiono veramente eccessive a confronto del volto di Subiaco e del Museo della Porziuncola, e anche del Celano, che non ne parla; certo dettate all’interpretazione del pittore dalla memoria comune che Francesco non era fisicamente bello (FF 1838).
Le tonache di san Francesco
La tonaca conservata nel museo della Basilica inferiore di Assisi, e quella dell'Eremo de La Verna, ci dicono come era il saio di san Francesco.
Entrambe le vesti presentano un taglio sartoriale molto diverso da quello attuale dei frati di Francesco, dato che bisognava utilizzare una pezzatura alta circa 60 cm. ottenuta al telaio, con lunghezza tuttavia di vari metri. Bisognava, quindi, utilizzare la pezzatura di 60 cm., componendo tra di loro i vari pezzi tagliati in modo che risultasse la forma a campana. C'erano dunque due teli centrali (anteriore e posteriore) e degli inserti laterali. A ciò andavano aggiunti i tagli delle maniche e del cappuccio. Il filato del saio delle stimmate è di lana attorcigliata con fili di colore marrone bruciato e di fili biancastri, dando cosi il colore
bigello, cioè grigio. Il tessuto del saio risulta fatto con un telaio a mano, molto semplice se non addirittura primitivo. Il cappuccio allo stato attuale non risulta raccordabile con il saio a causa dai
tagli per reliquie, ma sicuramente doveva avere una parte più abbondante di raccordo con il giro del collo. Il saio delle stimmate non ha rattoppi, ma ha segni di uso a livello della corda di cintura, che ha usurato il tessuto. L'altezza al livello del punto alto del collo è di 1,35 m., ma tale misura è priva di una parte sottratta dai tagli per reliquie. La circonferenza alla base è di circa 2,36 m., ma si deve ritenere leggermente maggiore per i tagli del bordo inferiore del saio.
Il saio conservato nel museo della Basilica inferiore di Assisi ha lo stesso impianto di quello de La Verna, ma è caratterizzato dalla presenza di molte toppe, alcune delle quali dello stesso tessuto del mantello di santa Chiara. Questo particolare porta a pensare che l'abito venne confezionato o riparato dalle suore. Il tessuto è composto di fili di lana marrone scuro e beige e da fili biancastri. Il risultato è il colore bigello. L'altezza è di 1,35 m., ma mutilata dai tagli per le reliquie. La circonferenza alla base è di circa 2,00 m.
Le sei ali del serafino
San Francesco non raccontò che a pochi l'evento della sua stimmatizzazione, e indubbiamente con parche parole. Prima che il Celano la fissasse per scritto nella “Vita Prima” (FF 484), come pure san Bonaventura -
Legenda Maior” -, la notizia passò di bocca in bocca con la conseguenza che qualche dato non giunse all'orecchio di uno, mentre ad un altro giunse. Questo fatto è evidente circa le ali del serafino. Il Celano parla di sei ali, ma non dice che erano luminosissime, infuocate, come invece riferisce san Bonaventura (FF 1225). La notizia delle ali piene di luce, infuocate, la ritroviamo nei Fioretti, che aggiungono che tutto il monte ne risultò illuminato. I Fioretti ci dicono pure che il fenomeno della luce si prolungò per lo spazio di “una ora e più”, aggiungendo che l'evento avvenne al primissimo schiarire del cielo, verso l'alba, visto che alcuni mercanti che andavano in Romagna, credendo che fosse l'alba si misero in viaggio, e cessando la luce soprannaturale videro levarsi il sole (FF 1919-1920).
Rimane difficile armonizzare l'aspetto di serafino della figura che scendeva dal cielo, con la presenza in esso del Cristo crocifisso.
Il Celano parla di “un uomo in forma di serafino, con le ali, librato sopra di lui, con le mani distese ed i piedi uniti, confitto ad una croce. Due ali si prolungavano sopra il capo, due si dispiegavano per volare e due coprivano tutto il corpo” (FF 484). Il Celano lascia aperta la porta al pensiero che il Cristo crocifisso avesse lui stesso ali di serafino, ma tuttavia non formalizza minimamente la cosa.
San Bonaventura distingue tra il serafino e il Crocifisso, migliorando la descrizione del Celano, poiché dice: “Vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell'aria, giunse vicino all'uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l'effige di un uomo crocifisso” (FF 1225). San Bonaventura vede il serafino come il mezzo con quale il Crocifisso, scende dal cielo, ma san Bonaventura non si spinge troppo oltre il Celano, poiché ripete che le due ali in alto non coprivano il volto, ma solo erano sopra il capo, cioè puntate in alto dietro il capo (si noti che queste due ali così descritte non hanno nessuna funzione), mentre le ali in basso coprivano
“tutto il corpo”. “La Leggenda dei tre Compagni” (FF 1483) dice invece che le due ali in alto velavano il capo: “Con
due ali velava il capo, due scendevano a coprire il corpo (si noti:
non tutto il corpo), due si tendevano al volto”. (Le due ali che si tendevano al volto sono quelle del volo: si distendevano e chiudevano). Questa descrizione è convincente, perché in armonia con l'immagine dei serafini in Isaia (6,2).
L'apparizione di Cristo crocifisso avviene all'aprirsi delle quattro ali. La luce emanata dalle ali ha come sorgente il Cristo crocifisso.
Rimane da vedere la relazione tra il serafino e il Crocifisso. San Bonaventura ci presenta questa relazione (FF 1225): “Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l'infermità della passione non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino. Ma da qui comprese, finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva mostrato al suo sguardo quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l'amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma mediante l'incendio dello spirito”.
“I Fioretti di san Francesco”, circa le ali, seguono la descrizione di san Bonaventura (FF 1919): “vide venire dal cielo uno serafino con sei ali risplendenti e affocate; il quale serafino con veloce volare appressandosi a santo Francesco, sì ch'egli il potea discernere, e' conobbe che avea in sé l'immagine d'uomo crocifisso, e le sue ali erano così disposte, che due alie si distendeano sopra il capo, due se ne distendeano a volare e l'altre due sì copriano tutto il corpo”. Partendo da questo dato i Fioretti seguono poi san Bonaventura nel dare una spiegazione circa la presenza delle sembianze di un serafino. (FF 1919-1920): “Appresso si maravigliava molto di così istupenda e disusata visione, sapendo bene che infermità della passione non si confà colla immortalità dello spirito serafico. E istando in questa ammirazione, gli fu rivelato da colui che gli apparia, che per divina provvidenza quella visione gli era mostrata in cotale forma, acciò ch'egli intendesse che, non per martirio corporale, ma per incendio mentale egli doveva essere tutto trasformato in ella espressa similitudine di Cristo”.
La raffigurazione del serafino con le sei ali è funzionale alla discesa dal cielo dell'apparizione, ma il suo senso spirituale è quello di immettere san Francesco negli ardori dell'amore serafico, ai quali conduce la conformazione a Cristo crocifisso.
I segni delle stimmate
Il Celano nella sua “Vita Prima” ci dice (FF 485): “Ecco: nelle sue mani e nei piedi cominciarono a comparire gli stessi segni dei chiodi che aveva appena visto in quel misterioso uomo crocifisso. Le sue mani e i suoi piedi apparvero trafitti nel centro da chiodi, le cui teste erano visibili nel palmo delle mani e sul dorso dei piedi, mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Quei segni erano rotondi dalla parte interna delle mani, e allungati all'esterno, e formavano quasi una escrescenza carnosa, come fosse punta di chiodi ripiegata e ribattuta. Così pure nei piedi erano impressi i segni dei chiodi sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro era trafitto come da un colpo di lancia, con ampia cicatrice (cicatrice obtunda), e spesso sanguinava, bagnando di quel sacro sangue la tonaca e le mutande”.
San Bonaventura nella “Legenda Maior” dice (FF 1226): “Scomparendo, la visione gli lasciò nel cuore un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne. Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell'immagine dell'uomo crocifisso. Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai chiodi (...). Il fianco destro era come trapassato da una lancia e coperto da una cicatrice rossa, che spesso emanava sacro sangue, imbevendo la tonaca e le mutande”.
La descrizione delle stimmate è precisa, ma ci si domanda se le neoformazioni dei chiodi apparirono dopo che Francesco ebbe trapassate mani, piedi e costato. La ferita al costato conduce a dare risposta positiva a questa domanda. La ferita al costato appare certamente come un colpo di lancia, una ferita che a volte sanguinava. Il Celano e Bonaventura parlano di cicatrice, ma non si tratta di cicatrice nel senso di segno di ferita cicatrizzata, poiché cicatrice ed emissione di sangue sono realtà incompatibili. Con ciò anche le mani e i piedi dovettero essere in primis trafitti da raggi di fuoco; poi seguì la formazione dei chiodi. Quel “cominciarono a comparire” del Celano e quel “incominciarono ad apparire” di san Bonaventura, indica non un'azione repentina segnata dal dolore, come ci si aspetterebbe, ma la formazione permanente dei chiodi come segno dell'incontro di Francesco con il Crocifisso. I due autori, come pure la Leggenda dei tre compagni e i Fioretti, non parlano di dolore provato da Francesco; ma il dolore è essenziale nella partecipazione alla passione di Cristo mediante la stimmatizzazione, per cui dobbiamo aggiungere questo tassello mancante e importante alla stimmatizzazione di san Francesco. Questo tassello è testimoniato dall'affresco di Giotto sulla stimmatizzazione di san Francesco nella Basilica superiore di Assisi (1290 - 1295) e da quello di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore (1310 - 1320).
Il corpo di Francesco dopo la morte
Diverse fonti garantiscono che il corpo di san Francesco dopo la morte conservava le stimmate e non aveva la rigidità cadaverica. Il presentimento che quel corpo non avrebbe conosciuto la naturale decomposizione ebbe conferma quando la salma venne trasportata nella chiesa di S. Giorgio all'interno delle mura di Assisi. La processione del funerale fu imponente per il concorso di frati, di clero, di autorità e di popolo. Presente la milizia di Assisi per dare onoranza al suo straordinario cittadino, nonché per vigilare che non ci fossero approcci alla bara per scardinarla e prelevare reliquie del corpo. Già durante l'agonia di san Francesco alla Porziuncola erano apparsi degli uomini armati, inviati dal Podestà di Assisi, affinché non ci fossero colpi di mano per sottrarre ad Assisi il prezioso tesoro della salma di san Francesco.
Non ci è giunta una cronologia degli eventi, ma ben presto la salma di san Francesco, visto che non conosceva decomposizione assumendo invece un aspetto mummiforme, venne posta dentro un sarcofago di travertino del peso di dodici quintali, che aveva per chiusura una grata di ferro, il che rendeva visibile la salma. La grata di ferro a maglie strette era fissata con dieci montanti ad una grata, a maglie più larghe, posta alla base del sarcofago. L'aspetto fu quello di una gabbia che serrava il sarcofago. La salma era così visibile, e si potevano introdurre piccoli oggetti, quasi che il santo in tal modo venisse a ricordarsi permanentemente di chi li aveva posti. Nella ricognizione del 1818 vennero trovate sparse sul fondo dodici monete lucchesi, cioè coniate a Lucca, ma correnti anche ad Assisi; una di queste è andata perduta. Venne poi trovato un anello di argento non finemente lavorato, ma serrante una cornalina con foggiata sopra la dea Minerva. La fattura di questa cornalina era accurata, di epoca classica. L'anello è andato perduto, ma se ne conserva il disegno.
Vennero trovati anche diciassette grani di legno di ebano e ventinove di ambra, facenti parte, con tutta probabilità, di un vezzo femminile. I grani di ebano hanno dei piccoli fori, probabilmente per l'intarsio di punti d'argento, o altro.
Questa situazione di visibilità venne in seguito interrotta collocando il sarcofago in una cassa di legno con il coperchio chiuso da un lucchetto.
La cassa avvolgente il sarcofago, stando a diversi indizi, venne usata, dopo la canonizzazione di san Francesco (16 luglio 1228), come altare per la celebrazione Eucaristica.
La tomba nella Basilica inferiore, fuori le mura di Assisi
La costruzione della Basilica con annesso Convento venne eseguita dal 1228 al 1230.
Il complesso della Basilica e del sacro Convento venne costruito fuori delle mura di Assisi, in una zona denominata “Collis inferni o inferius”, volgarizzato in “Colle dell'inferno”. Tale denominazione nasce forse dal suo aspetto selvaggio, ma più probabilmente perché più in basso rispetto alla quota della Rocca di Assisi. In quell'area selvaggia erano erette le forche - “Asio de furcis” - per le impiccagioni dei colpevoli di gravi reati. Probabilmente in quell'area c'era la grotta dove Francesco agli inizi del suo cammino spirituale sostava lungamente in preghiera. Poteva anche essere il luogo dove trovavano rifugio i lebbrosi. La scelta di quell'area viene fatta risalire, da una tradizione, al desiderio del santo di essere sepolto nel luogo delle impiccagioni, ma non manca la tradizione che si rifà alla presenza della grotta dove Francesco si rifugiò (FF 1040). Il “Collis inferni” tramutò il nome in “Collis paradisi”.
Quando il 25 maggio 1230, vigilia della Pentecoste, si svolse la traslazione della salma di san Francesco dalla chiesa di S. Giorgio alla Basilica Inferiore era già predisposto lo scavo per accogliere il sarcofago serrato tra due grate di ferro. Chi ebbe l'incarico di occuparsi dei lavori di costruzione del complesso fu frate Elia da Cortona (Elias Bonusbaro - Elia Buonbarone). Frate Elia era stato Vicario dell'Ordine dal 1221 al 1227 e in questo tempo ottenne la stima di Gregorio IX. Verrà eletto Ministro Generale dell'Ordine nel 1232 rimanendovi fino al 1239, quando venne scomunicato da Gregorio IX a causa di una sua adesione a Federico II, colpito da scomunica. Diventò consigliere di Federico II, ritornando poi a Cortona e riconciliandosi con la Chiesa dopo la morte di Federico II. Frate Elia morì a Cortona il 22 aprile 1253. Si dice che frate Elia entrò in contatto con le pratiche alchemiche per mezzo di uomini della corte federiciana, e si dice che scrisse un testo di alchimia, ma gli studiosi ritengono che queste voci, almeno a questi livelli, siano state diffuse da uomini ostili a lui, come Angelo Clareno e Salimbene de Adam.
Al tempo della traslazione delle spoglie di san Francesco nella Basilica, frate Elia era il fiduciario del Pontefice, del Comune di Assisi, e dell'Ordine per la costruzione della Basilica.
La direzione della celebrazione della traslazione era affidata al Ministro Generale dell'Ordine, fra' Giovanni Parenti, unitamente ad altri frati “vicari papali”, tra i quali frate Elia. Moltissimi i frati presenti. Tutti i Ministri Provinciali dell'Ordine, tra i quali sant'Antonio di Padova e il beato Agnello da Pisa che giunse dall'Inghilterra.
Presenti frate Leone, Rufino. Angelo, Masseo, Egidio, Bernardo, Ginepro. Non mancava fra' Giordano da Giano, Giovanni da Pian del Carpine e Tommaso da Celano.
Presenti le autorità di Assisi, il Podestà e il Vescovo. Presente la milizia per onorare il santo e per il mantenimento dell'ordine, nonché per sventare ogni possibile tentativo di sottrazione del sarcofago da parte di armati provenienti da Perugia. Presente una grande moltitudine di popolo, che probabilmente si riprometteva di potere vedere attraverso la grata il corpo di san Francesco prima che fosse tumulato nella Basilica.
Il sarcofago durante la traslazione era contenuto in una cassa di legno posta sopra un carro trainato da alcune paia di buoi. La preghiera, gli squilli di tromba, rendevano attenta e partecipe la folla. Ogni tanto si gridava al miracolo, che in effetti furono parecchi. In questa situazione fu facile che si creasse un clima di fanatismo mistico con spinte per arrivare a toccare la cassa posta sopra il carro, e ciò ancora di più nel momento delle operazioni di deposizione della cassa dal carro per portare il sarcofago all'interno della Basilica. Proprio alla porta della Basilica si scatenò l'assalto alla cassa. Le milizie di Assisi prontamente intervennero; la cassa venne portata all'interno della Basilica e le porte vennero chiuse per evitare l'ingresso della folla.
Un'operazione drastica e repentina che non tenne conto che rimasero fuori dalla Basilica sia il Ministro Generale, sia i frati vicari del Pontefice, nonché il clero presente. La responsabilità dell'accaduto Gregorio IX la accollò al Podestà e al Consiglio del Comune per non avere predisposto meglio le cose e per avere tagliato fuori dalla celebrazione della tumulazione proprio coloro che avevano il diritto di farla, e quindi usurpando il loro ruolo. Fonti posteriori additano in frate Elia la responsabilità maggiore. Infatti, in quella circostanza frate Elia, indubbiamente molto vicino alle autorità comunali, fu riconosciuto dalla milizia di Assisi come la principale autorità, e lui non fece nulla per sottrarsi a questo, mostrando già quel germe che lo porterà più avanti ad orientarsi a favore di Federico II.
Si creò così un incidente diplomatico che toccava i rapporti tra il Vescovo di Assisi e il Podestà, che vanno visti sullo sfondo delle lotte tra le fazioni aderenti ai Guelfi e fazioni aderenti ai Ghibellini, schierati dalla parte dell'imperatore svevo. Il Comune di Assisi era allora guelfo, ma non mancava la realtà ghibellina.
In pratica il Vescovo era stato gravemente scavalcato. Il Pontefice volle spiegazioni dettagliate e così andò a Roma una delegazione di magistrati di Assisi e di frati, tra i quali frate Elia e sant'Antonio di Padova. Tutto non fu senza conseguenze, perché la Basilica Papale venne posta non più sotto la Custodia dei frati, ma sotto la giurisdizione del Vescovo.
Il sarcofago venne calato nello scavo ad incidente concluso. Tanti i frati nel Convento, poiché il giorno dopo, festa di Pentecoste, era previsto l’inizio del Capitolo Generale dell’Ordine.
Dopo aver collocato il sarcofago, la successiva operazione fu quella di calare sulla grata del sarcofago una grande lapide di travertino, che risulta non incastrata nelle pareti, ma stuccata alle pareti con calcestruzzo. A questo punto le pareti laterali della cella della tomba vennero innalzate e vennero poste sopra la lapide tre sbarre di ferro incastrate nel muro, con la funzione di non far poggiare durante i lavori la nuova lastra sulla prima. La nuova lapide questa volta venne incastrata nella muratura. Poi venne posta un'altra lapide su di uno strato di calcestruzzo, e anche questa lapide fu incastrata nella muratura che avanzò in altezza. Poi si costruì una piccola volta per il sostegno della pavimentazione della Basilica. Veramente una tomba fortezza, che garantiva la salvaguardia delle spoglie del santo da ogni incursione malevola.
Negli anni fiorino le leggende circa la salma di san Francesco e ci furono dei tentativi di raggiungere la bara, tentativi che risultano dalla presenza di piccoli e impervi tunnel. Nel 1818 con uno scavo ben studiato venne finalmente raggiunto il sarcofago e ne venne osservato il contenuto. Il corpo di san Francesco dopo tanti secoli non era più nelle condizioni del 1230. L'acqua calcarea della roccia, che penetrò anche dentro il sarcofago, provocò il formarsi di piccole concrezioni e la lenta frammentazione di molte ossa. Gli altri tessuti del corpo del santo vennero ridotti in polvere. Anche le vesti furono ridotte in materiale polverulento. Il sarcofago era, ed è tutt’ora, precisamente sotto l'altare maggiore della Basilica Inferiore, secondo le indicazioni degli antichi documenti.
Attorno alla tomba di san Francesco nel 1823 fu ricavata una piccola cripta. Questa cripta venne ristrutturata tra il marzo e il settembre del 1936.
Bibliografia
Movimento francescano Assisi, “Fonti Francescane”, Tipografia Gamma- Bologna 1977
Ciro Cannarozzi, “Storia dell'abito col quale san Francesco ricevette le Sacre Stimmate”, in “Studi Francescani" (già La Verna), gennaio-marzo 1924.
Isidoro Gatti, “La tomba di S. Francesco nei secoli”, Casa Editrice Francescana, Assisi, 1983.
Nicoletta Baldini e Susanna Conti, “Il saio delle stimmate di san Francesco d'Assisi”, collana “I tesori della Verna”, ed. Centro Di, Firenze, 2010.
|
|
|