La vita di san Ciro secondo san Sofronio e i Bollandisti
 
San Ciro d'Alessandria, martire: una novena di anni a Grottaglie (Ta)

Nove volte ho predicato la novena di S. Ciro a Grottaglie. Nove volte sono una novena che credo non possa che coronarsi con questa scheda documentale sulla vita di san Ciro.

La devozione a san Ciro nella città di Grottaglie venne introdotta da un Grottagliese, san Giuseppe De Geronimo, prima con inviti personali, poi al termine di una grande missione al popolo in maniera ufficiale. Era il 1707 quando il gesuita Giuseppe De Geronimo pronunciò dal pulpito della chiesa madre queste parole: “Miei cari, la mia apostolica missione è terminata, e grazie vivissime rendo all'Altissimo pe' molti e buoni frutti di pietà, che la mercé dell'Onnipotente suo aiuto, ho colto per voi; siane benedetto, e benedetto altresì siane il suo Martire glorioso S. Ciro, della cui fedele e potente mediazione tante e tante volte vi ho tenuto proposito: deh! pel vostro bene, non vogliate dimenticarlo questo illustre campione della fede di Gesù Cristo; abbiatelo sempre nel cuore: ovunque al Signore è piaciuto mandarmi banditore della sua parola, pressoché sempre la stessa devozione ho raccomandato, da voi però, miei concittadini, per lo bene che vi voglio grandissimo, pretendo di più; pretendo che, eleggendovelo a patrono, gli rizziate condegna cappella in questo Duomo medesimo ed io promettovi che giunto a Napoli commetteronne di presente la statua da collocarvi in detta cappella (1).

(1) Rosario Quaranta: “S. Ciro a Grottaglie”, pag. 38.
 
Atti della Passione di S. Ciro e di S. Giovanni martiri alessandrini


Scritti da san Sofronio, vescovo di Gerusalemme
Migne: “Patrologia graeca”, Vol. LXXVII
I primi elementi scritti sulla vita di san Ciro si trovano in tre omelie di san Cirillo d'Alessandria (376-444)  tenute in occasione della traslazione delle ossa da Alessandria a Menouthis. Tali omelie si trovano inserite negli Atti dei santi martiri alessandrini Ciro e Giovanni, scritti dal vescovo san Sofronio.
Le opere di san Sofronio si trovano nei volumi LXXVII e CXIV della Patrologia del Migne.
San Sofronio nacque verso il 550 a Damasco. Nel 578 partì per un lungo viaggio in Egitto. Poi si imbarcò per  l'Italia raggiungendo Roma. Tornò in Egitto raggiungendo poi Gerusalemme dove nel 634 successe a Modesto nella sede patriarcale. Nel 638 assistette alla conquista araba di Gerusalemme da parte del califfo Omar, e poco dopo morì.


Traduzione in lingua corrente degli Atti

Quel Verbo Divino, che è la verità stessa, Cristo Dio, col suo santo Vangelo ci insegna che tutto è possibile a chi crede. E anche Paolo, annunciatore di Apostolica dignità, le cui parole risalgono a Cristo medesimo, ci assicura che la speranza in Cristo non ci farà rimanere confusi.
Intanto io, fondandomi su tali maestri, mi sentii spinto ad uno sforzo superiore al mio ingegno, sì per virtù del nostro Salvatore e Dio Gesù Cristo, (il quale amò infinitamente gli uomini, e dette sé stesso alla morte per noi) come anche per l'aiuto dei Santi, di affidare ad uno scritto, per quanto potuto lo avessi, per profitto di coloro che lo leggeranno, il glorioso cammino dei Beati Ciro e Giovanni sostenuto per Cristo e le loro mirabili gesta; nonché gli innumerevoli miracoli fatti da loro, ossia guarigioni prodigiose, raccontando quei pochi che io stesso, sebbene di molto poco conto rispetto ai mille pubblici testimoni oculari, vidi coi miei occhi, e
(1) per beneficio divino sperimentai a vantaggio della mia salute.
Ciro, chiaro per fama, glorioso per virtù e per nobiltà, fu cittadino di Alessandria, città edificata da Alessandro. I suoi genitori e il suo casato ci sono sconosciuti, ma ci è noto che ricevette il Battesimo, e quindi ebbe per Madre la Chiesa.
Senza dubbio esercitò l’arte medica, e il suo laboratorio è individuabile fino ai nostri giorni, perché cambiato in tempio dedicato ai tre santi Giovani Babilonesi, nel quale abbondano le spirituali medicine dei santi martiri
(2).
1) S. Sofronio ottenne la guarigione da una oftalmia mentre era nel monastero dei santi Ciro e Giovanni a Menouthis, vicino a Canopo. La città di Menoutis è stata recentemente rinvenuta (anno 2000) a 10 metri sotto il Mediterraneo nel golfo di Abukir. Presso la città di Abukir (vuol dire Abba Ciro) si trova il sito archeologico di Canopo (da Kah nub: luogo dell'oro). La città di Canopo sorgeva precisamente accanto al ramo più occidentale del Nilo, che ora è secco e che si chiama “braccio canopico”. Il sito di Canopo si trova a 25 km dal centro della moderna Alessandria.
2)
S. Sofronio afferma che S. Ciro esercitava l'arte medica. Si parla di laboratorio perché a quel tempo la medicina era una stessa cosa con la farmaceutica. Ciro aveva imparato l'arte medica ad Alessandria dove fioriva una grande scuola medica nella quale studiò anche il famoso Claudio Galeno.

Il laboratorio di san Ciro e la chiesa dedicata ai tre santi giovani babilonesi (Dn 3, 13s)
Di passaggio racconto come il laboratorio di S. Ciro venne trasformato in tempio dedicato ai tre santi Giovani Babilonesi, perché che un tale accenno è utile ai lettori.
Fu il vescovo sant'Apollinare un grande amatore della verità (Non certamente quell’Apollinare millantatore che fu vescovo di Laodicea
(1), avendone occupata la sede con un nefando delitto: tutto diverso da questo dunque il primo). Il nostro Apollinare fu infatti patrono della vera fede, fu difensore del cristiano gregge, sollecito custode dei dogmi evangelici, e per divina disposizione fu elevato alla sede patriarcale della città di Alessandria.
Fu di dominio pubblico la notizia che egli ottenne la carica Sacerdotale a seguito di un'indicazione profetica di un anacoreta di santa vita. Apollinare, con certezza, prima di essere Vescovo, visse tra gli anacoreti, stringendo amicizia, per un maggiore impegno ascetico, con un santo anacoreta. Una verace predizione gli disse che gli sarebbe stato dato il sacro governo della Chiesa in Alessandria.
Fatto pertanto Vescovo, e avendo con sé un nipote, figlio di suo fratello, procurò di istruirlo nella sana dottrina, nei sani costumi e nella pietà fin dai primi anni. Ora costui procedendo negli anni e fatto di età virile, di corpo forte e vegeto, per naturale inclinazione cominciò a pregar suo zio, che gli scegliesse una legittima sposa.
Ma l'uomo di Dio, avendo inutilmente presentatogli la via della castità, con saggezza lo liberò dall'agitazione con questo ritrovato pio. Gli disse che aveva deciso di edificare un sacro tempio ai tre Santi Giovanetti di Babilonia, e che aveva pensato di impegnarlo in questa opera, al termine della quale avrebbe poi provveduto a soddisfare i suoi desideri.
Aveva Apollinare un ospedale dove erano ospitati degli anziani infermi, in un rione chiamato Doryzim. L'ospedale era accanto ad un'abitazione nel cui cortile si apriva il laboratorio (ergasterion) di Ciro. Apollinare comprò l'abitazione e la fece abbattere; al suo posto vi fece fabbricare un tempio con una grande navata.
Il giovane nipote si impegnò grandemente e in breve, con l'aiuto di Dio, il tempio venne costruito. Così, come insegna il sapientissimo Paolo, che per coloro che amano il Signore tutto si converte in bene, ne scaturì per l'accortezza di Apollinare un gran bene per il giovane.
Il santo Vescovo giunse a costruire un doppio ospedale: uno per gli anziani, e uno per i giovani. Chiamò poi a sé un uomo pio e autorevole e lo inviò a Babilonia con delle suppliche scritte da rivolgersi ai tre giovani di Babilonia. Nelle suppliche veniva spiegato che le reliquie richieste erano per una grande chiesa costruita ad Alessandria, e veniva richiesto ai tre giovani la possibilità di avere delle loro reliquie.
Certo essi erano morti da molti secoli, ma l'amore di Apollinare per loro era tanto che era sicuro che avrebbero ascoltate le sue suppliche e il risultato sarebbe stato quello di ottenere delle reliquie.
L'incaricato di tal cosa giunse in breve a Babilonia e cominciò davanti ai resti mortali dei tre giovani a leggere le suppliche del vescovo Apollinare, chiedendo che fossero ascoltate e che fosse concesso di avere delle loro reliquie.
Mentre faceva ciò quello tra i santi cadaveri che stava nel mezzo a poco a poco alzò la mano e prese lo scritto ritornando poi nella posizione di prima.
Il pio uomo rimase stordito e vide che non aveva ottenuto quanto desiderato, e se ne dispiacque moltissimo, per cui rimase sette giorni nella chiesa dove c'era il sepolcro dei tre giovani a pregare. Ma nulla accadde. Alla fine ritornò dal Vescovo Apollinare presentando non reliquie, ma le sue lacrime.
Apollinare però non desistette e rinviò il pio uomo a Babilonia a pregare di nuovo i tre santi giovani, che se non avesse ottenuto le reliquie almeno avesse recuperato la lettera, la quale avrebbe fatto la vece delle reliquie.
L'uomo pio, un po' riluttante, obbedì e andò nuovamente a Babilonia, dove ancora si mise davanti al sepolcro dei tre giovani supplicandoli di non lasciare inesaudita questa seconda domanda. Ma il pio uomo nulla ottenne, e così cercò di recuperare la lettera. Stese quindi la sua mano sulla mano del martire e riprese la lettera. Nello stesso momento la mano del martire si staccò dal corpo e rimase insieme alla lettera nelle mani del devoto inviato. Il pio uomo avvolse in un panno prezioso quel sacro tesoro e lieto ritornò ad Alessandria. La gioia del Patriarca fu grande e grande il giubilo del popolo
(2).

1) Apollinare vescovo di Laodicea (310-390) diede origine all'eresia detta apollinarismo, che negava l'esistenza dell'anima razionale in Gesù Cristo.  Apollinare di Laodicea ebbe varie condanne a partire dal 374 fino a quella conclusiva del concilio ecumenico di Costantinopoli del 381

2) La narrazione deriva da un'esposizione popolare che vela quanto dovette in realtà accadere. Bisogna infatti pensare che il Vescovo con una lettera richiedesse ai custodi della chiesa delle reliquie e che le preghiere ai tre giovani fossero rivolte ad ottenerle. La lettera presa in mano da uno dei tre giovani indica che ad un certo punto il corriere non tenne più conto del permesso dei custodi della chiesa  pensandosi autorizzato direttamente dai tre giovani a passare al prelievo, che nei fatti è un furto. 


Apologia del celibato

E' piacevole sapere in che modo il Vescovo Apollinare diede compimento alla promessa fatta al nipote.
Il giorno dopo l'arrivo della reliquia il Vescovo radunò tutto il Clero della sua diocesi e collocò la mano del Martire e la lettera nella nuova chiesa con grande solennità, consacrando pure con rito liturgico la stessa chiesa. Quindi chiamò a sé il nipote e lo iniziò agli Ordini Sacri e al posto della moglie gli diede in sposa la chiesa dicendogli: “Ecco la tua sposa, della quale dovrai avere cura secondo il tuo dovere”.
Il giovane rimase sorpreso e si commosse profondamente, tanto che mutò volontà in tutto e cominciò a bruciare di attaccamento al celibato, più di quanto prima avesse per il matrimonio
(1).

1) Il nipote voleva prima sposarsi e poi essere ordinato sacerdote (Tt 1, 6).

L'esercizio dell'arte medica
Ora riprendendo la narrazione su Ciro e sulla sua vita.
Ciro come medico valeva di più di tanti altri, e per virtù non aveva uguali. Con l'arte medica curava i corpi e coi suoi costumi procurava la salute delle anime.
Con l'aiuto delle sue conoscenze mediche prescriveva le terapie, ma cercava pure di persuadere che le malattie spirituali sono più gravi di quelle corporali, e che le corporali spesso sono prodotte dalle prime.
In tal modo operava secondo il supremo Padrone e medico di tutti, che fa sì che le malattie del corpo diventino un antidoto contro le malattie dello spirito, che sono infermità gravissime, superiori a qualsiasi morbo, sia per il grande pericolo circa la salvezza eterna, sia per la difficoltà di essere curate.
Ciro, mentre procurava di fare le diagnosi sui malati e le relative prescrizioni, secondo le conoscenze date da Galeno, da Ippocrate e da altri, prendeva dai Profeti, dagli Apostoli e dai Padri, mille luci di sapienza richiamando in maniera tutta divina gli infermi anche al dovere verso la loro anima e non solo verso il corpo.
Gli infermi gli domandavano la cura del poco e ricevevano insieme a questo il molto, cioè la conoscenza di Dio, il pentimento delle colpe commesse, il sollievo del cuore.
E ciò avveniva, e molti amanti della vera pietà rimanevano confermati nel loro amore per la Verità. Anche non pochi pagani giungevano a rigettare i culti dei Greci, che erano dominanti ovunque sotto l'impero di Diocleziano (245-313).
Questo imperatore fu eminente non tanto per il diadema, quanto per la superstizione. Nella prima cosa infatti sì poté metterlo in paragone con molti, nella seconda con pochi.

La scelta del deserto
I benefici che Ciro diffondeva non potevano restare nascosti al malvagio Diocleziano, né potevano da lui essere sopportati tali fatti diventati notori e pubblici. La scelleratezza di coloro che erano avversi a Cristo non seppe fermarsi e tutto venne riferito al Prefetto della città, giurato nemico dei cristiani.
Il Prefetto dispose che Ciro fosse arrestato e condotto dinanzi a lui per l'interrogatorio. Ma Ciro, venuto a conoscenza di ciò uscì furtivamente dalla città recandosi nell'Arabia prossima all'Egitto, verso la parte del mare, in un fortilizio abbandonato chiamato Cetzo
(1). Li stabilì la sua dimora.
Nessuno lo deve rimproverare di codardia poiché non fuggì dalla città per timore, ma per uniformarsi alla parola di Cristo che dice: “Allorché siete perseguitati in una città rifugiatevi in un'altra”. In tal modo ebbe grande opportunità per la preghiera, il raccoglimento del cuore, fortificandosi nello spirito per poi sostenere le battaglie di Gesù Cristo.
Non è poi estraneo al suo andare in Arabia il disegno della Provvidenza che lo voleva in quel luogo per attirare tanti infedeli a Cristo, come pure per incoraggiare tanti fedeli con il nuovo genere di vita. Ciro, dunque, cambiò modo di vita, indossando pure un abito adatto alla vita da anacoreta.
Cambiò anche il modo di essere medico. Infatti smise di esercitare l'arte medica né più fu ritenuto medico. Divenne però operatore di miracoli. Non si serviva di farmaci, di erbe, ma si affidava alla preghiera e all'istruzione delle persone che lo raggiungevano.

1) Il fortilizio di Cetzo non poteva che trovarsi nella regione attorno a Canopo, sul delta del Nilo e quindi non distante dal Mediterraneo. Con ciò si spiega come Ciro potesse conoscere gente di Canopo e dei dintorni ed esserne il perno religioso. Il giudice Siriano lo chiamerà “Capo dei Galilei” intendendo per Galilei i seguaci di Gesù.
La scelta della vita anacoretica da parte di Ciro riflette il passo dell'Apocalisse dove vien detto che la donna (la Chiesa) con ali d'aquila vola nel deserto verso un rifugio (Ap 12, 14) e segue l'esempio di altri cristiani che avevano già preso la via del deserto, come Paolo di Tebe tra il 270 e il 275 e sant'Antonio abate nel 275-276. Ciro scelse la via del deserto poco dopo il 303, data dell'inizio della persecuzione di Diocleziano.

Giovanni di Edessa
La fama di Ciro si diffuse in tutta l'Arabia e raggiunse il milite Giovanni, originario di Edessa, ma per costumi vero cittadino del cielo.
In quei giorni infuriava la persecuzione di Diocleziano, ma il generoso soldato decise di abbandonare l'umana milizia
(1) e con coraggio diede se stesso alla milizia di Cristo, facendo più gloriose battaglie contro i nemici di lui, che contro i nemici delle umane guerre.
Giovanni dette perciò un taglio netto agli agi, alla prosperità, alla gloria, ai gradi militari, e raggiunse pellegrino Gerusalemme; poi partì per l'Arabia mosso dal desiderio di incontrare Ciro e di vivere con lui lo stesso modo di vita.
Giovanni, vivendo in comune con Ciro, ne vide le eroiche penitenze e i miracoli che Dio operava per mezzo di lui. Osservandolo continuamente cercava di imitarne le virtù non solo come discepolo, ma bensì come fervoroso emulo.

(1) Diocleziano aveva disposto che nell'esercito ci fosse l'epurazione dei soldati cristiani. Bisognava scegliere tra la degradazione e il mantenere i gradi militari per gli ufficiali, oppure per i soldati il licenziamento ignominioso e la privazione dei benefici concessi ai veterani. Giovanni scelse di uscire dall'esercito, per rimanere militare di quello di Cristo. Nativo di Edessa, in Mesopotamia, Giovanni molto probabilmente nel 296 combatté in Alessandria contro Achilleo rimanendo poi a presidiare il territorio. Dopo l'uscita dall'esercitò si recò il pellegrinaggio a Gerusalemme, poi si ritirò a Cetzo con Ciro del quale aveva sentito parlare tra i cristiani della zona di Canopo.

L'arresto delle tre giovinette con la madre  
La persecuzione intanto divampava ci fu l'arresto di tre giovanette cristiane insieme alla loro madre pure cristiana, tutte condotte nella città di Canopo, dove il sacerdote pagano era Cassiano e il Prefetto era Siriano.
Questo arresto diede l'inizio anche per Ciro e Giovanni al cammino verso il martirio. Infatti Ciro, temendo che il debole cuore delle giovanette venisse meno di fronte al terrore dei tormenti o all'insidia delle lusinghe (Le giovanette erano infatti di giovanissima età: Teodiste, la più grande aveva quindici anni, Teodota ne contava tredici e Eudossia da poco era entrata nell'undicesimo anno), decise di raggiungerle per sostenerle nella battaglia. Ciro pure valutava che anche la madre Attanasia non era esente dalla necessità di soccorso, poiché donna e madre di quelle tre giovinette poteva con qualche sconsideratezza allontanare le figlie dal sostenere i tormenti. Non diversamente pensò Giovanni
(1).
Così i due diventarono padrini per queste donne, non solo incoraggiandole al martirio, ma essi stessi entrando nella battaglia quali valorosi combattenti.
Da una parte senza alcuna costrizione si trovarono a testimoniare la fede e dall'altra esercitarono la carità di presentare Gesù Cristo, come soccorso alle giovani vittime.

(1) I due non considerano che le fanciulle avrebbero potuto rivelare il loro rifugio, ma solo guardano a sostenerle nella grazia del martirio.

La testimonianza e la morte
Il nemico del genere umano, cioè Satana, spinse con facilità dei suoi servitori ad accusare Ciro e Giovanni presso il Prefetto. Essi dissero che erano giunti in città due uomini, un monaco e un soldato, che insinuavano alle donne arrestate di disprezzare gli dei e di avere in abominio il culto ad essi praticato, e di non curarsi degli ordini imperiali.

Questi due uomini inoltre adorano un certo Gesù e gli tributano onori divini, e per far conoscere il loro attaccamento a lui stimano cosa da nulla anche la morte per amore di lui.
Di fronte a ciò Siriano si alterò grandemente e comandò che questi due uomini fossero condotti da lui. Disse loro Siriano: “Siete  forse voi gli sfortunati, i nemici dei celesti numi? Voi quelli che vi impegnate a pervertire le donne
e a diffondere il cristiano culto, macchinando con ogni impegno di ingiuriare l'imperatore? Ma se finora avete agito da stolti, ora almeno, lasciando la vostra superstizione, con preghiere e sacrifici cercate di rendervi propizia la maestà degli dei; in tal modo rimarrete liberi dai tormenti e vi renderete capaci di onori. Se poi non lo farete, vi accorgerete che tanto Siriano e Diocleziano Cesare, quanto gli dei sdegnati, che voi pazzamente provocate, benché siano benignissimi, si vendicheranno dei gravissimi affronti a sé fatti”.
A tali proposte Ciro e Giovanni risposero: “Noi abbiamo l'uso di aggiungere poche parole alle molte. Sappi pertanto che noi rifiutiamo tali onori di nessun valore, e non intendiamo rinunciare alla nostra fede in Cristo, qualsiasi cosa possa succederne”.
Allora Siriano avvampò di furente sdegno e scricchiolando i denti a guisa di cinghiale disse: “Bisognava che voi, essendo tali quali siete, aveste accolta la bontà del giudice e come saggi aveste cercato di condannare il vostro sbaglio, e soppesare le mie minacce. Ma niente trovandosi in voi fuori della superbia e di una indicibile voglia di comparire grandi non occorre usare molte parole, ma subito passare ai fatti. E succederà così che voi non solo arriverete a possedere quel premio che sospirate, ma anche, sebbene a malincuore, vi rassegnate ai comandi imperiali”.
Detto ciò e condotte le giovanette e la madre cominciò a tormentarli con ogni sorta di crudeli tormenti. Li percuoteva con schiaffi, li piagava con flagelli, li ustionava con fiaccole. Comandò che le ustioni venissero cosparse di sale e aceto e poi sfregate con panni di setole. Quindi fece cospargere i loro piedi di pece bollente e diede loro altri tormenti per vendicarsi della loro costanza e per sbigottire il cuore delle donne prima di martoriarle
(1).
Ma poiché il giudice vide che piuttosto sembrava che fossero tormentati gli spettatori piuttosto che i martiri, i quali erano interiormente lieti per la certa speranza che li sosteneva, comandò che fossero messi da parte e che fossero tormentate le donne. Ma sottoposte queste alle prove e non rimanendo vincitore neppure di quelle donne giudicate imbelli, Siriano restò confuso da una maggiore vergogna, perché era cosa chiara che esse differivano dai due martiri solo perché donne, nel rimanente avevano cuori maschili e al pari intrepidi. Visto tutto ciò, il giudice, finalmente pronunciò la condanna a morte e ordinò che venissero decapitate con la spada. Le donne senza mostrare paura o viltà restituirono a Dio ciò che da lui avevano ricevuto, diventando così esempio di coraggio ai due martiri dai quali avevano ricevuto lezione di grande fortezza.
Ciro e Giovanni furono di nuovo condotti alla lotta.
Siriano cercò di tirarli dalla sua parte con un patetico discorrere, dicendosi impegnato per la loro salute e dicendosi costretto a venire agli estremi se non avessero ceduto. Prometteva sempre più magnifici doni, giudicando che quelli già proposti fossero considerati di poco conto, e insieme minacce di nuovi tormenti. Ma non approdò a niente e così proferì anche contro Ciro e Giovanni la sentenza di morte: “Noi giusta gli imperiali decreti giudichiamo Ciro, capo dei Galilei, e Giovanni simile a lui nella religione, di essere decapitati, perché disobbedienti ai decreti imperiali, e per non aver voluto soprattutto sacrificare agli dei”.
Emanata tale sentenza i due prodi vennero decapitati dalla mano dell'uomo, ma una corona immortale fu posta su di loro da mano celeste il 31 gennaio
(2).

(1) La crudeltà dei tormenti purtroppo non fa meraviglia dopo quello che noi sappiamo da Amnesty International, e anche dagli stessi giornali.
Forse, tuttavia, un elenco così variato di tormenti obbedisce al pensiero di far risultare meglio la perseveranza dei martiri, ma potrebbe trattarsi di tormenti variati per stremare il morale dei martiri portandoli ogni volta a temere supplizi maggiori: il procedere del giudice, tra lusinghe maggiori e prospettive di maggiori tormenti, in fondo è proprio questo.

(2) L'anno della morte dei due martiri non ci è noto, tuttavia è fuori dubbio che non può essere quello dell'inizio della persecuzione, cioè l'anno 303. Troppo poco il tempo per spiegare come Ciro fu dapprima individuato ad Alessandria e poi come giunto al fortilizio di Cetza iniziasse ad irradiare una feconda azione apostolica tanto da farlo diventare “Capo dei Galilei”. Occorre, quindi, collocare la data del martirio non molto prima della fine della persecuzione, che avvenne nel 311 con l'editto di Nicomedia firmato da Galerio, da Costantino e da Licinio.

Il recupero delle reliquie 
Le difficoltà poste dalla persecuzione non impedirono che alcune pie persone recuperassero le reliquie dei corpi delle quattro martiri e dei due martiri. Vennero recuperate di soppiatto e avvolte in pannicelli le seppellirono con onore nel tempio di S. Marco
(1), ma in diverse casse, perché in un loculo misero le vergini con la madre e in un altro loculo i corpi di Ciro e Giovanni.
Poi col volgere dei tempi e con l'avvento al trono imperiale di Teodosio, che governò i cristiani liberi di essere tali, le reliquie vennero poste in un altro luogo.

Il testo prosegue con un'appendice riferendo del patriarca Teofilo predecessore di S. Cirillo in Alessandria, che abbattuto il tempio della dea Iside a Menouthis, vi costruì al suo posto una chiesa dedicata a san Ciro. Il 28 del mese di Giugno, le Reliquie furono traslate in Menouthis per tutela del borgo, per fugarne i demoni, e per ottenere dall'intercessione di Ciro guarigioni.

(1) Non si tratta di una chiesa, impossibile a pensarsi durante il perversare della persecuzione, ma, come riferiscono gli Atti apocrifi di Marco, di una grotta vicino a Bucoli, dove l'evangelista venne martirizzato. Bucoli si trova nella zona di Canopo.

Il lavoro dei Bollandisti
Molto importante è il lavoro dei Bollandisti che hanno passato a filtro della critica storica tutto il materiale a disposizione elaborando il testo conclusivo presente nella loro opera.
Essi sono un gruppo di Gesuiti che compilò gli “Acta sanctorum”, un imponente lavoro in più volumi. Il nome Bollandisti deriva dal gesuita belga Jean Bolland che iniziò i lavori nel 1643. Dopo la sua morte 1665 il lavoro venne continuato dai gesuiti Godefroid Henschen, Daniel Papebroch, e da molti altri. La stesura della voce su san Ciro è nel secondo volume degli Acta ed è stata curata dal Bolland.
Oggi riguardo a san Ciro, date le migliori conoscenze storiche, si è attenti a collocare la narrazione di san Sofronio nel quadro del tempo in cui visse il santo martire, per esaminare, cogliere e precisare le connotazioni storiche presenti nella narrazione stessa, al di là del tono parenetico. In questo senso ha grande valore l'opera del Gesuita Giuseppe Prevete su san Ciro.

Il testo di Jean Bolland dell'edizione italiana (Venezia 1734-1770):

San Ciro e San Giovanni, martiri in Egitto
Morti nel 311. Papa: Melchiade; Imperatore: Massimino.

Se questi due illustri martiri sono celebri nella Chiesa, siamo molto meno debitori della loro conoscenza alle cure degli uomini i quali ne fornirono la storia, che alla bontà di Dio che fece risplenderne a via di miracoli il merito e la gloria seguiti al loro martirio.
San Sofronio, il quale ne scrisse gli Atti, trecento anni dopo, valendosi ad un tempo della tradizione e delle memorie, dice che san Ciro esercitava la professione di medico nella città d'Alessandria, ed il luogo dove distribuiva i suoi rimedi fu,
con l'andar del tempo, convertito in una chiesa dedicata sotto il nome dei tre fanciulli Ebrei gettati nella fornace ardente, all'epoca dell'empio Nabucodonosor. Soggiunge inoltre il citato autore, che il nostro Santo servivasi del vantaggio procuratogli dalla professione, d'avvicinare ogni sorta di persone, per annunziare al .popolo la fede di Gesù Cristo, ed applicavasi a procurare l'eterna salute di coloro a cui restituiva la sanità corporale. Una così santa condotta dispiacque talmente agli idolatri zelanti per l'onore degli Dei che si lagnarono di lui col governatore della città, il prefetto d'Egitto, come di un uomo il quale abusava della professione per ispirare agli ammalati la disubbidienza agli editti emanati dagl'imperatori Diocleziano e Massimiano contro i seguaci del Vangelo. Il governatore dette tosto ordine di arrestare il medico cristiano e di condurlo alla sua presenza: ma Ciro, fattone consapevole, uscì segretamente dalla città d'Alessandria  e si ritirò nell'Arabia, dove, cambiando abito e modo di vivere, passò qualche tempo nella solitudine, fino a quando un soldato cristiano dell'esercito d'oriente, a nome Giovanni, nativo di Edessa, nella Mesopotamia, avendolo conosciuto, si unì a lui per attendere alla conversione dei pagani e per confessare insieme il nome di Gesù Cristo alla presenza dei persecutori, se ne faceva mestieri. Dopo qualche tempo, passarono in Egitto, dietro la notizia ricevuta da Ciro, che una gentildonna cristiana, a nome Atanasia, la quale, a quanto sembrava, era di sua conoscenza, era stata arrestata per la religione insieme alle sue tre figliuole, Teotista, Teodota ed Eudossia, di cui la primogenita non contava più di quindici anni. Il timore che persone così giovani e delicate non si lasciassero abbattere dai tormenti o sorprendere dalle carezze, gli fece prendere la risoluzione d'andare ad esporsi per la loro salvezza. Volle Giovanni essere compagno della carità e delle avventure di Ciro. Andarono insieme a Canope, ove le quattro serve di Gesù Cristo erano prigioniere, e trovarono il mezzo di parlar con loro nei primi giorni.  
Ma non appena si seppe ch'erano cristiani, furono presi e condotti innanzi al governatore, accusati di aver loro ispirato il disprezzo per gli dei e per gl'imperatori. Non furono trovati colpevoli se non di cristianesimo, ed il governatore il quale, d'altronde, erasi reso il zelante ministro del nuovo imperatore, Massimino offrì loro di rinviarli assoluti qualora volessero sacrificare agli Dei. Irritato dalla libertà da essi dimostrata nelle loro generose risposte, e dal coraggio dato a divedere nella presa risoluzione, cominciò a far loro soffrire i più rigorosi supplizi per condurli alla morte. Ordinò si facessero venire le tre fanciulle con la madre, ed in loro presenza, Ciro e Giovanni fossero crudelmente frustati e battuti a colpi di bastone. Gli furono poscia con torcie ardenti bruciati i fianchi, versando poscia nelle piaghe aceto e sale. Il disegno del persecutore non era solamente di abbattere loro due, ma di spaventare altresì quelle giovinette, ed indebolirne, con sì terribile spettacolo, il coraggio. Vedendo che nulla guadagnava coi due Martiri, i quali sembravano sempre più invincibili e superiori ai propri mali,  fece dar loro un po' di riposo, ed ordinò si cominciasse a tormentare Atanasia e le tre figliuole, credendole già quasi del tutto vinte. Ma la pruova fatta del loro coraggio non servì che a confonderlo ancora di più, e, per farla finita, fece recidere la testa a tutte e quattro. Si ritornò quindi ai due santi Martiri, i quali, dopo essere stati per lungo tempo e sempre con nuovi supplizi, inutilmente tentati, ebbero parimenti recisa la testa, e consumarono in tal modo il loro glorioso martirio, il 31 gennaio dell'anno 311, secondo la comune opinione.
I fedeli del luogo trovarono il mezzo di raccogliere i corpi delle religiose; quelli di san Ciro e di san Giovanni furono messi in un sarcofago, e quelli di Atanasia e delle tre figliuole in un altro. Si vuole che circa cento anni dopo, quelli di san Ciro e di san Giovanni fossero trasportati dalla città di Canope in un borgo quivi vicino, chiamato Manuto, da san Cirillo patriarca d'Alessandria, e che il motivo di tale traslazione fosse stato per liberar quel luogo dalle vessazioni del demonio. La detta cerimonia fu accompagnata e seguita nei tempi posteriori da un gran numero di miracoli che fecero considerare i nostri due Santi, come i genii tutelari del paese, come medici onnipotenti ed invisibili dei corpi e delle anime presso Dio; come protettori la cui assistenza era nel tempo medesimo certa, pronta ed efficace per chiunque ricorreva ad essi con fede. Tali miracoli li resero così celebri, che il secondo concilio ecumenico di Nicea, tenutosi nell'anno 787, credette poterli far servire allo scopo che aveva di mantenere ed autorizzare l'onore dovuto alle sacre immagini
contro l'eresia degli Iconoclasti. Tali miracoli furono poscia garantiti nel settimo ed ottavo secolo da san Sofronio, patriarca di Gerusalemme, citato dal concilio, e da Leonzio autore della vita di san Giovanni l'Elemosiniero, e da san Giovanni Damasceno.
I Greci ed i Latini convennero di celebrar la memoria di questi Santi martiri al 31 gennaio: ed i primi principalmente nella Siria e nell'Egitto avevano il costume di chiamar san Ciro Abate-Ciro per onore: appellazione che sembra aver egli avuta fin da quando viveva, se è pur vero che nella sentenza del giudice che lo condannò a morte, era chiamato, per derisione, il padre od il capo dei Galilei, vale a dire dei cristiani. Fu questo appunto il motivo per cui nel calendario Gottico, ch'è quello delle Chiese d'Egitto, venne denominato Abaker od Abacher; ed in Italia Abbaciro, corrottosi poscia in Appacero, cui la volgare ignoranza fece prendere una santa, dicendo santa Passara, per sant'Appacaro, nuova corruzione di Appacero. Quello che rese questo Santo ed il suo compagno così celebri nell'Italia, fu una nuova traslazione delle loro reliquie fattasi a Roma, senza peraltro potersene additar con precisione il tempo e le altre circostanze, al secolo in cui l'Egitto fu invaso dai Saraceni. Eravi di già una chiesa sotto il loro nome nella città al di' là del Tevere, via di Porto, dirimpetto alla basilica di san Paolo. Di essa parlasi nella vita di san Gregorio il Grande, scritta da Giovanni; diacono di Roma, il quale visse nel nono secolo; e quantunque il fatto in essa riferito avvenne ai tempi di Benedetto III, eletto papa nell'anno 855, egli è certo che la detta chiesa era già molto antica, allorquando vi furono trasportati i corpi dei due Santi. Non vi erano ancora le dette reliquie quando Anastasio il bibliotecario tradusse in latino, durante il pontificato di Giovanni VIII, gli atti del loro martirio scritto in greco da san Sofronio di Gerusalemme. Questi Santi, di cui il culto era, in quei secoli, molto celebre a Roma, avevano ancora delle altre chiese nella città sotto il loro nome, ma di esse e rimasta quella solamente di cui abbiamo or ora tenuto parola, chiamata di santa Passara, presso il Pozzo Pantaleone, che aprivasi una sola volta all'anno, cioè al 31 gennaio, giorno in cui i canonici di santa Maria in via lata, da cui essa dipende, andavano a farvi l'ufficio. Se adunque Roma vien citata nella menzione del Martirologio, lo è soltanto come il luogo dove sono onorati e non come quello in cui subirono il martirio. Viene inoltre confermata l'esistenza della detta chiesa dal dotto cardinal Baronio, il quale asserisce nelle sue opere esservi in Roma, sulla via di Porto, nella regione o quartiere della basilica di san Paolo, al di là del Tevere, una vecchia chiesa, comunemente chiamata di santa Passara, ma dagli antichi manoscritti denominata di santa Prassede; vi si leggono questi due versi scolpiti sul marmo:

Corpora sancti Cyri renitent hic, atque Joannis,
Quos quondam Romae dedit Alexandria magna.

Qui brillano i santi corpi di Ciro e di Giovanni.,
Regalati a Roma dalla
Grande Alessandria.

Eravi ancora, prima della rovina della religione, cristiana in Oriente, un tempio celebre sotto il nome di questi due Santi ad Alessandria ed un altro a Costantinopoli. Oltre alla festa del giorno del loro martirio, celebravasi pure, al 28 di giugno, la memoria di quello della loro invenzione, che non era altro se non quella traslazione fatta da san Cirillo d'Alessandria, nel principio del suo episcopato, e di cui abbiamo tenuto parola. Non, vediamo però essersi fatta nella Chiesa alcuna commemorazione della seconda traslazione delle loro reliquie fatta dall'Egitto in Italia, la quale doveva non pertanto esser molto celebre.
Molte di queste sante reliquie si distribuirono in diversi punti dell' Europa. Ed è forse questo il motivo che dette occasione alla città di Vico di Sorrento, in quel di Napoli, di dedicar la cattedrale sotto il nome di questi due santi martiri, e di prenderli per patroni. Una parte di queste reliquie trovasi nella Baviera. Di esse il papa Urbano VIII fece un presente a Guglielmo V, antico duca di Baviera, pochi giorni prima di morire, con un breve del sette febbraio dell'anno 1626: esse sono preziosamente conservate a Monaco nella chiesa di san Michele appartenente ai Padri della Compagnia di Gesù.
Sofronio, vescovo di Gerusalemme, pronunziò un bel panegirico di questi due santi martiri; viene esso citato nel dodicesimo atto del concilio di Nicea, e da san Giovanni Damasceno, nel terzo discorso sulle immagini.

Bibliografia

Migne: “Patrologia Graeca”, vol. LXXVII, pag. 1099.
Bollandisti: “Acta Sanctorum”,  vol II.
Padre Giuseppe Prevete S. J: “Raccolta di scritti e di memorie storiche intorno ai Martiri Alesandrini”,Tipografia N. Jovene, Napoli 1916.
Rosario Quaranta: “S. Ciro a Grottaglie”, Grafica Manduria, 1988.