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Michelangelo Buonarroti (Caprese Michelangelo, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febbraio 1564).
Il complesso scultoreo della Pieta' di san Pietro a Roma e' un capolavoro dell’arte rinascimentale. Venne eseguito da Michelangelo quando aveva 23/24 anni, fra il 1498 e il 1499. L’opera scultorea venne commissionata dal cardinale francese Jean Bilheres de Lagraulas benedettino
e collocata nella chiesa romana di S. Petronilla luogo di sepoltura dei re di Francia. Il gruppo scultoreo nel 1517 venne trasferito nella Basilica di
san Pietro, trovando diverse sistemazioni, poi nel 1779 nella prima cappella a destra della navata della basilica.
Il tema del Cristo deposto dalla croce sul grembo di Maria non e' presente nei Vangeli, come non lo
e' in quelli apocrifi. L’origine dell’iconografia risale al
Liber Gratiae specialis, che raccoglie le esperienze mistiche di santa Matilde di Hackeborn, o di Helfta (Helfta, 1240 circa - 19 novembre 1298), monaca benedettina dell'abbazia di Helfta, in Germania.
Cosi' si legge al cap. 17 del Liber Gratiae specialis tradotto in italiano nell’edizione milanese del 1938, con prefazione del Card. Schuster: “Nell'ora dei Vespri, Matilde vide il Signore che, deposto dalla Croce, riposava in seno alla Beata Vergine Maria, la quale le diceva: Vieni a baciare le piaghe salutari che il mio dolcissimo Figlio ricevette per tuo amore”.
Fuori dubbio che il benedettino card. Jaean Bilheres conoscesse il
Liber Gratiae specialis e indicasse per questo a Michelangelo l’iconografia del Cristo deposto dalla croce sul grembo di Maria.
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Michelangelo
Buonarroti: dai sonetti ormai al termine della vita, con versione in lingua corrente.
(Dal sonetto 285): “Giunto e' gia' ‘l corso della vita mia,/ con tempestoso mar, per fragil barca,/ al comun porto, ov’a render si varca/ conto e ragion d’ogni opra trista e pia./ Onde l’affettuosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca/ conosco or ben com’era d’error carca (…)/ Ne' pinger ne' scolpir fie piu' che quieti/ l’anima, volta a quell’amor divino/ c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia”.
“E’ giunto gia' il corso della mia vita, con fragile barca in un tempestoso mare , al comune porto, dove si passa a rendere conto e ragione di ogni opera triste e pia. Cosi' ora conosco che la seducente fantasia, che l’arte mi fomento' facendomi idolo e monarca, era di ogni errore carica. Ne' dipingere, ne' scolpire rende piu' quieta la mia anima, rivolta a quell’amore divino che aperse le braccia sulla croce per conquistarci”.
(Dal sonetto 286): “Ma che poss’io, Signor, s’a me non vieni/ coll’usata ineffabil cortesia?”.
“Ma che posso io, Signore, se a me non vieni con la tua ineffabile misericordia”.
(Dal sonetto 287): “Di giorno in giorno insin da' miei prim’anni,/ Signor, soccorso tu mi fusti e guida,/ onde l’anima mia ancor se fida/ di doppia aiuta ne’ miei doppi affanni”.
“Giorno dopo giorno, fin dai primi anni, tu mi fosti soccorso e guida, per cui ancora l’anima mia si fida di doppio aiuto nei miei doppi affanni”.
((Dal sonetto 288): “Le favole del mondo m’hanno tolto/ il tempo dato a contemplare Iddio, ne' sol le grazie suo poste in oblio,/ Quel c’altri saggio, me fa cieco e stolto/ e tardi a riconoscer l’error mio;/ manca la speme, e pur cresce il desio/ che da te sia dal proprio amor disciolto”.
“LLe favole del mondo mi hanno tolto il tempo dato a contemplare Dio, ma con loro, ancor piu' che senza, l’ho usato per peccare. Quello fece altri saggio fece me cieco e stolto. La speranza manca, ma pur aumenta il desiderio che da te sia dall’amor proprio liberato”.
(Dal sonetto 289): “Non
e' piu' bassa o vil cosa terrena/ che quel che, senza te, mi sento e sono, onde a l’alto desir chiede perdono/ la debile mie propria e stanca lena./ Deh, porgi, Signor mio, quella catena/ che seco annoda ogni celeste dono:/ la fede, dico, a che mi stringo e sprono;/ ne', mia colpa, n’ho grazia intiera e piena./ Tanto mi fie maggior, quanto piu' raro/ il don dei doni, e maggior fia se, senza,/ pace e contento il mondo in se' non have./ Po’ che non fusti del tuo sangue avaro,/ che sara' di tal don la tuo clemenza,/ se ‘l ciel non s’apre a noi con altra chiave?”.
“Non mi sento piu' con te bassa e vile cosa terrena, per cui con alto desiderio, chiedo perdono con la mia debole e stanca lena. Deh, porgi, Signore mio, quella catena, che seco annoda ogni celeste dono: la fede dico, alla quale mi stringo e mi sprono; nelle mie colpe, ho grazia intera e piena. Tanto mi sia di maggior desiderio, quanto
e' piu' prezioso, il dono dei doni, e ancor piu', se senza di esso il mondo non ha pace ne' contentezza. Poiche' non fosti del tuo sangue avaro, che sara' tale dono senza la tua clemenza, poiche' il cielo non si apre a noi con altra chiave?”.
(Dal sonetto 290): “Le spine e’ chiodi e l’una e l’altra palma/ col tuo benigno umil pietoso volto/ prometton grazia di pentirsi molto,/ e speme di salute a la trist’alma./ Non mirin co’ iustizia i tou sant’occhi/ il mie passato, e ‘l gastigato orecchio;/ non tenda a quello il tuo braccio severo./ Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi, e piu' abondi, quan’i’ son piu' vecchio,/ di pronta aita e di perdono intero”.
“Le spine e i chiodi nell’una e nell’altra palma col tuo benigno umile e pietoso volto mi promettono la grazia di un profondo pentimento. Non guardino con giustizia i tuoi santi occhi il mio passato, e al castigato orecchio non tenda il tuo braccio severo. Il tuo sangue solo le mie colpe lavi e tocchi, e maggiormente abbondi, quanto io sono piu' vecchio di pronto aiuto e di perdono intero”.
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