La vita
Gli studiosi per tracciare
la biografia storica di Buddha hanno svolto un'opera di consultazione
delle sue biografie. Lo studio ha fatto emergere un notevole volume di
superfetazioni a carattere mitico sulla figura storica del Buddha, evidenziando,
inoltre, che esse sono postume all'evento cristiano.
Le fonti che gli studiosi
seguono sono evidentemente quelle più antiche, che si presentano sobrie e
concrete.
Buddha nacque nel paese dei
Sakya, una repubblica a regime aristocratico e feudale, situata in un territorio
fertile che andava dalle pendici dell'Himalaya fino al Gange, e comprendeva
circa un milione di abitanti. I Sakya erano la tribù dominante nel paese, che
confinava con tanti altri Stati, spesso in guerra tra di loro. Il potere di governo veniva
affidato ad un Raja (governatore) da un'assemblea che lo eleggeva. Buddha è un
figlio del Raja del tempo, e non del re secondo una delle tante superfetazioni
mitiche. Si conosce il nome del Raja, padre di Buddha, che era Suddhodana, ma la
data di nascita di Budda rimane oscillante tra il 500 e il 567 a.C.
Budda quindi non rinunciò al
trono, ma alle ricchezze, alla potenza della sua famiglia.
Gli venne dato il nome di
Sidharta (sansc. Siddaharta), “Quegli che ha raggiunto lo scopo”. E anche
di Gotama (sansc. Gautama), il Gotamide, quale appartenente al ramo (gotra)
dei Sakia, che portavano il nome familiare di Gotama.
La madre di Sidharta fu
Maya, della stirpe dei Sakia. Il parto avvenne in un bosco prossimo al villaggio
di Lumbini, presso Kapilavastu, mentre la donna era in viaggio per poter stare
presso i suoi genitori. Dovette fermarsi e partorire in condizioni disagiate,
che probabilmente furono quelle che la portarono alla morte alcuni giorni dopo.
Tale evento è confermato da una scritta che il re Asoka fece porre nel luogo nel
249 a.C.
La leggenda presenta Maya
che concepisce il figlio durante il sonno, nel corso del quale vede entrare nel
grembo un elefante bianco. Il fanciullo, secondo la leggenda (tradizione
Mahayanica), portava 32 segni auspicali sul corpo e altri segni minori. Uscì dal
fianco di Maya e fu immediatamente in grado di fare sette passi in avanti,
lanciando un grido di vittoria, e rivolgendosi verso le nove direzioni cosmiche.
Nel momento della sua nascita nascono anche la sua futura moglie e l'albero Bo,
sotto il quale raggiungerà l'illuminazione (Buddha significa, “l'illuminato”).
Il Raja si sposò nuovamente
con Mahaprajapati, dalla quale ebbe un figlio e una figlia. Sidharta, Gotama,
visse la sua fanciullezza con i due nuovi nati. La sua educazione dovette avere
un'impronta guerresca, come era quella dei Sakya, insieme agli agi delle
ricchezze. Certamente imparò a scrivere su tavoletta con stilo.
Giunto in età adulta si
sposò con una donna della quale non si conosce il nome, e ne ebbe un figlio,
Rahula. In conseguenza di ciò la donna venne chiamata Rahulamata. Un tardo testo
chiama la moglie di Buddha, Bhaddakacca, mentre altri testi le danno il nome di
Gopa o di Yasodhara.
A 29 anni Sidharta ebbe una
profonda svolta psicologica. Vide il dolore, vide la malattia, vide la
vecchiaia, la morte, in una luce tragica. Indubbiamente, il giovane Sidharta era
già stato raggiunto dal peso della morte della madre, e dal non avere per sé
il padre, passato, come suo diritto, a nuove nozze e con altri figli.
All'origine del cammino di
Buddha non ci sono riflessioni metafisiche, problemi teologici, c'è solo la
visione traumatica, violenta, tragica, patologica, del dolore, del disfacimento
dell'uomo. Si realizzò in lui una
interiorizzazione della credenza della metempsicosi già elaborata dal pensiero
vedico e professata dalla casta dei brahmini, che però si sentivano per la loro
sapienza, le loro ritualità, come i prossimi candidati alla liberazione dal
karma (karma vuol dire “agire, azione”). Il concetto che esprime è
che ogni azione buona produce un karma positivo che segnerà benefici
nelle vite successive (ciclo morte - reincarnazione: “samasara”); ogni
azione negativa produce un karma negativo che peserà sulle vite
successive. Esiste però un karma speciale che estingue ogni debito
precedente e porta alla liberazione dal ciclo delle reincarnazioni, e quindi al
nirvana e al paranirvana.
Il giovane Sidharta fuggì di
casa a cavallo con un servo che volle seguirlo. Si fermò nel paese di Amaineya,
a sei leghe ad oriente di Kapilavastu. Lì lasciò gli abiti principeschi indossò
abiti dimessi e congedò il servo. Quella del giovane Sidharta è una vera fuga
dalla sua famiglia e dal suo casato, prima di avere la consapevolezza di essere
anche, usando i nostri termini, una fuga mundi.
Sidharta venne
accolto da asceti e brahmini che vivevano nei boschi vicini. Ma le cose non
andarono per il meglio ed egli dovette isolarsi e ricorrere a mendicare il cibo
per vivere nei villaggi vicini. Si spostò, poi, giungendo a Vesali, per poi
raggiungere Rajagrha, città capitale dello stato Magadha, ai piedi dei monti
Vindhya, dove nelle grotte e nei boschi vivevano molti asceti. Sidharta incontrò
due maestri che avevano attorno a sé degli adepti, dei monaci. Il primo è Alara
Kalama (sansc. Aradak); il secondo è Uddaka Ramaputta (sansc. Udraka Ramaputra).
I due maestri di liberazione praticavano tecniche meditative yogiche (samadhi).
Sidharta rimase però insoddisfatto di questi rinunciatari della vita perché la
convivenza con i loro discepoli aveva i suoi difetti, le sue perturbazioni, i
pesi delle insofferenze, e ciò produceva dolore, e la dottrina dei due maestri
gli pareva errata. Sidharta aveva deciso di arrivare ad un punto tale in se
stesso da far sì che il dolore non avesse più presa alcuna, per cui rinunciò
alla vita monastica collettiva, come si legge nel Mahapadana-sutta del
Digns-Nikaya (XIV, 2, 16s).
Si rifugiò
perciò nella solitudine più rigorosa, seguito da 5 monaci di Uddaka che furono
conquistati dalla sua personalità. Sostò quindi nelle foreste presenti attorno a
Uruvela (sansc. Urubilua, l'odierna Urel), un villaggio a sud di Patna
(l'odierna Phalga), sulle rive del Neranjara.
Nella
solitudine si diede all'ascetismo più duro per dominare ogni impulso della carne
e ogni perturbazione delle spirito (atman). La meta era rimanere
imperturbabili di fronte ad una carne, che veniva negata perché nemica, estranea
al vero essere dello spirito la cui natura è consustanziale al Brahman, e cioè è
parte del Brahman, ma che, per il momento, appare come separata dal vaso che la
racchiude, cioè il corpo. Il vaso è una prigione che serra con le sue voci lo
spirito, che non deve ascoltarle per giungere ad estinguere ogni accumulo di
karma, che la lega a nuove reincarnazioni.
Sidharta cadde
in una tale debilitazione che comprese che quella via di ascetica durissima
produceva alla fin fine non quel risultato di beatitudine che pensava di
raggiungere. Lasciò così le macerazioni vedendo in esse la sorgente di una
gloria perturbatrice. Bisognava attaccare quindi la perturbazione più interiore
e non solo quella esterna. Sidharta divenne un esaminatore accurato di se
stesso, producendosi in un rifiuto non violento, ma strategico, di ogni gloria
perturbatrice, per perseguire una gloria calma e beatificante. La meditazione
yogica (yoga significa, “unione”), trascendentale, che è meditazione
eseguita con la ripetizione interiore e prolungata di un pensiero su di sé per
plasmare se stessi in quel pensiero, non poteva fermarsi al tentativo della
separazione della percezione del corpo, ma doveva tentare di giungere alla
separazione dalla percezione dei moti dello spirito, separandosi dall'essere
dello spirito, per giungere a stemperarsi nel Brahaman.
Brahman è
l'essere inconoscibile, da cui derivano per emanazione tutti gli dei e tutti gli
esseri. E' il substrato di tutto il cosmo, una sorta di supersostanza alla
sorgente e alla base di tutte le cose. Il Brahman è unito panteisticamente alla
materia, come “anima mundi”. Non si può essere consapevoli del Brahman,
ma quando si arriva attraverso l'illuminazione al nirvana si giunge a
comprendere di essere stati sempre Brahman. L'anima (atman) è pensata
accidentalmente unita al corpo secondo la metempsicosi, ed è intesa come un
goccia d'acqua separata dal vasto oceano. Resa pesante dal karma, l'atman
deve percorrere un cammino di purificazione (Brahman significa “crescita,
sviluppo, rigonfiamento, devozione, adorazione”). L'atman è intesa
come una frazione del Brahman, ed è, con illogico doppione, della medesima
sostanza del Brahman. L'individualità sta nella quantità, ma la quantità essendo
frazione del Brahman non può garantire l'individualità, a meno di introdurre nel
Brahman la frammentazione, il che pone una contraddizione enorme con l'unità del
Brahman. L'atman, essendo frazione del Brahman, ha meno potere del
Brahman, ma una volta persasi nel Brahman con il nirvana non esiste più
separazione, e l'ego supera il limite della quantità, pur rimanendo essa come
vincolo dell'individualità. Chiaro che la speculazione metafisica, razionale,
viene interdetta al buddhista: scoprirebbe le contraddizioni del panteismo.
Al buddhista
spetta di cogliere i moti dell'animo, per eluderli con la meditazione yogica su
qualche punto della dottrina del Buddha.
La filosofia
buddista è una filosofia del non essere che non colpisce direttamente l'essere,
ma si sottrae all'essere, affinché l'essere non comunichi dolore. Il dolore per
Buddha nasce dal desiderio di vivere, cioè di essere, di porsi come dominatore
della realtà, la realtà, la storia è per lui un velo sottile inconsistente, non
la situazione dove l'uomo si attua. Per evitare il dolore bisogna annullare
l'anelito al vivere, ma senza colpire il vivere: è questa “la via di mezzo”.
Quello che occorre è non pensare all'essere, sottrarsi al pensiero dell'essere
senza pensare di non essere. La meditazione yogica, trascendentale, non è quindi
un pensare come lo intendiamo noi, ma si può dire un pensare sistematico
a non pensare.
Buddha non
esce mai dal suo obiettivo: estinguere il dolore.
La luce (bodhi)
che Buddha disse di aver raggiunta è compresa nelle quattro nobili verità (arya-satyani).
E' la verità sul dolore (dukka), la verità sulla causa (samudaya),
la verità sulla soppressione (nirodha) del dolore, la verità sulla via (magra)
che porta alla soppressione del dolore.
Queste quattro
scoperte costituiscono il contenuto del messaggio che Buddha fece ai monaci di
Benares.
Nella
redazione del Mahavagga (I, 6) così dice la predica di Benares a cinque monaci
di Uddaka, che prima l'avevano seguito sulle rive del Neranjara, e poi lasciato
vedendolo nel fallimento di una debilitazione: “Due sono gli estremi, o
monaci, dai quali colui che vive nell'ascesi deve tenersi lontano: Quali sono
questi due estremi? Il primo è una vita di piaceri, dedita ai piaceri e al
godimento: questo è basso, ignobile, contrario allo spirito, non degno, non
utile. L'altro estremo è una vita di macerazioni; questo è penoso, non degno,
non utile. Da questi due estremi, o monaci il Tathagata (appellativo di Buddha,
che vuol dire “il così andato”, cioè il pioniere che ha raggiunto il nirvana.
Nirvana significa “dispersione, estinzione”) tenendosi distante, ha pienamente
scoperto il sentiero che passa nel mezzo, che apre gli occhi, che dà conoscenza
e mena alla serenità, alla scienza, all'illuminazione, al nirvana. E qual è, o
monaci, questo sentiero che il Tathagata ha pienamente conosciuto, che apre gli
occhi, che dà conoscenza e mena alla serenità, alla scienza, all'illuminazione,
al nirvana? Esso è quell'Ottuplice Via, che si chiama: Retta Comprensione, Retto
Pensiero, Retta Parola, Retta Azione, Retta Vita, Retto Sforzo, Retta
Attenzione, Retta Meditazione. Tale, o monaci è il Sentiero Mediano, che il
Tathagata ha pienamente conosciuto, che apre gli occhi, che dà conoscenza e mena
alla serenità, alla scienza, al nirvana.
Questa, o
monaci è la Santa Verità sul dolore: la nascita è dolore, la morte è dolore, la
vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, l'unione con ciò che non si ama è
dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore, il non soddisfacimento del
proprio desiderio è dolore.
Questa, o
monaci, è la Santa Verità, sull'origine del dolore. E' la sete
(dell'esistenza) che porta di rinascita in rinascita, congiunta al piacere e
all'attaccamento, e trova il suo piacimento in questo ed in quello; (cioè) la
sete di piacere, la sete di esistenza, la sete di impermanenza (è la sete
delle esperienze sempre nuove, delle nuove emozioni; del lasciarsi afferrare dal
divenire delle situazioni, dal nuovo, dal ricercare il sempre nuovo).
Questa o
monaci, è la Santa Verità sulla soppressione del dolore: l'estinzione di questa
sete attraverso il completo annullamento del desiderio, bandendo il desiderio,
rinunciando alla (sete), liberandosene, non dando rifugio”.
Buddha
trascura il riferimento agli dei, e ciò ha fatto pensare ad un ateismo di
Buddha; l'illuminazione non è una grazia dall'alto, ma un raggiungimento del
procedere personale dentro di sè. Il liberatore di se stesso è il soggetto
stesso: “Nel redento è la redenzione” si legge nel Samanna-phala-sutta,
II del Digha-Nikaya, 98.
Il riferimento
agli dei tuttavia è presente, ma a partire dalla sua scoperta, tratta da sé, da
se stesso. Egli pensa che anche il mondo degli dei, che ha visto in lui la via
per liberarsi dalle impurità, lo debba seguire per liberarsi dal proprio
karma. Infatti, anche gli dei accumulano un karma che impedisce loro
l’accesso alla piena consapevolezza, nel loro ordine divino, di essere Brahman.
Il centro
cosmico diventa lui, Buddha, e centro cosmico diventa il buddhista che raggiunge
la buddità.
Ma, sia
chiaro, il buddista si innervosisce, conosce l'agitazione come confidava il
Dalai Lama in una intervista a “Il Giornale” (Venerdì 16 Novembre 2007):
“Ad esempio mi capita di infuriarmi se mi sveglio di notte a causa degli
uccelli che pigolano”. Difficile non rilevare, senza indulgere in polemica,
che per san Francesco essere svegliato dagli uccelli avrebbe causato esattamente
l'opposto.
Le
idealizzazioni mitiche sul Buddha sono conseguenti alle sue affermazioni di aver
trovato la via della calma imperturbabile, della beatitudine piena, del
sottrarsi sistematico al desiderio di alcunché, poiché il desiderio secondo
Buddha è la fonte del dolore. Difficile per i seguaci non mitizzarlo di fronte
alla casta bramhinica che contestava le idee di Buddha. Egli, infatti, si
presentava come la novità che soppiantava l'esistenza della casta bramhinica,
che varcava i risultati delle mortificazioni degli asceti che cercavano, nel
colpire la carne, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni.
Buddha venne
infine inserito nella dottrina del Bodhisattva, cioè di uno che sta per
raggiungere il nirvana, ma non lo vuole raggiungere per potersi reincarnare
portando così agli uomini la conoscenza della via della liberazione dal karma.
Il prossimo Buddha reincaranato sarà il Bodhisattva Maitreya (in sanscr.
maitri significa: bontà amorevole. In lingua pali, col medesimo
significato, si ha Metteyya).
Buddha morì
per cibo risultatogli indigesto. Si tratta di funghi porcini.
E' pienamente
estranea alle tradizioni su Buddha l'idea di una morte sacrificale, con
conseguente risurrezione - del tutto fuori dal pensiero induista -, come ha
voluto affermare D. Marduk (pseudomino Achariya S cioè “maestro di spirito”), la
fondatrice della Chiesa dell'Astroteologia. Acharya S. ha ricevuto numerose
critiche dagli studiosi per il suo libro “The Crist Cospiracy” edito da
Adventures Unlimited Press, 1995. Attualmente la donna non è rintracciabile,
neppure il suo editore sa dove sia andata. L'esoterismo ad oltranza di Acharya
S. spiega come abbia potuto giungere a tali affermazioni. Lo studioso Mike
Licona presenta nel suo sito una confutazione sul libro di Acharya s. “A
refutazion of Acharya S's book, the Crist”. (
Sito risenjesus.com: cliccare poi su resorces e poi su articles
by Mike Licona).
Note
L'atteggiamento del Buddha è quello della benevolenza universale, perché l'odio
è dolore, è frutto dell'agitazione, della bramosia. La benevolenza, la
compassione verso il bisognoso, è secondo la natura umana, e dà contentezza
perché in ciò si viene ad esprimere il nostro profondo essere, essa sgorga dal
cuore di ogni uomo, ma diventa difficile di fronte al nemico, alla situazione
difficile, alla situazione che agita, che disturba. L'astio, nella concezione di
Buddha, deve essere fuggito perché scompone ed è dolore. Bisogna essere
benevoli, compassionevoli, per fuggire il dolore. Di fronte al nemico bisogna
fuggire l'urto con lui; allontanarsene. La vendetta è turbamento, è dolore.
Si scorgono
con facilità assonanze con gli stoici che rinunciavano ai moti dell'ira, perché
l'ira scompone. Nello stoicismo di Seneca e Marco Aurelio, si giunge persino a
vedere l'utilità del nemico, perché esso fa esercitare la fuga dall'ira per
approfondire la calma nell'atarassia. Ma lo stesso si può vedere nel
Taoismo, dove si ritrova questa frase di Lao-tze: “ricambiate l'inimicizia
con il beneficio”; e questo nel preciso quadro di un superamento del nemico,
e nello stesso tempo di sottrazione di sé al nemico, affinché esso non diventi
causa di turbamento, di dolore.
Ma la
benevolenza vuole l'umiltà per essere autentica in tutto. Ma l'umiltà, in tale
contesto di fuga dal dolore personale, diventa apparenza, diventa sottile
violenza all'altro; una violenza, non violenta. Buddha presentò la
non-violenza (ahisma), che vuole l'altro neutralizzato dal bene
fattogli, dalla calma dimostratagli. Così, si produce nell'altro un dolore che
non smuove la coscienza, che non la libera, ma la irrita; e qui si rivela una
contraddizione poiché per il buddhista l'azione è buona quando non produce
dolore.
L'umiltà
apparente non offre il perdono, ma un beneficio; non si offre la salvezza, ma
una ferita interna che irrita, o soggioga, ma non libera. Siamo su di un piano
ben diverso da quanto dice il cristianesimo sull'amore ai nemici, per i quali si
deve giungere anche a donare la propria vita e non un beneficio rivolto a
disarmare l'altro, il nemico, il disturbatore. Buddha sa fronteggiare la
sofferenza esterna, e anche l'ha ricercata nelle macerazioni come dominio di sé,
ma fugge dal soffrire interno, che è quello più amaro. E tutti gli uomini lo
sanno bene che il dare agli altri il soffrire esterno è funzionale ad infiggere
agli altri lo strazio interno.
Buddha si è
mosso a partire dalla considerazione tragica del dolore e, invece di ritrovare
la causa del dolore nella ribellione, ha considerato il dono della vita come una
punizione funesta dalla quale bisogna sottrarsi.
Buddha accetta
la condizione umana, ma se ne sottrae cercando di estinguere il desiderio della
vita, che il mesopotamico non metteva in discussione. La credenza della
metempsicosi catturò Buddha nella sua ricerca e gli fece intendere la vita come
punizione, ed egli cercò di emanciparsi per sconfiggere gli effetti della
punizione. Buddha si rifiutò di elaborare un pensiero metafisico che l'avrebbe
portato a liberarsi dal panteismo e a giungere a vedere la vita come un dono,
sempre bello pur in mezzo alle difficoltà e al dolore.
Gli Ebrei
avevano chiaro il dono della vita, e benché in essa ci fossero situazioni di
dolore essi chiedevano a Dio di vivere (Ps 32; 47; 55, ecc.). Se san Paolo dice
che per lui il morire è un guadagno (Fil 1,21) non lo dice perché fugge la vita,
ma perché la morte lo porta all'abbraccio eterno con Dio. Egli non vuole essere
spogliato dal corpo, ma essere sopravvestito nella risurrezione (2Cor 5,4). Egli
desidera vivere per servire Cristo.
Il cristiano
non fugge gli uomini perché danno dolore, ma accetta in Cristo crocifisso e
risorto il dolore, rimanendo nell'amore, infuso in lui per mezzo dello Spirito
Santo, la terza Persona della Trinità, che è un solo Dio in tre persone uguali e
distinte. Il cristiano non si sente consustanziale a Dio, ma concorporeo a
Cristo, nel senso che Cristo ha assunto una natura umana e ha vissuto con noi,
ed è il Capo della Chiesa, suo corpo mistico.
Tra il
cristianesimo e il buddismo c'è una distanza immensa, tuttavia nel buddismo c'è
l'uomo. L'uomo afflitto dal peccato, l'uomo che cerca salvezza, l'uomo che
avverte come nel suo interno sorgono agitazioni, contraddizioni. Il cristiano
limpido nella verità non avvicinerà il buddista, ma l'uomo buddista, parlerà a
lui uomo.
Gesù ci dice:
“Fate come me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le
vostre anime”. Ecco la vera strada per avere la pace, quella intima, quella
che è purificazione dell'essere, non fuga da esso in una ricerca di estinzione
di ciò che l'essere ti invita a fare, ossia costruire in Cristo la storia.
Andrè Bareau, “Buddha”,
ed. Accademia, Roma, 1971.
“Enciclopedia
delle Religioni”,
ed. Vallecchi, Firenze, 1978.
Filipponi Ronconi, “Canone
buddista. Discorsi brevi”, ed. UTET Università, Torino, 2004.
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