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L'universo babilonese e la formazione
del genere umano |
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La cosmogonia più importante
del mondo babilonese è rappresentata dal poema scritto in accadico (lingua
semitica, parte della più estesa famiglia delle lingue afro-asiatiche, parlata nell'antica
Mesopotamia, in particolare dagli Assiri e dai Babilonesi) “Enuma
Elis” (Quando in alto). Lo scritto è stato scoperto nel 1876 tra i documenti
su tavolette d'argilla della biblioteca di Assurbanipal (669 - 629 a. C.), ma
indubbiamente risale a molto tempo prima, forse al tempo di Hammurabi (re di
Babilonia) (1792 - 1750 a.C) o anche al tempo di Nabucodonosor (1124 - 1103) in
quanto celebra la potenza del dio nazionale Marduk, assurto a tale livello dopo
essere stato un dio della vegetazione, sul tipo del fenicio Baal.
Il nome Marduk deriva con
tutta probabilità dal sumerico AMAR-UTUK, che vuol dire “Giovane toro del Sole”.
Marduk veniva identificato
con il pianeta Giove.
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“Quando in alto
non era nominato il cielo
in basso la
terraferma nome non aveva,
e Apsu, il
primordiale, il genitore di loro,
Tiamat, la genitrice
di tutti loro,
le loro acque
insieme mescolavano,
e arbusti non
s'intrecciavano
canneti non si
vedevano,
quando degli dei non
esisteva alcuno,
con nomi non erano
chiamati,
i destini non erano
fissati,
allora furono
procreati gli dei in mezzo a loro:
Lahmu e Lahamu
vennero all'esistenza,
con un nome furon
chiamati...” |
Sunto:
Apsu (principio maschile)
è un essere divino costituito da una massa d'acqua, e pure Tiamat (principio
femminile) lo è. La materia, come si vede è eterna, e costituisce due
divinità distinte, che si affiancano, si avvolgono e infine si congiungono. Da
questa unione nacquero Lahmu e Lahamu, dai quali nacquero Anshar e Kishar, che
ebbero il figlio Anu. Anu sposò una dea e generò Ea. Essi disturbavano però con
la loro vivacità Tiamat e anche Apsu, che non poteva più riposare. Apsu voleva
annientarli e presentò questo disegno a Tiamat, presente Mummu, il vizir di
Apsu. Tiamat si oppose. Il sapiente Ea conosciuta la cosa, con formule magiche
addormentò Apsu, e Mummu non riuscì a ridestarlo. Ea strappò la corona ad Apsu e
lo incatenò e poi l'uccise. Legò poi Mummu. Ea con la sposa Damkina, dimorò
nell'abisso in una stanza regale. Lì generarono Marduk. Ea lo rese superiore a
tutti gli altri dei e gli diede i quattro venti e Marduk li fece agitare in un
polverone terribile contro Tiamat. Questa generò animali mostruosi: l'idra, il
drago, l'uomo pesce, il capricorno, l'uomo scorpione, l'uomo toro. Qingu venne
messo a capo della schiera pronta per la battaglia. Ea, confortato da Anshar,
predispose il contrattacco. Si cercò anche di rabbonire Tiamat mediante la
mediazione di Anu, ma tutto fu vano. Ea allora mise il campo il figlio Marduk,
che chiese di essere eletto re sopra tutti gli dei per entrare in azione. Venne
eletto re degli dei durante un allegro banchetto. Nel banchetto vollero saggiare
se davvero Marduk era potente. Crearono una stella e chiesero a Marduk di
distruggerla e poi di rifarla. Marduk lo fece e poi si preparò alla battaglia
contro Tiamat con l'arco, le frecce e il fuoco che gli faceva da scudo, e prese
anche una rete. Marduk aveva occhi che gli permettevano di vedere nelle quattro
direzioni, e udiva quattro volte tanto gli altri dei e capiva anche quattro
volte tanto. Marduk prese con sé i quattro venti e creò un ciclone, che fu il
suo carro da guerra e si lanciò contro l'esercito di Tiamat, ma fu preso da un
attimo di panico. Tiamat cercò di rabbonirlo per vincerlo con l'inganno, ma
Marduk non cadde nel tranello. Tiamat diventò furibonda. Marduk fulmineo le
lanciò la rete per immobilizzarla e le lanciò contro il ciclone, che riempiendo
la sua bocca la fece enfiare; poi le lanciò contro una freccia che le trapassò
il cuore. L'esercito di Tiamat atterrito fuggì, ma fu catturato dalla rete di
Marduk. Poi Marduk divise in due il corpo di Tiamat. Appiattì metà di quel corpo
e lo mise in alto come un tetto, facendone il cielo, dove pose gli dei, le
costellazioni. Con la spuma marina di Tiamat fece le nuvole. Con l'altra metà
del corpo fece la terra.
La creazione
dell'uomo
La narrazione procede
dicendo che gli dei, schieratisi con Tiamat, sarebbero dovuti essere schiavi
degli altri dei, ma in un consesso di dei decidono di sacrificarne uno per
creare l'umanità che fosse al servizio di tutti gli dei. Il dio scelto è Qingu,
il condottiero dell'esercito di Tiamat. Qingu vine ucciso e col suo sangue
venne formata l'umanità alla quale venne imposto il servizio agli dei, i quali
in riconoscenza costruirono per Marduk, fra cielo e terra, la città di Babilonia
con un tempio per sua abitazione terrena.
La
formazione dell'uomo è narrata da altri miti babilonesi. Uno costituisce la
prima parte del diluvio universale babilonese. La redazione più antica è verso
il 1650 a.C.
Il mito narra come gli dei
all'inizio lavoravano come gli uomini. Solo sette Anunnaki erano oziosi nelle
altezze del cielo imponendo agli dei il lavoro forzato.
Gli dei Igigi dovevano
scavare vie d'acqua, quali elementi necessari di vita. Innalzavano montagne
portando sulle spalle ceste di terra presa dagli scavi dei canali.
Gli dei sottoposti ai lavori
forzati si lamentarono grandemente e promossero una ribellione. Tutti gli
attrezzi da lavoro vennero messi al fuoco. Poi circondarono il tempio dove stava
il sorvegliante ai lavori Enlil che spaventato ricorse al consiglio degli
Anunnaki.
Si fece un interrogatorio
per vedere chi aveva fomentato la ribellione, ma venne risposto che tutto era
nato concordemente. Come soluzione si decise di formare Lullu, l'uomo, per
lavorare al posto degli dei. Venne interpellato il saggio Ea che dormiva nella
sua camera in fondo agli abissi, ed egli stabilì che un dio doveva essere
ucciso, e con il suo sangue venissero purificati gli dei ribelli. Poi con la sua
carne e il suo sangue mescolati all'argilla si producesse l'uomo. Dalla carne ne
derivava lo spirito. Venne ucciso Aw-ilu, ispiratore della rivolta. Mami, la dea
madre, creatrice dei destini, fece l'impasto e chiamò gli Anunnaki e gli Igigi,
e tutti gli dei che sputarono tutti sull'impasto per dargli la vita. Gli dei
acclamarono pieni di gratitudine Mami e la chiamarono “Signora degli dei”. Gli
uomini così si misero al lavoro forzato, finchè anch'essi si lamentarono, e qui
giunse il diluvio.
Un'altra narrazione presente
nel poema di Ghilgames (databile intorno al 2100 a. C. e ritrovato in un’ampia
versione nella biblioteca di Assurbanipal) è la creazione di Enkidu, che non è
però il primo uomo, ma un uomo selvaggio, peloso, che stava tra gli animali, con
una forza sovrumana, creato, per indicazione del dio Anu, dalla saggia dea Aruru
perché diventasse compagno di Ghilgames re di Uruk, che però non governava bene.
I due diventarono poi amici.
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“La dea Aruru
quando ebbe inteso ciò,
un'immagine del dio
Anu formò nel suo cuore;
Arurù lavò le sue
mani,
del fango stacco, lo
pose sulla steppa;
sulla steppa formò
Enkidu, l'eroe, il rampollo...,
vassallo del dio
Ninurta...”. |
Sunto: Il poema di Ghilgames
giunge al punto in cui Enkidu muore, e Ghilgames diventa ossessionato dall'idea
della morte. Così si mette in viaggio per trovare Utnapistim. Deve entrare
dentro la porta del tunnel che il sole percorre tutte le notti, per poi
ritornare sulla volta celeste. Ma il cunicolo è al momento del tutto buio, e
occorrono dodici ore di cammino. Ghilgames viene avvisato da due esseri mezzo
uomo e mezzo scorpione che vigilano la porta che l'impresa gli sarà impossibile.
I due esseri riconoscono in lui la natura per un terzo di uomo e per due terzi
di dio, infatti Ghilgames è il frutto del connubio tra la dea Ninsun e l'eroe
Lugalbanda. Ghilgames entrò nel tunnel camminando nel buio più completo. Dopo
dodici ore uscì precedendo il sole. Si trovò in un boschetto luminoso, con
piante fatte di pietre preziose. Il rovo aveva al posto delle spine delle pietre
scintillanti. Camminando arrivò sulla riva del mare. Lì vide una taverniera che
preparava la birra degli dei. La taverniera lo trova sconvolto e lo interroga
sulla sua identità. Lui le presenta il suo tormento, ma la taverniera gli dice
che non potrà sfuggire alla morte. Ghilgames le domanda la strada per arrivare
da Utnapistim. Per giungervi egli deve attraversare l'oceano, cosa che solo il
sole può fare. In mezzo all'oceano c'è una zona chiamata l'acqua della morte, ed
è insuperabile. La taverniera tuttavia gli indica Urshanabi, il traghettatore
di Utnapistim che lo può portare da lui. Ma la nave aveva come equipaggio degli
esseri di pietra, gli unici inattaccabili dalla morte. Ghilgames distrusse tutto
l'equipaggio per far vedere il suo potere a Urshanabi. Il traghettatore gli
risponde che avendo distrutto l'equipaggio non potrà prendere la nave, deve
perciò creare dei rulli con dei tronchi per varare la nave. Ghilgames si imbarcò
da solo. Utnapistim lo vide da lontano e finalmente si parlarono. Utnapistim
cerca di farlo riflettere sul fatto che egli è in una condizione superiore agli
uomini e che perciò dovrebbe essere lieto. Gli dei hanno creato l'uomo e gli
hanno assegnato come destino la morte. La sua lotta contro tutte le difficoltà
non gli ha portato nulla. Finalmente Utnapistim gli indica un arbusto che
cresce in fondo al mare e che si chiama “il vecchio ridiventa giovane”.
La pianta gli darebbe l'immortalità corporea. Ghilgames la trova, ma durante la
navigazione sulla via del ritorno un serpente esce dall'acqua e prende dalla
barca dell'eroe l'erba preziosa e scompare. Tutto si conclude con una visione di
beffa degli dei che tengono per loro l'immortalità e mantengono in balia della
morte gli uomini. L'uomo non deve pensare all'immortalità corporea, Ghilgames,
sebbene per due terzi di origine divina, non l'ha potuta avere, tanto meno gli
uomini. Questo mito è alla fine un'apologia dell'unico e vero Dio e del suo
disegno sull'uomo.
Un altro testo che narra al
riguardo della questione dell'immortalità è quello del mito di Adapa. Adapa non
è il primo uomo. Egli ricevette dal dio Ea la scienza dei segreti del cielo e
della terra, senza tuttavia avere un mezzo per essere corporalmente immortale.
Egli un giorno spezzò le ali del vento del sud e per questo venne chiamato a
giudizio dal dio supremo Anu. Ea preoccupato per il suo protetto gli disse di
non mangiare né bere nulla di quanto il dio gli avesse dato. Ma, ecco che il dio
Anu considerando quanta scienza avesse Adapa pensò di dargli il cibo e la
bevanda dell'immortalità, annoverandolo così tra gli dei. Ma Adapa seguì il
consiglio di Ea e così rimase un mortale.
Questo mito fa vedere la
beffa subita da Adapa causata dalla diffidenza del dio Ea nei confronti del dio
Anu. In fondo Ea aveva comunicato ad Adapa tanta scienza per farne un cuneo nel
mondo degli dei, e in definitiva Ea fu contento che Adapa rimanesse un mortale.
Anche questo mito è un'apologia dell'unico e vero Dio e del suo disegno
sull'uomo.
(Per quanto riguarda
l'origine della donna dall'uomo nella narrazione Biblica, non è stata trovata
alcuna analogia, sia nei testi babilonesi, che in quelli egizi e ugaritici, cioè
nei testi dell'area culturale semitica).
Il diluvio
babilonese
Nell'undicesima tavoletta
delle dodici del poema di Ghilgames (British Museum) è narrato il diluvio
babilonese, che ha assonanze con quello biblico, ma tuttavia diversità sia nel
monoteismo, che nella durata, e anche nel modo: il diluvio babilonese ha le
caratteristiche di un ciclone che sale dal golfo Persico.
Sunto: Utnapistim narra poi
a Ghilgames che egli un tempo abitava nella città di Shuruppak dove gli uomini
non conoscevano la morte e lavoravano la terra per gli dei. Il numero degli
uomini si moltiplicò e il loro rumoreggiare disturbava il sonno di Enlil. Così
gli dei riuniti a Shuruppak decisero di distruggere gli uomini. Il piano di
mandare un diluvio doveva rimanere segreto affinché nessun uomo sfuggisse. Ea,
invece, facendo finta di parlare ad una parete, avvisò Utnapistim del disegno
distruttivo degli dei: “Uomo di Shuruppak, figlio di Ubaratutu, abbatti la
tua casa, costruisci una nave, abbandona la ricchezza, cerca la vita. Disprezza
gli averi, salva la vita. Porta nella nave ogni sorta di semi per la vita. Della
nave che costruirai siano ben calcolate le misure”.
Il quinto giorno progettò la
forma della nave. La sua superficie era di 12 iku (circa 3500 mq).
Le sue pareti erano alte 10 gar (circa 60 metri). Vi fece sei
piani e divise la sua larghezza in sette parti. Il suo interno lo divise in nove
parti. Sei sar (circa 90-100 mc, in base ad un problema matematico: tavoletta
Tel Haddad - 1770) di bitume versò nella fornace.
Tutto il paese visto il
beneficio della partenza di Utnapistim si mise ad aiutarlo nel fare la nave. A
nave pronta i cittadini di Shuruppak fecero una grande festa.
Tutto ciò che aveva di semi
per la vita vi mise dentro. Portò nella nave la sua famiglia e suoi parenti; il
bestiame dei pascoli, le fiere; tutti i maestri delle varie arti.
Poi al mattino piovvero
focacce e a sera farina.
Utnapistim entrò nella nave,
ne chiuse la porta. Non appena risplendette il mattino, dall'orizzonte si alzò
un blocco di nubi nere. All'interno del ciclone c'era il dio Adad, che ruggiva
con il tuono. Davanti a lui c'erano Shullata e Khanish che lanciavao i venti e i
fulmini. Il diluvio era così spaventoso che gli dei fuggirono in cielo
rifugiandosi presso il palazzo di Anu, accovacciati “come cani”.
Il diluvio, la bufera
australe, devasta il paese per sei giorni e sei notti. Il settimo giorno la
bufera australe, il diluvio, si placò. Il mare divenne calmo. E tutta l'umanità
si era trasformata in argilla. Uniforme come un tetto di fango era diventata la
terra. La nave scorse la terra e approdò sul monte Nizir, dove si incagliò. Al
settimo giorno Utnapistim fece uscire una colomba, che tornò indietro non avendo
luogo dove vivere. Poi Utnapistim fece uscire una rondine, e anche questa
ritornò. Infine, fece uscire un corvo che non tornò indietro perché poté trovare
da mangiare. Allora Utnapistim fece uscire tutti dalla nave. Fece un'offerta di
profumi agli dei mettendola sopra la cima del monte. Enlil giunse e vide e
s'infuriò perché qualcuno si era salvato. Enlil allora chiamò la dea della
nascita e le disse di consigliarsi con Ea. Essi decisero che gli uomini
dovessero morire e l'immortalità fosse solo riservata agli dei. Poi Enlil salì
sulla nave e concesse a Utnapistim di essere immortale per sempre.
Note
Il problema della morte
esiste per ogni uomo; non sorprende come i babilonesi abbiano pensato ad
un'immortalità iniziale, che però presentano nel pesante servizio agli dei
bisognosi di cibo. Gli uomini, infatti, si sentono fatti per la vita e non per
la morte. Al di là delle rassomiglianze tra questa narrazione del diluvio e quella biblica,
la distanza tra le due è profondissima. Esse risalgono ad un antico archetipo
comune; tuttavia, la narrazione biblica è molto più arcaica di quella babilonese
(Cf. “Introduzione alla Bibbia”; esegesi: Genesi, Enrico Galbiati, Ed.
Marietti, Torino 1969, Vol II/1, pag. 190).
La morte è sopraggiunta, per
la narrazione babilonese, non per colpa dell'uomo, e l'immortalità degli uomini
non è vista all'interno di un'alleanza-dono, come invece si ha nel testo
biblico. Tale alleanza-dono è un vincolo d’amore reciproco che parte
dall'iniziativa amorosa e fedele di Dio e che deve essere rispettato dall'uomo,
non un dato affidato al gioco delle turbe degli dei, a partire dalla perdita del
sonno di Enlil, il quale, alla fine, si sente tranquillo nei suoi riposi solo se
gli uomini sono soggetti alla morte.
La salvezza di Utnapistim è
un'offerta ad un singolo protetto e non un'offerta a tutti. Nella Bibbia è
offerta a tutti, anche se solo un gruppo di giusti se ne avvale (1Pt 3,20; 2Pt
2,5). Tutta la narrazione del diluvio babilonese, così politeista, è un'apologia
all’unico Dio.
"Enciclopedia
delle religioni", ed. Vallecchi,
Firenze, 1978. |
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