20 marzo 2020. Coronavirus: prova o castido?
 
coronavirus
 
Le definizioni che si sentono dire in ambito ecclesiale circa la pandemia, rifiutano la parola “castigo”. Concordo, ma pur ascoltando la voce dei tanti interventi civili che parlano di mancanze d’igiene, di ritardi in Cina, e altrove, d’impreparazione responsabile, poiché già dal 1999 l'Oms aveva dato una guida sulla preparazione alla pandemia, aggiornata nel 2005, di comportamenti indisciplinati - ancora oggi c’è un 30/40% d’indisciplinati - nel seguire le regole dettate, bisognerà dire che il villaggio globale ha dimostrato tutte le sue falle. Niente castigo di Dio, ma un autogol formidabile, che poteva essere evitato.
Il virus non soltanto ha trovato casualmente la combinazione genetica per l’accesso all’uomo, ma ha trovato anche le porte aperte per diffondersi. In fondo sono le porte aperte che producono la desertificazione, il cambiamento climatico, l’inquinamento da smog delle città, da plastica dei mari, e ancora altro. Porte aperte, stoltamente aperte, quando invece dovevano essere chiuse dalla prudenza, dalla previdenza, dalla volontà di lasciare un mondo migliore alle generazioni future. Emerge un dato terribile; scopriamo che il mondo di oggi non è fatto per i giovani, ma per chi ha i soldi e la salute. Se fosse fatto per i giovani si penserebbe al futuro della terra, sapendo che il futuro comincia con il presente.
Si potrebbe dire: “Ma perché Dio non è intervenuto lui a fermare il virus?” Addirittura a non prodursi.
La risposta diventa difficile, ma si può dire che poiché dal male Dio sa ricavare il bene, vuole farci vedere quanto siamo imprevidenti nella nostra presunzione di potere ogni cosa. Il Covid-19 ci fa vedere deboli, impreparati, superficiali, impelagati nelle questioni politiche. Tutto ciò può, se la lezione sarà ben compresa, portare a una vita più rispettosa della natura e dell’uomo.
Prova? Si è scelta la parola prova. Questo è vero per tanti e tanti incolpevoli, ma non per i colpevoli; per i colpevoli è un autogol che non si auguravano, credendo di giocare sulla terra una partita vincente sul clima, sulle economie, sulle guerre, e tutto il resto.
Leggendo il profeta Gioele, che è il “profeta della Pentecoste” e anche “della penitenza”, si vede bene l’invito di Dio a riconoscere i propri sbagli, che non sono semplicemente tecnici e organizzativi, come noi vogliamo credere, ma morali. Dietro ad ogni inadempienza c’è una mancanza d’amore, c’è l’affermazione della propria libertà fuori da ogni vincolo di convivenza, che pur è una realtà ineludibile. E la convivenza vuole la corresponsabilità, vuole una legge morale, e Dio ce l’ha data, e in primis l’abbiamo stampata nella coscienza. La libertà non può essere che libertà condivisa, per essere libertà vera.
Come se ne esce dalla mancanza dell’amore? Tutti capiscono che manca l’amore, tranne i furbetti, e per questo il vicino di casa diventa importante; diventa importante il medico, l’infermiere, l’ospedale, le terapie, le ricerche, la patria anche. Ma non si può rimanere dei compagni di sventura, che cercano di uscirne, per poi riprendere l’individualismo di prima. Se ne esce rivedendo se stessi. Ma rivedere se stessi lo si può davanti a uno specchio che ti faccia vedere chi sei. Non bastano i numeri dei contagi e dei morti; bisogna guardarsi dentro e arrivare a quella legge del tutto universale che dice: “Non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te”.
Quanto a noi Chiesa facciamo un po’ di penitenza, anche per i tanti che non vogliono nemmeno più udire la parole penitenza. E a questo non volere più la parola penitenza o sacrificio, si accompagna la quasi del tutto abolita parola peccato. Si, la parola peccato può essere confusa come trasgressione di una norma, ma non è così perché il peccato è disprezzo di Dio, come si sentì dire Davide dal profeta Natan (2Sam 12,9); o come si legge nel profeta Osea, adulterio con il Male. La parola peccato allora cessa di essere una parola riferentesi a una norma, ma diventa disprezzo di Dio, adulterio con il Male.
Prova o castigo?
Prova certo per gli innocenti; ma anche autogol per gli stolti, cioè autocastigo. Allora il linguaggio diventa corretto e ci conduce con la sua chiarezza a chiedere perdono a Dio dell’amore che ci manca, nella volontà di ritrovarlo in fretta.
Articolo di p. Paolo Berti, pubblicato su  In Terris il 19 marzo 2020
 
Inserito il 20 Marzo 2020
 
 
12 febbraio 2020. Esortazione post-sinodale “Querida Amazonia”.
 
 
87.   Il modo di configurare la vita e l’esercizio del ministero dei sacerdoti non è monolitico e acquista varie sfumature in luoghi diversi della terra. Perciò è importante determinare ciò che è più specifico del sacerdote, ciò che non può essere delegato. La risposta consiste nel sacramento dell’Ordine sacro, che lo configura a Cristo sacerdote. E la prima conclusione è che tale carattere esclusivo ricevuto nell’Ordine abilita lui solo a presiedere l’Eucaristia.[125] Questa è la sua funzione specifica, principale e non delegabile. Alcuni pensano che ciò che distingue il sacerdote è il potere, il fatto di essere la massima autorità della comunità. Ma San Giovanni Paolo II ha spiegato che, sebbene il sacerdozio sia considerato “gerarchico”, questa funzione non equivale a stare al di sopra degli altri, ma «è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo».[126] Quando si afferma che il sacerdote è segno di “Cristo capo”, il significato principale è che Cristo è la fonte della grazia: Egli è il capo della Chiesa «perché ha il potere di comunicare la grazia a tutte le membra della Chiesa».[127]
 
 
 
 
 
88.   Il sacerdote è segno di questo Capo che effonde la grazia anzitutto quando celebra l’Eucaristia, fonte e culmine di tutta la vita cristiana.[128] Questa è la sua grande potestà, che può essere ricevuta soltanto nel sacramento dell’Ordine sacerdotale. Per questo lui solo può dire: «Questo è il mio corpo». Ci sono altre parole che solo lui può pronunciare: «Io ti assolvo dai tuoi peccati». Perché il perdono sacramentale è al servizio di una degna celebrazione eucaristica. In questi due Sacramenti c’è il cuore della sua identità esclusiva.[129]
 
 
89.   Nelle circostanze specifiche dell’Amazzonia, specialmente nelle sue foreste e luoghi più remoti, occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale. I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro. Ma hanno bisogno della celebrazione dell’Eucaristia, perché essa «fa la Chiesa»[130], e arriviamo a dire che «non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra Eucaristia».[131] Se crediamo veramente che è così, è urgente fare in modo che i popoli amazzonici non siano privati del Cibo di nuova vita e del Sacramento del perdono.
 
 
90.   Questa pressante necessità mi porta ad esortare tutti i Vescovi, in particolare quelli dell’America Latina, non solo a promuovere la preghiera per le vocazioni sacerdotali, ma anche a essere più generosi, orientando coloro che mostrano una vocazione missionaria affinché scelgano l’Amazzonia.[132] Nello stesso tempo, è opportuno rivedere a fondo la struttura e il contenuto sia della formazione iniziale sia della formazione permanente dei presbiteri, in modo che acquisiscano gli atteggiamenti e le capacità necessari per dialogare con le culture amazzoniche. Questa formazione dev’essere eminentemente pastorale e favorire la crescita della misericordia sacerdotale.
 
Con ciò il papa non ha accolto le conclusioni del Sinodo Amazzonico, ponendo la soluzione del problema della mancanza di sacerdoti non sul sacerdozio agli sposati, ma all’invio generosi di missionari in Amazzonia.

Alcuni commentatori hanno presentato come nella decisione di Papa Francesco abbia contribuito il libro “Dal profondo dei nostri cuori” del papa emerito Joseph Ratzinger e del Card Robert Sarah.

Ringraziamo Il Signore di questo immenso risultato. Una decisione diversa avrebbe creato grandi problemi nel popolo di Dio: diocesi europee avrebbero ben presto, per la ragione della scarsità dei sacerdoti, chiesto il medesimo trattamento. Ci sarebbe stato tra il popolo di Dio una selezione tra preti sposati e preti celibi, creando così divisioni profonde. Inoltre, sarebbe passata l’idea antropologica che non sempre si può chiedere il celibato a tutti i popoli, dando così alimento al razzismo. Giusto è che la Chiesa, che è missionaria, estenda se stessa con la generosità missionaria e non con soluzioni stanziali. I preti sposati avrebbero perso subito la carica missionaria propria della Chiesa, per la realtà stanziale delle coppie sposate, poiché include il campo dell’educazione dei figli, della loro frequentazione scolastica, dell’impiego di sé nel mondo del lavoro. Si tenga poi presente la conformità a Cristo e l’amore indiviso a Dio dei celibi (1 Cor 8,33 - 34).

Inserito il 12 Febbraio 2020
 

 

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