Quando
si dice: “Un mondo di bugie”: 27 Giugno 2007
IL MONDO, 18 maggio 2007,
pag. 16: <Il
20-22% del patrimonio immobiliare nazionale è della Chiesa>, stima Franco
(Francesco) Alemani del gruppo Re, che da sempre assiste suore e frati”.
AVVENIRE,
12
maggio 2007; Il
valore delle chiese: “Si
può, con un minimo di assennatezza, pensare che più del 20% del patrimonio
immobiliare in Italia appartenga alla Chiesa? Dipende. Perché se si ragiona in
astratto, con l'obiettivo di fornire un'immagine fuorviante di un'istituzione,
magari per aprire un fronte polemico mascherato da inchiesta giornalistica,
allora forse sì.
In effetti, volendo ragionare per assurdo, si può immaginare di attribuire un
valore commerciale alla Basilica di San Pietro, al Duomo di Milano, a San Marco
o ad altri prestigiosi "immobili" come chiese o edifici di culto;
calcolare quanti appartamenti, centri commerciali e locali per uffici vi si
possono ricavare; e infine ipotizzare che esista un compratore. Ma a che pro?
Chi si intende un minimo, ma proprio un minimo, di proprietà immobiliari,
sorriderebbe di fronte ad assurdità di tale portata. D'altronde sulla base di
quale criterio economico o urbanistico si può valutare una chiesa o fissare il
prezzo di beni che per la stragrande maggioranza sono vincolati? E che, in ogni
caso, non appartengono certo a una presunta "holding della Chiesa", ma
piuttosto a un universo di realtà frazionate e indipendenti come solo possono
esserlo i soggetti religiosi. Eppure è possibile leggere sul settimanale
economico Il Mondo una serie di informazioni ambigue come quella che
abbiamo esposto all'inizio, senza che alcuno si ponga il minimo dubbio. Lo
stesso Franco Alemani, vice presidente del Gruppo Re, al quale è attribuita la
frase sul 20% del patrimonio immobiliare italiano, ammette: «È impossibile
attribuire un valore a certe strutture, è un'inesattezza grossolana». Anche
Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia, non ha dubbi: «Il dato non
è minimamente attendibile e assolutamente lontano dalla realtà. Un'assurdità».
(M.C.)”
Reverendo
padre Berti,
tornato
questa mattina in ufficio dopo aver vissuto le giornate dell’inaugurazione
della ristrutturata cattedrale di Noto, ho trovato la Sua richiesta trasmessami
dal dottor Francesco Alemani Molteni, vicepresidente del Gruppo RE. Essendo,
oltre che direttore della rivista “Il Consulente RE”, anche addetto alle
pubbliche relazioni del Gruppo, cerco di soddisfare la Sua curiosità.
L’affermazione cui Lei fa riferimento è quella apparsa nell’articolo
pubblicato su “Il Mondo” (avente la data del 18 maggio 2007: “Il 20-22%
del patrimonio immobiliare nazionale è della Chiesa” ed è messa in bocca al
dottor Alemani. Il dottor Alemani ha avuto un colloquio con il giornalista
Sandro Orlando de “Il Mondo”: è stato un colloquio telefonico, durante il
quale il giornalista ha chiesto ripetutamente al suo interlocutore a quanto
ammontasse il patrimonio immobiliare della Chiesa in Italia. Il dottor Alemani
ha dapprima risposto che non poteva dare una risposta adeguata; poi, di fronte
all’insistenza del giornalista, ha detto: “Se proprio vuole una cifra, Le
potrei dire per assurdo un 20%, pensando che sono della Chiesa la Basilica di
San Pietro, quella di San Marco, il Duomo di Milano, ecc…. chiese che però
non sono evidentemente sul mercato immobiliare!”. Il giornalista ha pubblicato
solo la cifra, niente del resto (che oggettivamente fa assumere a quella cifra
un altro significato!). “Avvenire” ha pubblicato una precisazione
sull’argomento nel numero di sabato 12 maggio 2007 , a pagina 25, in basso
sulla sinistra, sotto il titolo “Il valore delle chiese”.
Nella
speranza di aver soddisfatto la Sua richiesta, La saluto cordialmente
Giuseppe Rusconi
mercoledì 20 giugno 2007 11.50
Inserito
il 27 Giugno 2007
NOTA
CEI SUI DICO:
29 Marzo 2007
L'ampio
dibattito che si è aperto intorno ai temi fondamentali della vita e della
famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che
traggono la loro origine dal Vangelo e che continuano a produrre frutti
preziosi di amore, di fedeltà e di servizio agli altri, come testimoniano
ogni giorno tante famiglie. Ci sentiamo responsabili di illuminare la
coscienza dei credenti, perché trovino il modo migliore di incarnare la
visione cristiana dell'uomo e della società nell'impegno quotidiano,
personale e sociale, e di offrire ragioni valide e condivisibili da tutti a
vantaggio del bene comune.
La
Chiesa da sempre ha a cuore la famiglia e la sostiene con le sue cure e da
sempre chiede che il legislatore la promuova e la difenda. Per questo, la
presentazione di alcuni disegni di legge che intendono legalizzare le unioni
di fatto ancora una volta è stata oggetto di riflessione nel corso dei nostri
lavori, raccogliendo la voce di numerosi Vescovi che si sono già
pubblicamente espressi in proposito. E' compito infatti del Consiglio
Episcopale Permanente “approvare dichiarazioni o documenti concernenti
problemi di speciale rilievo per la Chiesa e la società in Italia, che
meritano un'autorevole considerazione e valutazione anche per favorire
l'azione convergente dei Vescovi” (Statuto C.E.I., art. 23, b).
Non
abbiamo interessi politici da affermare; solo sentiamo il dovere di dare il
nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di
tanti cittadini che si rivolgono a noi. Siamo convinti, insieme con moltissimi
altri, anche non credenti, del valore rappresentato dalla famiglia per la
crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre
esperienze, è figlio/a, e ogni figlio/a proviene da una coppia formata da un
uomo e una donna. Poter avere la sicurezza dell'affetto dei genitori, essere
introdotti da loro nel mondo complesso della società, è un patrimonio
incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita. E questo patrimonio è
garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio, proprio per l'impegno che
essa porta con sé: impegno di fedeltà stabile tra i coniugi e impegno di
amore ed educazione dei figli.
Anche
per la società l'esistenza della famiglia è una risorsa insostituibile,
tutelata dalla stessa Costituzione italiana (Cf. art. 29 e 31). Anzitutto per
il bene della procreazione dei figli: solo la famiglia aperta alla vita può
essere considerata vera cellula della società perché garantisce la continuità
e la cura delle generazioni. E' quindi interesse della società e dello Stato
che la famiglia sia solida e cresca nel modo più equilibrato possibile.
A
partire da queste considerazioni, riteniamo la legalizzazione delle unioni di
fatto inaccettabile sul piano del principio, pericolosa sul piano sociale ed
educativo. Quale che sia l'intenzione di chi propone questa scelta, l'effetto
sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si toglierebbe, infatti, al
patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono
proprio dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del resto, la storia
insegna che ogni legge crea mentalità e costume.
Un
problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle
unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe
la differenza sessuale, che è insuperabile.
Queste
riflessioni non pregiudicano il riconoscimento della dignità di ogni persona;
a tutti confermiamo il nostro rispetto e la nostra sollecitudine pastorale.
Vogliamo però ricordare che il diritto non esiste allo scopo di dare forma
giuridica a qualsiasi tipo di convivenza o di fornire riconoscimenti
ideologici. Ha invece il fine di garantire risposte pubbliche e esigenze
sociali che vanno al di là della dimensione privata dell'esistenza.
Siamo
consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili
garanzie e tutele giuridiche per la persona che convive. A questa attenzione
non siamo per principio contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo
sia perseguibile nell'ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una
nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e
produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare.
Una
parola impegnativa ci sentiamo di rivolgere specialmente ai cattolici che
operano in ambito politico. Lo facciamo con l'insegnamento del Papa nella sua
recente Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis:
“i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave
responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla
loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai
valori fondati della natura umana”, tra i quali rientra “la famiglia
fondata sul matrimonio tra uomo e donna” (n. 83). “I Vescovi - continua il
Santo Padre - sono tenuti a richiamare costantemente tali valori; ciò fa
parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato” (ivi).
Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione
delle unioni di fatto.
In
particolare ricordiamo l'affermazione precisa della Congregazione per la
Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di “un progetto di legge
favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare
cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo
disaccordo e votare contro il progetto di legge” (Considerazioni della
Congregazione per la Dottrina della Fede circa i progetti di riconoscimento
legale delle unioni tra persone omosessuali, 3 Giugno 2003, n. 10).
Il
fedele cristiano è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi
seriamente con l'insegnamento del Magistero e pertanto non “può appellarsi
al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo
soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze
etiche fondamentali per il bene comune della società” (Nota dottrinale
della Congregazione per la Dottrina della Fede circa alcune questioni
riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24
Novembre 2002, n. 5).
Comprendiamo
la fatica e le tensioni sperimentate dai cattolici impegnati in politica in un
contesto culturale come quello attuale, nel quale la visione autenticamente
umana della persona è contestata in modo radicale. Ma è anche per questo che
i cristiani sono chiamati a impegnarsi in politica.
Affidiamo
queste riflessioni alla coscienza di tutti e in particolare a quanti hanno la
responsabilità di fare le leggi, affinché si interroghino sulle scelte
coerenti da compiere e sulle conseguenze future delle loro decisioni. Questa
Nota rientra nella sollecitudine pastorale che l'intera comunità cristiana è
chiamata quotidianamente ad esprimere verso le persone e le famiglie e che
nasce dall'amore di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità.
ROMA,
28 Marzo 2007
I
Vescovi del Consiglio Permanente della C.E.I.
Commento
sulla nota della Cei sulle coppie di fatto, su SIR
La
Cei non fa politica, salvaguarda le istituzioni
Dopo
la nota pastorale rilasciata ieri dalla CEI sui Dico, oggi il Sir (Servizio
Informazione Religiosa) fa alcune precisazioni e rilascia alcuni commenti.
In particolare il Sir sottolinea come il documento della Cei non sia volto a
fare politica, ma a spingere i cattolici che la fanno ad “abbandonare i
sofismi” e a prendere una posizione chiara ed esplicita in favore di saldi
principi morali, perché “se serve una bussola nel grande guazzabuglio della
politica di oggi, questa non può che essere la coerenza”.
Secondo il Sir la nota dei vescovi è “un argomentare laico, che punta
dritto all’esperienza quotidiana, al comune sentire, alla concreta
preoccupazione di tanti, credenti e non credenti, cattolici e agnostici,
giovani e adulti, per la possibile deriva verso una società che, picconando
la famiglia, perdendo di vista la distinzione sessuale, perda le ragioni della
sua identità e dunque la sua tensione al futuro”.
Il Sir, dunque, ha posto l’accento sul fatto che la “Cei ha sviluppato una
originale forma di interlocuzione politica, cioé sui grandi temi della
persona e della società, senza entrare nella cucina partitica” e che
continuerà a farlo “con serenità e chiarezza”.
La nota pastorale, secondo il Sir, è un “argomentare intorno a quel punto
fermo che per la società è e rimane la famiglia” perché bisogna
salvaguardare la differenza tra coppie eterosessuali e omosessuali.
“Smontando un insinuante pensiero che ambiguamente vuole promuovere i
diritti individuali senza curarsi del quadro istituzionale, - continua il Sir
- c’è un chiaro no alla legalizzazione delle unioni di fatto e un
altrettanto fermo rifiuto della legalizzazione delle unioni di persone
omosessuali. Colpisce l’assenza di qualsiasi moralismo: i vescovi
ribadiscono il rispetto della dignità di ogni persona. Ma sono attenti a
distinguere il piano individuale da quello istituzionale. Non si può
scherzare con due principi di fondo, la differenza sessuale e l’uguaglianza.
Lede infatti pesantemente il principio di uguaglianza trattare casi differenti
allo stesso modo”.
Parole ferme e decise, dunque, come lo sono state ieri quelle della Cei, che
ovviamente hanno provocato reazioni diverse nei i vari schieramenti politici.
Rosy Bindi, autrice con la Pollastrini del decreto legge sui Dico, ha
sottolineato che questo “non crea alcuna nuova figura giuridica alternativa
e non dà alcun rilievo a patti o accordi tra le persone conviventi, ma
esclusivamente al fatto della convivenza stabile, proprio al fine di non
istituire, neanche alla lontana, paralleli con la disciplina matrimoniale” e
ha aggiunto che, comunque, i parlamentari cattolici si devono muovere “con
una coscienza limpida” e “discernimento” rispetto alle proprie
“responsabilità pubbliche”.
Meno positivo Fassino, che durante la registrazione della trasmissione “La
storia siamo noi” ha affermato che la nota del Cei “è un documento che
contiene molte cose interessanti, ma su questo punto” va “al di là del
giusto”.
Più dure, invece, sono state le dichiarazioni del Presidente della Camera
Fausto Bertinotti: “Il tema della laicità dello Stato è un valore
fondativo delle nostre istituzioni” ha sottolineato, aggiungendo che,
nonostante la Chiesa abbia piena libertà di espressione, “resta fermo il
dovere delle istituzioni a difendere la propria laicità che altrimenti
farebbe aprire un vulnus dovendo ammettere che la Costituzione non esprime
valori capaci di fondare su di essi la facoltà autonoma del legislatore
divenendo elemento di fortissima delegittimazione”.
E c’è chi già pensa alle “sanzioni” per i cattolici che voteranno a
favore dei Dico: “Ci manca poco che sui cattolici che approvino i Dico cada
il fulmine di un’aperta scomunica”, ha affermato amareggiato il segretario
dello SDI Enrico Boselli.
Paola Monti
Inserito
il 30 Marzo 2007
La
verità non è mortificazione del pensiero: 22
Marzo 2007
La
verità non è mortificazione del pensiero, cosicché la si debba
accusare di “pensiero unico” circa i DICO. La verità è tanto ricca
che permette una pluralità di pensiero, ma non di pensiero che sia in
contraddizione con essa. Lo sanno benissimo questo quei cattolici che vogliono
tacciare la Chiesa di voler affermare il pensiero unico, poiché la Chiesa vede
bene il pluralismo teologico, già testimoniato nei secoli dai grandi teologi,
quali Agostino, Tommaso d'Aquino, Bonaventura, ecc. ecc. Lo sanno benissimo che
in Cristo vi sono inesauribili ricchezze e che anzi la Chiesa sulla terra mai
riuscirà ad esaurirle. Lo sanno benissimo che il pluralismo teologico non vuol
dire teologie che si contraddicono tra di loro, ma che invece arricchiscono la
comprensione della verità.
Lo
sanno benissimo i cattolicisociali, dizione meglio preferita dai cattocomunisti,
che si sono fatti di don Giuseppe Dossetti il loro ispiratore, dimenticando che
al loro ispiratore non è mai venuto in mente di tacciare la Chiesa di
promotrice di “pensiero unico”. Anzi don Dossetti voleva, prima del
Concilio Vaticano II, uno Stato integralmente cristiano, rimproverava la via
dell'umanesimo integrale di Maritain, perchè secondo lui si stava abbandonando
la Scrittura, i Padri della Chiesa. Poi col Concilio entrò in una fase di
ecumenismo venato di “irenismo”, cioè la ricerca di pacificazioni a
scapito della chiarezza. Circa questo si può citare quanto affermò un giorno
il Card. Biffi, che lo stimava: “Aveva confusione. Applicava le categorie
teologiche alle politiche, e le categorie politiche alle teologiche”.
Comunque è certo che i suoi
epigoni, come Giuseppe Alberigo - professore di storia della Chiesa nella facoltà
di Scienze politiche dell'Università di Bologna, e direttore dell'Istituto per
Scienze religiose di Bologna fondato da Giuseppe Dossetti -, uno dei firmatari
dell'”Appello ai pastori” a favore dei DICO, non lo rappresentano.
Ma
i cattolicosociali non possono più tentare di isolare il Card. Ruini dal
Pontefice, come hanno tentato di fare, per ridurlo ad un semplice opinionista,
dal momento che Benedetto XVI ha espresso chiarissimamente il suo dissenso sui
DICO.
Un
sito, fatto male, ha raccolto 8265 firmatari a favore dei DICO, tra questi
figurano una decina di sacerdoti. Il sito vuole rilanciare l'”Appello ai
pastori” fatto da vari cristianosociali.
Il
pericolo che i cattolicosociali avvertono nella chiara posizione della Chiesa
sui DICO? Eccolo: “conflitto tra la condizione di credente e quella di
cittadino”. Impossibile da credere! Non esiste una verità per il credente
e una per il cittadino quando sono in gioco le radici stesse dell'uomo. Qua non
si tratta di fede, ma semplicemente di ragione. E' il discorso di Ratzinger del
rapporto tra fede e ragione che viene fatto saltare dal voler vedere un
conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino. Ma c'è ancor
peggio. La condizione di credente viene resa come una condizione che si pone in
urto con la condizione di cittadino, quasi che il credente non fosse un
cittadino con il diritto di dire la sua, e quasi che il credente volesse
imporre la sua fede. Proprio l'assunto dei cattolicisociali inserisce
nella società il totalitarismo del pensiero unico.
Inserito
il 23 Marzo 2007
Una
risposta al cuore e alla mente: 16 Marzo 2007
"Perché, padre la Chiesa
non accetta i rapporti prematrimoniali?", mi dice una signorina sui 17 anni.
"La
tua è una domanda alla quale non si può rispondere con una sola frase, bisogna
dire parecchie cose per capire il perché".
"Mi
dica, allora, perchè io non ci vedo niente di male!".
"Non
mi meraviglia che tu sia finita a non vederci nulla di male, vista la cultura
nella quale viviamo, che è all'insegna della rimozione totale del senso del
peccato".
"Ecco,
perché è peccato?".
"Vedi,
l'uomo e la donna sono chiamati da Dio al servizio alla vita. Gli angeli Dio li
ha creati uno ad uno, ma per gli uomini ha voluto la collaborazione dell'uomo e
della donna perchè si diano altri uomini: un grande dono. Pensa: Dio obbedisce
ai due, poiché appena si forma l'embrione egli crea dal nulla un'anima e si ha
così l'embrione di un nuovo uomo o di una nuova donna, che si
svilupperanno e nasceranno. L'atto del coniugio, così come l'ha pensato Dio, è
il rito della vita. E' proprio così; infatti non scatta forse la vita
in quel momento? E l'uomo non si adopera per far fallire la vita con tanti
mezzi, purtroppo?
L'atto
del coniugio richiede un per sempre, veramente tale; non solo un per sempre
detto verbalmente, ma un per sempre vero, assunto responsabilmente, sancito
davanti a Dio, che darà ai due la forza, la luce, per vivere la "scuola
di elevazione" che è il matrimonio. Dio ha diritto di essere
rispettato nelle sue intenzioni sul rito della vita, visto che poi obbedisce
immancabilmente ai due creando un'anima. E obbedisce anche quando ciò fosse in
una provetta, cosa che va contro il suo disegno; ma Dio è fedele. Dio ha
affidato all'uomo e alla donna il numero e la qualità della vita (numero dei
figli e trasmissione di una vita sana), e rimane fedele a questo".
"Ma
mica si possono avere tanti figli! Uno ne dovrebbe mettere al mondo tantissimi
secondo voi?".
"Indubbiamente
non si possono avere tanti figli, per questo la Chiesa presenta i metodi
naturali per il controllo delle nascite: metodo Jhon Billing, metodo della curva
termica, metodo del rilevamento con test del tasso ormonale. Infatti la donna è
feconda un giorno solo al mese, con ovviamente la realtà che ovulo e seme si
possono conservare per un giorno o due. Ora è certamente vero che insieme
all'atto procreativo vi è presente l'aspetto unitivo. Ne consegue che l'uomo
sapendo di sé, conoscendo i suoi ritmi biologici, quando la procreazione, che
non può che essere un evento di responsabilità oltre che d'amore, non può
essere attuata per il già raggiunto numero dei figli o anche per un intervallo
tra l'uno e l'altro, utilizza i metodi naturali.
(Una
volta i corpi erano meno stressati e le donne durante l'allattamento erano
sterili, così tra un figlio e un'altro intercorrevano circa due anni; ora
questo non c'è più: sono notizie che mi hanno detto donne anziane).
Dunque
se l'aspetto procreativo deve essere sospeso, rimane quello unitivo, ma tuttavia
senza che si abbia intervento sull'atto ed esso sia come l'ha voluto Dio. Lì
bisogna essere se stessi e ricevere tutto come dono".
"Ma
questo è per il matrimonio, ma nel fidanzamento le cose sono diverse".
"Appunto,
sono diverse, e bisogna sempre considerare che l'incontro rimane primariamente
il rito della vita. I rapporti prematrimoniali sistematicamente rifiutano il
servizio alla vita.
Ma
ci sono altre ragioni che portano a non attuare i cosiddetti rapporti
prematrimoniali, dicitura questa che ormai è poco usata, visto che oggi sono
pubblicizzate non le unioni stabili, ma quelle instabili.
Ecco,
i due devono impararsi a conoscere a livello del cuore, e non è utile
introdurre un dato che per sua natura sancisce un per sempre definitivo. Io
credo che una ragazza virtuosa sia affascinante nel senso più bello, e darà
certezza di profondità di sentimenti, di fedeltà. Il marito sarà certo della
sua fedeltà. Basterà una breve ricognizione di orizzonte su di lei e sarà
sicuro del cuore di lei. La cosa vale, ovviamente, viceversa.
Il
fidanzamento è un vero catecumenato verso un sacramento e perciò per chi ha
fede è un tempo che va vissuto con la tensione verso quella tappa, e non come
se quella tappa-inizio non ci fosse, o fosse soltanto qualcosa che Dio ha
lasciato a decisioni facoltative.
I
due, quando cominceranno la coabitazione, scopriranno lati che prima non
conoscevano, né nell'altro, né in se stessi. Così se la coabitazione ha al
suo attivo l'unione dei corpi avverrà anche più facilmente l'armonizzazione
dei caratteri.
Bisogna
dunque leggersi nel disegno di Dio; disegno di Dio impresso nel corpo dell'uomo
e della donna.
Ancora,
c'è distinzione tra sessualità e genitalità. La sessualità è inerente al
dato ineliminabile, che verrà sviluppato nei passaggi psicologici
dell'infanzia; il suo esercizio "è", semplicemente avviene (voce,
movimenti, psicologia). La genitalità invece richiede la volontà, è un atto
che si può porre o non porre. L'uomo non è un essere che va "in calore
(scusami) secondo dei ritmi", ma è un essere che si pone in
un avvicinamento d'amore. L'uomo non è solo istinto, ma libertà, volontà. E
la libertà non vuol dire non avere una direzione di realizzazione e di
crescita; tale direzione la si ha.
Il
mondo, figliolina, crede che queste cose siano paglia, ma invece sono buon
frumento. Il dramma è che il frumento il mondo lo ritiene paglia e se ne
vanta".
"Ci
penserò su, padre".
"Ti
benedico mia cara figliolina. Io del "per sempre" a Gesù, vivo".
Inserito
il 17 Marzo 2007
Ragionamenti
sragionati: 14 Marzo 2007
Se
non fossero di un cristiano, e più precisamente di un cattolico, i ragionamenti
di Rosy Bindy non desterebbero sorpresa, ma, voglio dire, neppure esisterebbero.
Ecco quanto ha detto alcuni giorni fa, dopo aver concluso che circa l'inferno e
la dannazione eterna, lei nel caso dei Dico, è tranquilla di non andarci: “Due
omosessuali non possono sposarsi: non lo dice solo la Bibbia, ma l'intera civiltà
giuridica. Se però prevale in loro l'ispirazione alla visione cristiana
dell'amore, anziché alla sua dissipazione, da credente devo dolermene o
rallegrarmene?”.
A
tali parole è facile rispondere che l'amicizia cristiana è quanto mai una cosa
buona, ma non è cosa buona l'esercizio dell'omosessualità. Due omosessuali
possono essere certamente amici, ma i DICO non si fermano a questo - non
avrebbero ragione di essere - ma regolano la coabitazione e con
essa l'esercizio sessuale. L'ispirazione cristiana quando “prevale in loro”
li allontana dall'esercizo omosessuale,
non li avvicina o li giustifica. L'ispirazione cristiana quando “prevale in
loro” li porta a considerare come ognuno deve portare le sue difficoltà,
se vuole seguire Gesù.
E
l'amore a Cristo, e quindi l'amore che procede da lui per il dono dello Spirito
Santo, è connesso all'osservanza dei suoi comandamenti, e appare chiarissimo in tutta la Bibbia come l'esercizio
omosessuale venga rigettato. “Se mi amerete
osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15), ci dice Cristo, cosicché non
si può pensare di seguire Cristo quando si annulla la sua parola.
La
Bindy si augura anche che la Chiesa diventi misericordiosa come il padre del
figliol prodigo. Ma è facile dire alla signorina Bindy che il figliol prodigo
ritornò pentito alla casa del Padre.
I
“cattolici democratici”, i cosidetti “teodem”, la verità
la vorrebbero coniare democraticamente. In campo politico le cose vanno così,
ma ci sono dei principi che non possono essere intaccati, che non sono oggetto
di trattativa politica, poiché riguardano i fondamenti stessi dell'uomo.
L'esortazione apostolica di Benedetto XVI ai politici e legislatori cattolici di
non adoperarsi per leggi che vanno “contro
la natura dell'uomo”, non è di difficile comprensione. Ma i “teodem”
vanno per conto loro. Si esaminano di fronte alla fiamme dell'inferno e dicono
che andranno invece in paradiso. Ma c'è una parola di Gesù che dovrebbero ben
considerare e che dice che molti pensano illusoriamente di entrarci, ma poi non
ci entreranno (Cf. Lc 13,24).
Inserito
il 14 Marzo 2007
I
cattolici adulti, un equivoco profondo: 15 Febbraio 2007
Moltisimi cattolici
all'avvicinarsi dei confronti elettorali si sono orientati in base al tasso di
cattolicità di alcuni partiti. Il primo tasso di cattolicità è quello di
essere in sincero ascolto del Magistero della Chiesa e di difenderne le parole e
le ragioni. Ora invece si impara che ci sono i "cattolici adulti",
i "cattolici democratici", che rivendicano un'autonomia dalla
Chiesa, non nello specifico territorio politico, ma anche nei valori che
sottendono tutta la società. C'è da rimanere stupefatti a sentire la ministra
per la famiglia, Rosy Bindi, promotrice dei DICO, che includono le coppie
omosessuali, dire: "Io amo pensare alla Chiesa che si occupa delle cose
di Dio" (secondo quanto è comparso sui giornali di oggi); quasi che
le cose di Dio fossero solo la preghiera, le funzioni religiose, le processioni,
e non fosse innanzitutto e soprattutto l'uomo salvato da Cristo. Chi amava le
processioni, le liturgie, le lunghe preghiere e anche i digiuni, ma non amava il
prossimo il Vangelo lo identifica innanzitutto negli scribi e farisei ipocriti.
Chi ama Dio e non ama il fratello, è nelle tenebre, ci avvisa san Giovanni
apostolo nella sua prima lettera. La Chiesa non avrebbe altra voce di competenza
che per stabilire se la Messa debba essere detta in italiano o in latino, se
bisogna fare una genuflessione o no all'entrare in Chiesa. Se la Comunione debba
essere data solo sotto le specie del pane o anche del vino, e via dicendo.
Questi i "cattolici adulti", i "cattolici
democratici", democratici per misconoscere il valore del Magistero
dimenticando in pieno la parola di Gesù: "Chi ascolta voi, ascolta me".
Ma
i "cattolici adulti", cioè capaci di ragionare con la propria
testa, senza che il loro ragionare sia illuminato dalla Parola di Dio veicolata
dal Magistero, si dicono "sereni". Dirsi "sereni"
è di moda, ma "sereni" lo si è quando si compie ciò che si
deve compiere, cioè servire l'uomo rispettando i valori che lo reggono,
altrimenti la serenità è solo il risultato dell'appagamento della propria
presunzione, appagamento che dà un refrigerio devastante.
I
DICO non sono un punto di equilibrio se non in sede di forze politiche di
maggioranza, ma non sono un punto che irraggerà equilibrio nella società, ma
la farà sbandare ancor più verso il soggettivismo. Noi sappiamo che nel
governo delle cose temporali, l'autorità predisposta ad esse ha una legittima
autonomia, ma legittima, cioè rispettosa e accogliente dei valori dell'uomo,
che risalgono a Dio, creatore dell'uomo. Quando nella legittima autonomia si
incunea la secolarizzazione allora l'autorità ha un'autonomia non più
legittima, ma come tale dannosa. Allora vengono intaccate le basi stesse
dell'esistere sociale. La legge si distacca dalla legge naturale, e va alla
deriva della dittatura del relativismo. Abolita la legge naturale, è abolita
agli uomini la possibilità di dichiarare che una legge è giusta o ingiusta:
resta solo la legge coniata dal potere, e non si ha più il diritto di dire che
è giusta o ingiusta.
La
famiglia, che viene intaccata dalla sostanza dei DICO, sostanza che si presenta con
la veste di un groviglio di compromesso, è una realtà che ha in sé una
morale, una realtà strutturale, che viene prima della norma giuridica. Quando
la norma giuridica elimina la norma morale insita nella famiglia, prima di ogni
legislazione su di essa, accade che viene violato il luogo dove si forma la
coscienza del singolo di essere frutto di un amore fecondo, e quindi la capacità
di relazione interpersonale, non segnata da turbe.
Quello
che emerge nei DICO (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) è
proprio un parallelo al matrimonio, così come lo stabilisce la natura e la
Costituzione. Infatti si richiede uno stato di stabile convivenza sancito da una
sufficiente durata e dalla coabitazione. Quella che è una scelta libera senza
doveri, diventa riconosciuta con dei doveri, cioè stare insieme per un certo
lasso di tempo (tre anni) e coabitare, ovviamente per esercitare un vincolo
sessuale. Non sarebbe DICO l'unione di vita tra due fratelli o tra due
monaci, o tra due studenti universitari.
Si
dava per fede un voto a chi si presentava come una forza di mediazione in
politica dei valori cristiani, e come tale attirava il voto cattolico; ora
dobbiamo stare molto più attenti a ricercare il volto cattolico, o almeno i
tratti del rispetto della legge naturale, cioè quel tanto di trascendenza che
rimane da osservare una volta rifiutato il Vangelo.
I
DICO promuovono come istituzione un rapporto che non lo vuole essere, e che
vuole esistere solo come mero fatto, mettendo in conto con chiarezza la libera
annullabilità. E' proprio la libera annullabilità che porta le coppie a non
andare neppure in Comune per sposarsi secondo il rito civile. Ora i DICO non
hanno nessun potere di vincolare la libera annullabilità, e quindi non
inseriscono nel rapporto temi di riflessione per la stabilità.
I
doveri sono di segnalare all'anagrafe l'esistenza della convivenza. Lo possono
fare tutti e due i conviventi insieme, oppure un solo convivente, mandando però
una lettera raccomandata all'altro per informarlo. Questo aspetto dichiara che
la stessa convivenza è svuotata da quanto rimane della convivenza stessa: uno
apprende per lettera e non a voce che è cominciata una convivenza: il tutto si
traduce in accettare o no.
Altro
dovere è la convivenza protratta per un adeguato numero di anni, minimo tre.
Come
si vede, il dovere dei conviventi si riduce ad una segnalazione all'anagrafe e
nello stare insieme per almeno un determinato tempo. Tutto si scioglie con una
semplice segnalazione all'anagrafe; non c'è processo di separazione o divorzio,
sul quale un'autorità possa impegnarsi per il ristabilimento dell'unione.
Non
esiste poi diritto di sciogliere la convivenza con la forza della legge nel caso
che uno dei conviventi abbia una relazione con altra persona.
E'
diritto del convivente rappresentare l'altro in caso di malattia, qualora non
sia in grado di intendere e di volere; oppure riguardo alla donazione d'organi,
o riguardo al funerale e al tipo di trattamento cimiteriale.
Diritto
che il contratto di locazione detenuto da uno dei due conviventi passi all'altro
in caso di morte, purché vi sia stata coabitazione per tre anni oppure vi siano
figli, ma questa norma è superflua essendo già prevista.
Il
diritto agli alimenti se dopo tre anni di convivenza uno dei due conviventi, a
convivenza sciolta, è in stato di necessità economica.
Dopo
nove anni di convivenza si può concorrere alla successione ereditaria, da
dividere con eventuali figli della persona defunta.
Un
convivente può chiedere la partecipazione agli utili cambi di sedi lavorative
per favorire la convivenza.
La
reversibilità pensionistica al convivente che rimane in vita è soggetta a
graduatoria in base alla durata dell'unione e delle condizioni economiche.
Un
cittadino extracomunitario o apolide, convivente con un cittadino italiano o
comunitario, senza diritto di soggiorno, può richiederne il rilascio per
attuare la convivenza.
Come
si vede i doveri sono zero, solo un'iscrizione all'anagrafe. Quanto ai diritti
sono in parallelo a quelli matrimoniali, ma con la situazione di poter
sciogliere il vincolo senza dover rendere conto a nessuno, semplicemente
segnalando la cosa all'ufficio anagrafe.
Una
legge del genere messa all'interno di una società la mina profondamente,
introducendo diritti là dove non ci sono doveri; infatti la coabitazione in
questo caso non è un dovere, perché è la scelta di chi vuole nel
contempo una relazione senza vincoli.
Inserito
il 15 Febbraio 2007
Le
critiche dell'uomo Card. Carlo Maria Martini circa il caso Piergiorgio Welby:
22 Gennaio 2007
L'uomo
Card. Martini, ha voluto dichiarare, in un intervento su "Sole 24
Ore", anche se non con una posizione formalmente pronunciata, che nel
caso Welby non ci fu eutanasia,
ma fine dell'accanimento terapeutico. Dico "l'uomo Martini",
perché il suo dire su "Sole 24 Ore" non è magistero, ma solo opinione
personale.
Il
Card. Martini afferma innanzitutto, correttamente, che c'è reale
distinzione tra accanimento terapeutico ed eutanasia. Evitando l'accanimento
terapeutico, il Card. Martini, a cui piace proporre il suo discorso
in termini di "non", dice: "non si
vuole...procurare la morte: si accetta di non poterla impedire, e ciò è nei
limiti propri della condizione umana mortale". il Card. Martini dice
poi che "per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci
si può richiamare a una regola generale quasi matematica, ma ad un attento
discernimento"; tutto bene, come si vede. Poi il Card. Martini
introduce, circa il giudizio sull'accanimento, il concetto di partecipazione
alla decisione anche del malato: "non può essere trascurata la
volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista
giuridico (ndr. libertà di rifiutare una terapia), salvo
eccezioni ben definite (ndr. incapacità di intendere e volere) - di
valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale
gravità, sono effettivamente proporzionate"; ciò è condivisibile,
ma alla condizione che il paziente abbia la competenza per poter
partecipare attivamente al giudizio. Il Card. Martini, sempre a proposito
della fine del trattamento di accanimento, dice che "sarebbe più
corretto parlare non di sospensione dei trattamenti, ma di limitazione dei
trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare,
commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio
la sedazione del dolore e le cure infermieristiche"; parole
condivisibili, che tuttavia concettualmente non aggiungono nulla al già
chiaro.
La
partecipazione del malato al giudizio di sospensione del trattamento il
Cardinale la presenta pure come convenienza sul piano giuridico di una normativa
che "consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato;
ndr. cioè il paziente deve essere messo al corrente per partecipare alla
valutazione ) delle cure - in quanto ritenute sproporzionate dal paziente
- e protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o
aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione
all'eutanasia". Bisogna dire che una legge circa il diritto di
rifiutare una terapia è già presente nella Costituzione italiana, e quindi
il discorso è superfluo.Ma il medico non verrebbe tanto liberato dall'accusa
di "omicidio del consenziente o aiuto al suicidio", quanto
dall'accusa di aver operato un suicidio attivo, dal momento che il paziente è
consenziente e ha partecipato al giudizio di fine accanimento. Allora dove sta
il problema? Il problema è che il Card. Martini ha inavvertitamente abolito
il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia passiva, mantenendo solo
il rigetto dell'eutanasia attiva. L'eutanasia attiva si verifica quando si
uccide direttamente somministrando veleno, quella passiva quando si sospendono
le cure. Inoltre il Card. conferisce al paziente una competenza che ben
raramente può possedere. Il Card. Martini, rimettendo tutto al giudizio del
medico e del paziente, viene a rinunciare all'esame di criteri oggettivi di
sicuro supporto per definire l'esistenza di uno stato di sproporzionalità di
una terapia. Nel caso di Welby la sproporzionalità non c'era affatto,
esisteva invece una lucida volontà di suicidio per mano d'altri col sottrarre
l'apporto del ventilatore, creando il caso dell'eutanasia passiva. Ma il
ventilatore non creava il caso di accanimento terapeutico, come non lo crea un
peacemaker. Welby ha dato spazio a chi si adopera per abolire il
confine tra eutanasia attiva e eutanasia passiva, rimettendo tutto nella
volontà del paziente. Nessuno tuttavia può affermare che ci siano le
condizioni per la fine di un trattamento terapeutico dichiarato accanimento,
quando - criterio oggettivo - ci sono speranze di un vero prolungamento della
vita, e non di pochi giorni, o poche ore. Ma ancora la vita è da giudicarsi
solo come possibilità fisica, o anche come possibilità intellettuale;
possibilità che deve esserci per poter far partecipare il paziente, ammesso
che ne abbia le competenze, al giudizio di accanimento terapeutico? Come
si vede le dichiarazioni non ponderate creano serie difficoltà.
Inserito
il 22 Gennaio 2007
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