Salmo 41 (42)  Desiderio del Signore e del suo tempio

 

Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Core

 

Come la cerva anela
ai corsi d'acqua,
così l'anima mia anela
a te, o Dio.

L'anima mia ha sete di Dio,
del Dio vivente:
quando verrò e vedrò
il volto di Dio?

Le lacrime sono il mio pane
giorno e notte,
mentre mi dicono sempre:
“Dov'è il tuo Dio?”.

Questo io ricordo
e l'anima mia si strugge:
avanzavo tra la folla,
la precedevo fino alla casa di Dio,
fra canti di gioia e di lode
di una moltitudine in festa.

Perché ti rattristi, anima mia,
perché ti agiti in me?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio.

In me si rattrista l'anima mia;
perciò di te mi ricordo
dalla terra del Giordano e dell'Ermon,
dal monte Misar.

Un abisso chiama l'abisso
al fragore delle tue cascate;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.

Di giorno il Signore mi dona il suo amore
e di notte il suo canto è con me,
preghiera al Dio della mia vita.

Dirò a Dio: “Mia roccia!
Perché mi hai dimenticato?
Perché triste me ne vado,
oppresso dal nemico?”

Mi insultano i miei avversari
quando rompono le mie ossa,
mentre mi dicono sempre:
“Dov'è il tuo Dio?”.

Perché ti rattristi, anima mia,
perché ti agiti in me?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio.

 

Commento

 

Il salmista è un deportato sottoposto alle angherie dei suoi dominatori.

Egli inizia il suo canto di lode con un vivissimo desiderio di Dio. Egli gli domanda quando verrà a lui, così da vedere il suo volto; cosa che avverrà nel cielo.

I vincitori continuamente lo provocano dicendogli: “Dov’è il tuo Dio?”. Intendendo con ciò che il suo Dio è fuggito di fronte agli dei di Babilonia, e addirittura che non è esistente. I vincitori vogliono che lasci la sua fede e accolga gli idoli, che si vedono e si toccano. Ma il deportato, in camino verso il suo luogo di schiavitù, non rinuncia alla sua fede e pensa a quando era gioioso nella casa di Dio. Ricordi dolorosi ora, ma non vi rinuncia. Egli si esorta a non cedere alla tristezza: “Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me?”.

Egli è ormai fuori dalla grande vallata del Giordano; è ai piedi dell’Ermon e del monte Mizar, che sarebbe il monte Zaorah, vicino alle sorgenti del Giordano. Il cammino è in aspra salita.

Il deportato vede sorgenti scaturire dal monte Hermon e precipitare nel fondo di precipizi, fatti abissi d’acqua. Ogni abisso chiama “l’abisso”, perché da esso deriva. L’abisso, secondo l’idea semita, è l’immane bacino sotterraneo dal quale procedono le sorgenti (Gn 7,11; Pr 3,20; Ps 33,7). Uno svolgersi grandioso di forza travolgente che il deportato assume come immagine drammatica dell’assommarsi delle sventure divine su di lui: “Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati”.

Il cammino è lungo e aspro, ma il Signore sostiene il deportato: “Di giorno il Signore mi dona il suo amore”.

Lui, poi, durane la notte passa le ore in preghiera.

L’insulto, la provocazione, la tentazione, è continua, martellante: “Dov’è il tuo Dio?”, visto che sei nelle nostre mani e non puoi fuggire? Ma il deportato lotta, reagisce e dice alla sua anima: “Perché ti rattristi”; e si vincola alla speranza: “Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio”. Salvezza del volto, nel senso di salvezza da un volto disperato, sgomento, senza più dignità.