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Padre
Paolo Berti: "Note al libro di Qoèlet" |
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Nihil obstat quominus imprimatur
fr.
Venanzio Reali
Min.
Provinciale O.F.M. Capp.
5-10-1986
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Imprimatur
+Luigi
Amaducci
Vescovo di
Cesena e Sarsina
18.12.1986
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Testo e commento
Capitolo 1 2 3 4
5 6 7 8 9 10
11 12
Il libro di Qoèlet è datato
dalla critica recente intorno al 250 a.C.
Il testo è stato scritto da
un pio giudeo che riferisce le parole di un saggio. Qoèlet vuol dire uomo che ha
da dire una parola forte; predicatore, oratore sapiente. Il discorso di Qoèlet è
di volta in volta solenne, travolgente, intimo, confidenziale, vivace, calmo,
propenso a sintetizzare il pensiero in un proverbio, in un detto.
“Io,
Qoèlet, fui re d’Israele a Gerusalemme”; l’identificazione di Qoèlet
con Salomone è solo una attribuzione corrispondente alla grande stima di
sapiente che si aveva di lui. Nel giudaismo del post-esilio c'era stata una
riabilitazione della sua persona, che si era macchiata del cedimento narrato
nel primo Libro dei Re (11,1s). Si pensava anche ad un
ravvedimento morale di Salomone: il Talmud riporta una leggenda dove si narra
che Salomone venne deposto da un certo Asmodeo, ma poi pentitosi venne
reintegrato.
Il fatto che
Qoèlet si presenti (2,7-9) più ricco, più grande e potente di tutti i suoi
predecessori a Gerusalemme, non crea disagio all'identificazione di lui
con Salomone, poiché prima a Gerusalemme c'erano i re Gebusei: non si tratta
dunque di predecessori di dinastia, ma solo di predecessori.
Detto questo
va affermato che le “parole
di Qoèlet”
non sono affatto di Salomone.
Comunque, va
notata la presa di distanza dell’autore dal voler asserire con forza
l’autenticità salomonica dello scritto, dal momento che non lo nomina mai, così
come non lo nomina il Libro della Sapienza (Seconda metà 1sec. a.C),
presentato come scritto dal grande re (Sap 9,8).
Il libro presenta un
Salomone disilluso nelle sue molte esperienze di ricerca della felicità, ma pur
vincente, pronto a dare parole che hanno il sapore di una consegna del meglio di
sé.
Lo scopo generale del libro
è quello di aiutare gli Israeliti a non lasciarsi afferrare dal benessere
proposto dalla cultura ellenistica in cui si trovarono al tempo del dominio dei
Tolomei. Il libro ha pure lo scopo di non guardare con nostalgia al tempo in
cui Israele era politicamente grande con Salomone, perché Salomone presenta che
il nucleo della pace, del godere giustamente delle cose presenti, sta nel vivere
alla presenza di Dio, a cui seguirà la ricompensa eterna nell’aldilà.
L’insegnamento
di Qoèlet è concreto; si svolge a partire dall’esame delle situazioni della
vita. Di volta in volta Qoèlet sembra un epicureo, un pessimista, ma non è
affatto così; è solo uno che sperimenta, che ricerca. E’ un errore fermarsi a
una sola delle sue espressioni e porla in contrapposizione ad altre: esse si
bilanciano, si illuminano vicendevolmente. Bisogna seguirlo nel suo dire, Qoèlet,
per arrivare a comprenderlo. E la lettura richiede agilità mentale, poiché il
suo argomentare ha sottigliezze.
Il libro
contribuì a mantenere aperti gli Israeliti all’attesa messianica, intesa come
attesa di Colui che avrebbe dato luce dall’alto.
Questo libro è
importante anche per noi cristiani per non finire, sottoposti alle tante
pressioni del mondo di oggi, a correre dietro al vento.
1 Parole di Qoèlet, figlio
di Davide, re di Gerusalemme
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Prologo
Vanità delle
vanità, dice Qoèlet.
Vanità delle
vanità: tutto è vanità.
Quale guadagno
viene all’uomo
per tutta la
fatica con cui si affanna sotto il sole?
Una generazione
se ne va e un'altra arriva,
ma la terra
resta sempre la stessa.
Il sole sorge,
il sole tramonta
e si affretta a
tornare là dove rinasce.
Il vento va
verso sud e piega verso nord.
Gira e va e sui
suoi giri ritorna il vento.
Tutti i fiumi
scorrono verso il mare,
eppure il mare non è mai pieno:
al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere.
Tutte le parole si esauriscono
e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare
né l’orecchio è mai sazio di udire.
Quel che è stato sarà
e quel che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole.
C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
“Ecco, questa è una novità”?
Proprio questa è già avvenuta
nei secoli che ci hanno preceduto.
Nessun ricordo resta degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito.
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Il termine
vanità (lett. “vapore”) indica la sterilità, il vuoto, la fugacità che l’uomo
avverte, quando si focalizza nelle cose della terra e in queste cerca quella
felicità verso cui il cuore lo sospinge.
L’uomo si
domanda spesso che cosa sia la felicità, in che cosa consista, e risponde che
consiste nel conseguire ciò che si desidera. Certamente è così, ma se il
desiderio è per le cose della terra viste in una assolutizzazione, esse, una
volta conseguite, danno la felicità? Qoèlet dice con forza di no. Le cose danno
un’ebbrezza momentanea, e l’ebbrezza “consuma” la stessa ebbrezza. L’uomo non
può saziarsi di cose finite; non può raggiungere un infinito riempiendo le sue
giornate di sensazioni finite.
Contro
possibili immediati rifiuti al suo esordio Qoèlet pone una domanda: “Quale
guadagno viene all'uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?”.
L’accento
della domanda è sul vantaggio e non su che cosa si può fare nella vita. Gli
uomini peccatori hanno l’illusione di segnare di sé la terra, in modo
incancellabile; ma una generazione va e una generazione viene, portando con sé
la medesima voglia.
Ma “la
terra resta sempre la stessa”.
L’azione dell’uomo rimane dell’uomo; non ha il potere di cambiare la terra.
Sulle opere dell’uomo regnano sovrane le leggi del creato. Le opere dell’uomo
non rompono tali leggi; esse stesse sono rette dalle leggi del creato.
E il creato ha
una operosità globale che sfugge all’uomo. Il sole sorge e tramonta; il vento
gira e rigira; l’acqua evapora, e dalle nubi scende la pioggia. Sono cicli,
eppure lavorano per un fine che Dio conosce, e che sfugge all’uomo.
La realtà è
tanto ricca che mai l’occhio è sazio di guardare e l’orecchio di udire; cioè
l’uomo non arriva mai a conoscere tutto; e non arriva con le parole ad esprimere
pienamente la sua meraviglia di fronte alla grandezza delle cose che vede.
Gli uomini
vorrebbero segnare di sé la storia umana, fare azioni totalmente nuove. Tanto
nuove da essere all’origine di un nuovo corso delle cose. Ma questo non avviene.
Sono nuove nella carica morale personale, nell'ingegnosità, ma non nuove in
assoluto, come se fossero create dal nulla e avessero nuove leggi. L’uomo ha
provato l’ebbrezza di librarsi in alto con il salto, poi si è elevato nell’aria
con strumenti sempre più sofisticati, ha concepito le comunicazioni a distanza,
prima con nuvolette di fumo, con specchi al sole, con piccioni viaggiatori,
corrieri, poi con il telegrafo, e via dicendo, ma è rimasto uomo e la creazione
è rimasta tale. Gli uomini si illudono di farsi un nome che sarà ricordato di
generazione in generazione, ma Qoèlet presenta subito che questa è un’illusione.
Certo, se uno è stato importante sarà ricordato, ma con ricordo sempre più
sbiadito.
L’uomo rimane
sempre una creatura; un essere relativo al suo Creatore.
“Io, Qoèlet, fui re d’Israele a
Gerusalemme. Mi sono proposto di ricercare e esplorare con saggezza tutto ciò
che si fa sotto il cielo. Questa è un'occupazione gravosa che Dio ha dato agli
uomini, perché vi si affatichino. Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il
sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento.
Ciò che è storto
non si può raddrizzare
e quel che manca
non si può contare. |
Pensavo e dicevo tra
me: <Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza più di quanti regnarono
prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la
scienza>. Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la
stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al
vento. Infatti:
Qoèlet
presenta la sua esperienza di re. Da questa sua posizione di vertice ha potuto
ricercare e investigare tutto ciò che si fa sotto il sole. E’ una occupazione
penosa data ad ogni uomo, ma che lui ha vissuto nella sua condizione di re, e
quindi con le più ampie possibilità. E la sua sentenza è che “tutto
è vanità e un correre dietro al vento”.
Il proverbio che subito avanza (1,15) è rivolto a
chi, illuso, volesse cambiare il mondo in meglio. “Quel
che manca non si può contare”; il che
vuol dire che è inutile illudersi che ci siano le risorse per raddrizzare ciò
che è storto. L’umanità non si può autosalvare.
Qoèlet decise
di affrontare la vita avendo un gran margine di vantaggio su tutto, mediante una
universale conoscenza. Il risultato però non gli fu vantaggioso, sia perché la
sua conoscenza rimase limitata, sia perché i problemi gli si erano allargati,
sia perché aveva perso in semplicità. Non condanna affatto la ricerca della
sapienza e della scienza, ma dice che se questo viene fatto in maniera
spasmodica nel tentativo di non aver più bisogno della dipendenza da Dio, non fa
che produrre affanno mentale e stress fisico e dolore morale.
2
Io dicevo fra me:
<Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia: Gusta il piacere!>. Ma
ecco, anche questo è vanità.
Del riso ho detto:
<Follia!>
e della gioia: <A che giova?>.
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Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino,
e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo
scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il
cielo durante i pochi giorni della loro vita. Ho intrapreso grandi opere, mi
sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini
e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie; mi sono fatto vasche per
irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita. Ho acquistato schiavi e
schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in
gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. Ho accumulato per
me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori
e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più
ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando
la mia sapienza. Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho
rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica:
questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. Ho considerato
tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per
realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è
alcun guadagno sotto il sole.
Visto che il sapere ad oltranza
aumenta il dolore, Qoèlet tentò altra strada per raggiungere la felicità: quella
della vita spensierata. La conclusione fu però deludente.
Cercò così un tipo di vita fatta
di ebbrezza (vino), ma anche di attività, proponendosi di controllarne i
risultati. Si diede così a grandi opere e a grandi divertimenti, ma non trovò
che il suo cuore avesse raggiunto una felicità stabile.
Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia:
<Che farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui>. Mi sono
accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio
della luce sulle tenebre:
Il
saggio ha gli occhi in fronte,
ma
lo stolto cammina nel buio.
|
Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. Allora
ho pensato: <Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho
cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?>. E ho concluso che anche questo è
vanità. Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e
nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e
lo stolto.
Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello
che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. Ho
preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò
lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure
potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza
sotto il sole. Anche questo è vanità! Sono giunto al punto di disperare in cuor
mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, perché chi ha
lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua
parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un
grande male.
Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e
dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i
suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore
riposa. Anche questo è vanità! Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere
e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene
dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? Egli concede
a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena
di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma
anche questo è vanità e un correre dietro al vento!
Qoèlet guardò allora con
attenzione alla sapienza, alla follia e alla stoltezza, per chiarirsi. In questo
suo riflettere si fece una domanda sul suo successore: “E
chi sa se questi sarà saggio o stolto?”,
cioè se conserverà tutte le fatiche da lui fatte oppure le dissiperà.
Il vantaggio della sapienza sulla
stoltezza è evidente. La sapienza guida verso il bene, la prudenza, l’azione
giusta, la stoltezza porta ad errori e confusione. Dunque, essere saggio è il
punto di arrivo. Ma Qoèlet afferma che il saggio non diventa per la sua saggezza
un immortale, non si sottrae alla sua condizione di creatura. Morirà come lo
stolto.
La conclusione di Qoèlet è che
(2,24) il meglio per l’uomo sta nel godere nel presente delle sue fatiche; però
sapendo che nessuno può godere, nello svolgersi impegnato delle sue
progettazioni, senza Dio.
Qoèlet, che all’inizio aveva
parlato con urto e che poi aveva presentato a sostegno del suo dire la sua
esperienza, ora passa ad un tono calmo, didattico.
3 Tutto
ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per
nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per
sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per
curare,
un tempo per demolire e un tempo per
costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per
ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per
danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per
raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per
astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per
perdere,
un tempo per conservare e un tempo per
buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per
cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la
pace.
Che guadagno
ha chi si dà da fare con fatica? |
L’uomo
è situato negli eventi; essi sono vari e hanno il loro contrario, cosicché
l’eterno, l’immutabile non è dell’uomo. I tempi che Qoèlet presenta sono in
successione del tutto casuale. “Che
guadagno ha chi si dà da fare con fatica?”,
è la domanda che pone Qoèlet, dal momento che nessuno può costruirsi
un'esistenza che abbia la garanzia di essere al riparo da sventure.
Ho
considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino.
Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la
durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò
che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c'è nulla di
meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo
mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. Riconosco che
qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da
togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato;
quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.
Ma ho
anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto
della giustizia c’è l’iniquità. Ho pensato dentro di me: <Il giusto e il
malvagio Dio li giudicherà, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni
azione>.
Poi,
riguardo ai figli dell’uomo, mi son detto che Dio vuole metterli alla prova e
mostrare che essi di per sé sono bestie. Infatti la sorte degli uomini e quella
delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo
soffio vitale per tutti. L'uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché
tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo:
tutto
è venuto dalla polvere
e
tutto nella polvere
ritorna .
|
Chi sa se il soffio vitale dell’uomo sale in alto, mentre quello
della bestia scende in basso, nella terra? Mi sono accorto che nulla c’è di
meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli
spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?
L’uomo non è pago del dominio
sulle cose, della loro bellezza. Conosce che le azioni, le cose, hanno una loro
durata, ma da ciò non può arrivare a cogliere l'intero agire di Dio, l'agire
complessivo della sua provvidenza.
Egli non può giungere a
tanto, nel tentativo di “situarsi come un dio” sopra tutte le cose; egli
rimane situato nelle cose, benché ne abbia il dominio. Non può dunque l’uomo
conoscere da principio alla fine l’opera di Dio.
L’uomo è chiamato ad operare,
a trarre dalla terra quanto gli è necessario, ma dei suoi prodotti non ne gode
se non quando si sente creatura in comunione con Dio.
L’uomo non può cambiare il
disegno di Dio su di lui. Quando ci prova non ha successo perché tutto si
organizza contro di lui. E dunque ogni lotta contro Dio, per avere un disegno
che sottragga l’uomo a Dio, è fallimentare. Dio non può essere condizionato,
asservito, ridotto alla resa. Dunque, occorre mantenersi nel timore di Dio,
perché contro Dio non si ha vittoria.
Se il sogno
dell’assolutamente nuovo, del cambiamento di tutto, è impossibile; è possibile
il nuovo, che si ha quanto alle metodologie di lavoro, alle nuove risorse di cui
si può disporre, alle nuove scoperte scientifiche, agli avanzamenti della
tecnica. Ma non è possibile all’uomo fare entrare le cose in un ordine diverso
da quello nel quale sono: mai l’uomo sarà un creatore.
Dio può “cercare
ciò che ormai è scomparso”
nel senso che nelle cose che si ripetono esiste la novità posta da ogni
individuo con le sue intenzioni, pensieri e affetti, solo Dio può scrutare le
profondità dei cuori.
Tutto dovrebbe essere secondo
giustizia, visto che l’uomo non può mutare il disegno di Dio, ma c’è spesso
l’ingiustizia al posto della giustizia. Questo, tuttavia, non spodesta Dio, non
cambia il disegno di Dio che comprende un giudizio di premio o di condanna.
L'uomo sperimenta la morte
come gli animali: “il soffio vitale”,
cioè l’uomo e l’animale entrambi respirano. Voler stabilire una diversità tra
l'uomo e l'animale a partire dall'alito non è ragionevole: “Chi
sa se il soffio vitale dell’uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende
in basso, nella terra?“.
E' questo un passaggio di Qoèlet rivolto a togliere all'uomo l'illusione di
essere un dio. Il testo affermerà poi (12,7) che il ruah dell'uomo
tornerà a Dio che lo ha dato, e ciò in chiaro riferimento al libro della Genesi
(2,7). Ne segue, coerentemente, che quello dell'animale “scende
in basso, nella terra”
perché la sua vita è stata tratta solo dalla terra.
Ma, Qoèlet lascia subito
questi pensieri considerando la gioia che ha l’uomo nel suo operare. Dice,
tuttavia, che l'uomo dopo la morte non potrà aver più presenza sulla terra, come
pensavano gli egizi con i loro monumenti sepolcrali. Dunque, per l’uomo non c’è
niente di meglio che godere nel presente delle sue opere.
4
Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto
il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c'è chi li consoli; dalla parte
dei loro oppressori sta la violenza, ma non c'è chi li consoli. Allora ho
proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in
vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha
visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole. Ho osservato anche che ogni
fatica e ogni successo ottenuto non sono che invidia dell’uno verso l’altro.
Anche questo è vanità e un correre dietro al vento.
Lo
stolto incrocia le sue braccia
e
divora la sua carne.
Meglio una
manciata guadagnata con calma
che due manciate con tormento e
una corsa dietro al vento. |
E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole: il caso
di chi è solo e non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure non smette mai di
faticare, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: <Per chi mi affatico e mi
privo di beni?>. Anche questo è vanità e un'occupazione gravosa.
Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore
compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai
invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme
in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno è aggredito, in
due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto.
Meglio
un ragazzo povero ma accorto,
che
un re vecchio e stolto
che
non sa più accettare i consigli.
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Il giovane infatti può uscire di prigione ed esser fatto re,
anche se, mentre quello regnava, era nato povero. Ho visto tutti i viventi che
si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. Era
una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non
si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al
vento.
Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinati
per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali
non sanno di fare del male.
Le oppressioni sono un dramma,
perché l’oppresso spesso non ha chi lo consoli. E’ un quadro di dolore senza
fine. Di fronte a questo Qoèlet dice che sono più felici i morti dei vivi, e che
sono ancora più felici quelli che non sono ancora perché non hanno visto le
ingiustizie che si commettono sulla terra. Il quadro è fosco, terribile. Qoèlet
non si presenta come un assuefatto alla violenza, ne rimane sempre stupito,
inorridito.
Sconcertante anche il vedere che
le azioni dell’uomo hanno come molla l’invidia. Ma, agire sulla molla
dell’invidia è vuoto, è vanità; non porta a nessun risultato perché l’invidia
chiama l’invidia: nessuno può ritenere di avere raggiunto un traguardo
insuperabile o intangibile. Le azioni che non sono sotto il segno
dell’oppressione dell’ingiustizia lo sono sotto l’oppressione dell’invidia.
Chi cerca di sottrarsi alla corsa
comune, senza una visione di saggezza, non è un grande dal momento che poi si
consuma d’invidia.
Ma anche l’intraprendente, quello
che non si dà tregua per sostenere vittorioso ogni competizione è uno stolto;
infatti non ha pace, ed è perciò meglio “una
manciata guadagnata con calma che due manciate con tormento”.
L’invidia è antisolidarietà; ed è
stoltezza perché la solidarietà ha molti vantaggi. L’accordo tra due - dice
Qoèlet - porta ad un risultato vantaggioso per entrambi: “Otterranno
migliore compenso per la fatica”.
Due nel freddo possono riscaldarsi; uno da solo no. Così due possono meglio
difendersi.
Insieme alla solidarietà occorre
che ci sia chi regge, chi guida. Chi regge deve essere saggio, e non sempre chi
è vecchio lo è.
Un ragazzo accorto, perseguitato,
può alla fine avere la meglio ed essere proclamato re al posto dell’altro, con
un immenso successo. Coloro che gli succederanno non avranno da rallegrarsi
dell’ascesa di quel giovane perché ne dovranno sostenere il confronto davanti al
popolo. Ma la loro pena è vanità, proprio perché si perdono nel confrontarsi e
certamente faranno gesti ridicoli e malaccorti per oscurare la memoria di quel
giovane. Meglio sarebbe raccoglierne l’eredità, ma l’uomo vuole emergere sugli
altri e così chi subentrerà non godrà del suo predecessore di successo.
5
Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a
proferire parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra;
perciò siano poche le tue parole.
Infatti
dalle
molte preoccupazioni vengono i sogni
e
dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto.
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Quando hai fatto un voto a Dio, non tardare a soddisfarlo, perché
a lui non piace il comportamento degli stolti: adempi quello che hai promesso.
E’ meglio non fare voti che farli e poi non mantenerli. Non permettere alla tua
bocca di renderti colpevole e davanti al suo messaggero non dire che è stata una
inavvertenza, perché Dio non abbia ad adirarsi per le tue parole e distrugga
l'opera delle tue mani. Poiché dai molti sogni provengono molte illusioni e
tante parole. Tu, dunque, temi Dio!
Ascoltare la Parola di Dio e
praticarla vale più dei sacrifici offerti dagli stolti, che non vogliono
intendere che l’obbedienza a Dio è la radice dell’essere graditi a Dio.
Davanti a Dio non bisogna porsi
con parole vuote, in cui è assente il cuore.”Non
pronuncerai invano il nome del Signore”
(Es 20,7), vuol dire precisamente non rivolgersi a lui con amore.
Le molte preoccupazioni, alla
fine, producono sogni di evasione dalla concretezza. Le chiacchiere finiscono
per ordire il discorso dello stolto, che come tale non riflette prima di
parlare.
Occorre dunque il timor di Dio,
cioè l'aver ben presente che si dovrà rispondere a lui delle azioni della
propria vita.
Se nella provincia vedi il povero oppresso e il diritto e la
giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo, poiché sopra un’autorità
veglia un’altra superiore e sopra di loro un’altra ancora più alta. In ogni
caso, la terra è a profitto di tutti, ma è il re a servirsi della campagna.
Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la
ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. Con il crescere
delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il
padrone se non di vederli con gli occhi?
Dolce
è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi;
ma
la sazietà del ricco non lo lascia dormire.
|
Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite
dal padrone a suo danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo
affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. Come è uscito dal
grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue
fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. Anche questo è un brutto guaio:
che se ne vada proprio come è venuto. Qual profitto ricava dall’avere gettato le
sue fatiche al vento? Tutti i giorni della sua vita li ha passati
nell’oscurità, fra molti fastidi, malanni e crucci.
Ecco quello che io ritengo buono e bello per l'uomo: è meglio
mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei
pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. Inoltre ad
ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne,
prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio.
Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa
con la gioia del suo cuore.
Non bisogna meravigliarsi se c’è
ingiustizia in provincia, cioè nel territorio in cui si abita e che fa capo al
re e ai suoi ministri, quasi che fosse molto difficile scoprirne la causa. La
ragione sta nel fatto che tanto più è numeroso il numero degli intermediari tra
il re e il popolo tanto più c’è ingiustizia. I beni della terra sono per il bene
di tutti, ma è il re che decide le parti per sé e le distribuzioni (1Sam 8,11s).
Ma ammassare ricchezze non porta a
goderne, poiché la gente starà attorno al ricco solo per il suo denaro ed egli
non sarà più sicuro degli affetti e ne soffrirà. Ma esiste anche il pericolo che
tutte le ricchezze sfumino per un cattivo affare.
Dunque “è
meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il
sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà“.
Un uomo che gode in Dio del suo
lavoro non è un difficile, un problematico; proprio perché “Dio
lo occupa con la gioia del cuore”,
gioia che nasce dall'amare Dio nell'obbedienza ai suoi comandamenti.
6
Un altro male ho visto sotto il sole, che grava molto sugli
uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di
quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, anzi sarà un estraneo
a divorarli. Ciò è vanità e grave malanno.
Se uno avesse cento figli e vivesse molti anni e molti fossero i
giorni della sua vita, se egli non gode a sazietà dei suoi beni e non ha neppure
una tomba, allora io dico che l'aborto è meglio di lui. Questi infatti viene
come un soffio, se ne va nella tenebra e l'oscurità copre il suo nome, non vede
neppure il sole, non sa niente; così è nella quiete, a differenza dell'altro! Se
quell'uomo vivesse anche due volte mille anni, senza godere dei suoi beni, non
dovranno forse andare tutti e due nel medesimo luogo?
Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca, ma la sua fame non è
mai sazia. Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto? Qual è il vantaggio del
povero nel sapersi destreggiare nella vita?
Meglio vedere con gli occhi che vagare con il desiderio. Anche
questo è vanità e un correre dietro al vento. Ciò che esiste, da tempo ha avuto
un nome, e si sa che cos'è un uomo: egli non può contendere in giudizio con chi
è più forte di lui. Più aumentano le parole, più cresce il vuoto, e quale
utilità c'è per l'uomo? Chi sa quel che è bene per l'uomo durante la sua vita,
nei pochi giorni della sua vana esistenza, che passa via come un'ombra? Chi può
indicare all’uomo che cosa avverrà dopo di lui sotto il sole?
Vi è pure il caso di chi avendo
avuto da Dio dei beni, poi non ne gode per una qualche ragione, fino alla
prospettiva che sia un estraneo, un usurpatore, a godere di quei beni. Qoèlet
vibra di sconcerto per questo caso. La finale del libro di Giobbe poneva una
reintegrazione dei beni di Giobbe, ma il Qoèlet ha visto che succede anche il
caso in cui non vi è alcuna reintegrazione; a volte neppure l’onore di una
sepoltura.
Il caso prospettato “che
grava molto sugli uomini”
è il dramma del giusto colpito dalle sventure fino alla fine. Questo caso
distrugge la sicurezza universale della dottrina che il giusto abbia sempre in
terra del bene, tuttavia Qoèlet sa (3,17) che ci sarà un premio presso Dio.
Qoèlet non aveva il modello
esistenziale di Gesù Cristo, così che se si è messi al bando, se si è messi a
morte, si ha la gioia in Cristo di amare, di operare per la salvezza di altri.
Qoèlet giunge a parlare della
violenza, presentando il fondo oscuro da cui nasce: l’uomo tutto opera per la
bocca e non è mai sazio. Nasce a Qoèlet la domanda su quale sia il vantaggio del
saggio sullo stolto (2,12), dal momento che gli uomini pensano che sia grande
chi ha ricchezze. Così il comportamento del saggio che è povero non ha valore
davanti ai viventi.
Meglio essere realisti,
pragmatici, che sognatori; ma anche questo non conduce all’appagamento del
cuore. Il pragmatismo non porta a nulla di sicuro, infatti sopra l’uomo rimane
Dio, che giudica le azioni, e l’uomo non può competere con Dio.
La soluzione delle cose non può
essere affidata alle molte parole, poiché il risultato che se ne ricava è quello
di svuotarsi di interiorità, e quindi di riflessione.
L'uomo, senza riferirsi a Dio e al
suo disegno, non può dire a se stesso e agli altri come convenga spendere i
brevi giorni della sua vita: se concentrarsi sul lavorare, se sul divertirsi, se
nell'arricchirsi, se nel conquistare posizioni, ecc., se puntare sulla
conoscenza delle cose.
Giungere a costruire qualcosa che
duri, che resti nel futuro lo si potrebbe se un uomo lo conoscesse, e quindi
potesse tenerne conto, ma l’uomo non può accedere alla conoscenza certa del
futuro.
7
Un buon nome è preferibile all’unguento
profumato
e il giorno della morte al giorno della
nascita.
E’ meglio visitare una casa dove c'è lutto
che visitare una casa dove si banchetta,
perché quella è la fine d’ogni uomo
e chi ci vive ci deve riflettere.
E’ preferibile la mestizia al riso,
perché con un volto triste il cuore diventa
migliore.
Il cuore dei saggi è in una casa in lutto
e il cuore degli stolti in una casa in
festa.
Meglio ascoltare il rimprovero di un saggio
che ascoltare la lode degli stolti:
perché quale il crepitio dei pruni sotto
la pentola,
tale è il riso degli stolti.
Ma anche questo è vanità.
L'estorsione rende stolto il saggio
e i regali corrompono il cuore.
Meglio la fine di una cosa che il suo
principio;
è meglio un
uomo paziente che uno presuntuoso. |
Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera
dimora in seno agli stolti. Non dire: <Come mai i tempi antichi erano migliori
del presente?>, poiché una domanda simile non è ispirata a saggezza. Buona cosa
è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile per coloro che vedono il sole.
Perché si sta all’ombra della saggezza come si sta all’ombra del denaro; ma vale
di più il sapere perché la saggezza fa vivere chi la possiede.
L’avere un buon nome è cosa buona,
ma bisogna conquistarselo praticando la giustizia, e non con le frequentazioni
delle feste, dei ritrovi, che questo sarebbe solo ricerca di successo tra gli
uomini, e dunque è necessario avere sempre davanti il correttivo che è meglio il
giorno della morte che il giorno della nascita, non intendendo con ciò che è
meglio morire che l’essere venuti al mondo, ma nel senso che il pensiero della
morte dà saggezza.
Il riso degli stolti è paragonato
al crepitio dei pruni sotto la pentola: è rumoroso ed effimero. Però sostare su
questa constatazione per erigersi sullo stolto è vanità, è stoltezza uguale.
Il saggio compromette la sua
saggezza se partecipa ai frutti di un’azione malvagia e se accetta di lasciarsi
condizionare da regali.
Le difficoltà che l’uomo incontra
nell’iniziare un’opera buona sono compensate poi dal buon esito, così è meglio
la fine di una cosa che il suo principio, che è già un bene.
Domandare come mai i tempi antichi
siano stati migliori dei presenti è tradire superficialità. Perché infatti i
tempi antichi dovrebbero essere sempre migliori? Se qualche tempo passato lo fu
la risposta è alla portata di tutti e risiede nel fatto che si praticò la
giustizia.
La saggezza è buona quando è unita
ad un patrimonio, perché in tal caso si evita il rischio presentato in 6,8. La
saggezza pone l’uomo al riparo, così come il denaro; una constatazione
realistica.
Unire la saggezza al patrimonio è
una soluzione ottimale, ma contro questo esiste il pericolo che uno può finire
nella stoltezza, cioè nella dimenticanza di Dio.
Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto
curvo? Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto
tanto l’uno quanto l’altro, cosicché l'uomo non riesce a scoprire ciò che verrà
dopo di lui.
Nei miei giorni vani ho visto di tutto: un giusto che va in
rovina nonostante la sua giustizia, un malvagio che vive a lungo nonostante la
sua iniquità.
Non
esser troppo giusto
e non mostrarti saggio oltre misura:
perché vuoi rovinarti?
Non esser troppo malvagio
e non essere stolto.
Perché vuoi
morire prima del tempo? |
E’ bene che tu prenda una cosa senza lasciare l'altra: in verità
chi teme Dio riesce bene in tutto.
La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che sono
nella città. Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il
bene e non sbagli mai. Ancora: non fare attenzione a tutte le dicerie che si
fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te, infatti il tuo
cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri.
Tutto questo io ho esaminato con sapienza e ho detto: <Voglio
diventare saggio!>, ma la sapienza resta lontana da me! Rimane lontano ciò che
accade: profondo, profondo! Chi può comprenderlo?
Mi sono applicato a conoscere e indagare e cercare la sapienza e
giungere a una conclusione, e a riconoscere che la malvagità è stoltezza e la
stoltezza è follia. Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta
lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la
sfugge, ma chi fallisce ne resta preso.
Vedi, questo ho scoperto, dice Qoèlet , confrontando a una a una
le cose, per arrivare a una conclusione certa. Quello che io ancora sto cercando
e non ho trovato è questo:
Un
uomo su mille l’ho trovato:
ma
una donna fra tutte non l’ho trovata.
Vedi, solo questo
ho trovato:
Dio ha creato gli
esseri umani retti,
ma essi vanno in
cerca di infinite complicazioni. |
I tempi lieti e tristi si
alternano così che l'uomo non può sapere cosa accadrà dopo di lui.
Nel giorno lieto bisogna stare
lieti, ma nel giorno triste l’unica cosa opportuna è riflettere. Inutile sarebbe
voler stornare da sé il giorno che si presenta triste: “Chi
può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?”.
Qoèlet considera ancora come alla
pratica della giustizia non sempre corrisponde per un uomo una vita tranquilla e
longeva, e come, invece, tante volte il malvagio prosperi e viva a lungo.
Qoèlet, che ha visto il giusto
perire e l’empio prosperare, si rivolge al buono perché diventi consapevole di
un pericolo; se infatti mosso dalla paura di avere tempi tristi e credesse di
allontanarli con una scrupolosità ossessiva finirebbe in rovina.
Così come chi volesse avere giorni
buoni accreditandosi per molto saggio, si rovinerebbe perché le sue azioni lo
smentirebbero.
Qoèlet rivolgendosi al malvagio
gli dice di non far affidamento sulla sua malvagità, per sventare un possibile
giorno cattivo, perché potrà presto vedere i suoi giorni troncati.
E non saggezza stare attento a
tutte le dicerie e inquisire su tutte le mormorazioni, perché uno corre il
rischio di dimenticare ciò che anche lui ha fatto e diventerebbe ridicolo.
Perché non ritenere che il servo abbia potuto mormorare di lui, se lui stesso ha
mormorato tante volte sugli altri. E quindi perché indagare?
Riguardo la sapienza, che si
ottiene con il timor di Dio, essa da al saggio una forza maggiore di molti
potenti di una città, infatti la potenza si può arrestare per un cattivo
consiglio, mentre il buon consiglio del saggio può dare la vittoria.
Qoèlet arriva al pensiero sulla
donna: le situazioni umane sono fortemente determinate da lei. Qoèlet dice che
fare della donna un refrigerio, un soave rifugio dai mali, porta solo amarezza.
Qoèlet ha fatto l'esperienza di questo. Anche la donna è una semplice creatura:
non ci si può consegnare a lei preferendola a Dio. Qoèlet ha molte riserve prima
di dire che una donna è una donna, ma tuttavia non cade nel misoginismo,
poiché ha stima della donna come si legge in 9,9; le sue riserve sono la
contropartita del bisogno che ha di lei.
8
Chi è come il
saggio?
Chi conosce la spiegazione delle cose?
La sapienza dell’uomo rischiara il suo volto,
ne cambia la
durezza del viso. |
Osserva gli ordini del re, per il giuramento fatto a Dio. Non
allontanarti in fretta da lui; non persistere in un cattivo progetto, perché
egli può fare ciò che vuole. Infatti, la parola del re è sovrana; chi può
dirgli: <Che cosa fai?>. Chi osserva il comando non va incontro ad alcun male;
la mente del saggio conosce il tempo opportuno. Infatti, per ogni evento vi è un
tempo opportuno, ma un male pesa gravemente sugli esseri umani. L'uomo infatti
ignora che cosa accadrà; chi mai può indicargli come avverrà? Nessun uomo è
padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul
giorno della morte. Non c'è scampo dalla lotta e neppure la malvagità può
salvare colui che la compie.
Tutto questo ho visto riflettendo su ogni azione che si compie
sotto il sole, quando l’uomo domina sull’altro per rovinarlo. Frattanto ho visto
malvagi condotti alla sepoltura; ritornando dal luogo santo, in città ci si
dimentica del loro modo di agire. Anche questo è vanità. Poiché non si pronuncia
una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli
uomini è pieno di voglia di fare il male; infatti il peccatore, anche se
commette il male cento volte, ha lunga vita. Tuttavia so che saranno felici
coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui, e non sarà
felice l'empio e non allungherà come un'ombra i suoi giorni, perché egli non
teme di fronte a Dio. Sulla terra c'è un'altra vanità: vi sono giusti ai quali
tocca la sorte meritata dai malvagi con le loro opere, e vi sono malvagi ai
quali ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che
anche questo è vanità.
Perciò faccio l'elogio dell’allegria, perché l’uomo non ha altra
felicita sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua
compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto
il sole.
Quando mi dedicai a conoscere la sapienza e a considerare le
occupazioni per cui ci si affanna sulla terra - poiché l'uomo non conosce sonno
né giorno né notte - ho visto che l'uomo non può scoprire tutta l'opera di Dio,
tutto quello che si fa sotto il sole: per quanto l'uomo si affatichi a cercare,
non scoprirà nulla. Anche se un sapiente dicesse di sapere, non potrà scoprire
nulla.
9
A tutto questo mi sono dedicato, ed ecco tutto ciò che ho verificato: i giusti e i sapienti e le loro
fatiche sono nelle mani di Dio, anche l'amore e l'odio; l'uomo non conosce nulla
di ciò che gli sta di fronte.
Vi è una sorte unica per tutti,
per il giusto e per il malvagio,
per il puro e per l’impuro,
per chi offre sacrifici e per chi non li
offre,
per chi è buono e per chi è cattivo,
per chi
giura e per chi teme di giurare. |
Questo è il male in tutto ciò che accade sotto il sole: una
medesima sorte tocca a tutti e per di più il cuore degli uomini è pieno di male
e la stoltezza dimora in loro mentre sono in vita. Poi se ne vanno fra i morti.
Certo, finché si resta uniti alla società dei viventi, c’è speranza: meglio un
cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire, ma i morti non
sanno nulla; non c’è più salario per loro, è svanito il loro ricordo. Il loro
amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più
alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole.
Qoèlet pone il saggio al vertice
degli uomini; lo scioglimento dei casi della vita, le soluzioni pratiche non si
danno senza la saggezza. La sapienza è pace.
Ognuno deve rimanere al suo posto
rispettando l'autorità del re (Cf. 1Sam 10,24; 2Sam 5,3; 1Re 2,42; 2Re 11,17;
1Cr 11,3).
Se uno è entrato in urto con il re
non deve fare gesti drammatici ispirati all’orgoglio, ma rivedersi e
sottomettersi.
Il saggio conosce il tempo, cioè
la scadenza nella quale deve ottemperare il comando del re. Inoltre conosce il
giudizio, cioè a quali conseguenze si esporrà se sarà manchevole.
E’ sempre dato un tempo per fare
una cosa, e sempre c’è alla fine il giudizio sulla cosa. Chi fa il male se lo
vedrà ricadere su di sé; egli ha fatto un giuramento a Dio (v.2) di
sottomissione al re e non potrà sottrarsi dalla sventura.
Chi combatte contro Dio non può
vincere. Dall’iniquità non si trae la salvezza.
In mezzo a tutto l’agitarsi per il
potere accade che empi siano onorati con la sepoltura e, invece, dei giusti
essere messi fuori della città e dimenticati. Ciò è vanità; non ci si può
ripromettere una fama finale tra gli uomini.
Il male prospera perché Dio non
colpisce subito il peccatore; tuttavia la felicità l’avranno solo quelli che
temono Dio. (Dio non colpisce subito perché vuole la conversione del peccatore
Ez 33,11).
L’aspettarsi da Dio il certo
successo materiale e sociale del giusto e la rapida condanna dell’empio, non è
un pensiero su cui sostare; porterebbe al pessimismo e alla sfiducia in Dio.
Qoèlet presenta perciò l’allegria, il gustare ciò che la vita offre, tuttavia in
uno spirito ben lontano dall’epicureismo, già scartato (2,1).
Qoèlet, mentre ricercava la
sapienza dimenticando il timor di Dio (1,17), si trovò a voler accedere ai
perché che risiedono nel mistero dell’azione complessiva di Dio nel mondo.
Qoèlet confessa che non ci poté riuscire, e dice che nessuno vi può riuscire.
L’uomo può darsi una spiegazione
di quanto gli accade e accade attorno a lui usando delle ragioni generali che
Dio ha comunicato nelle Scritture e nel dono della sapienza, ma non addentrarsi
con successo nei perché ultimi, che gli sfuggono. L’uomo deve credere fermamente
che il governo di Dio, che provoca e permette situazioni lasciando sempre
all’uomo la libertà, è sempre giusto e sapiente (Cf. Ps 139,17; Rm 11,33).
Un uomo può essere ammaliato dai
modi del suo prossimo senza capire che è odiato e non amato; o viceversa amato e
non odiato. L’uomo non può accedere direttamente nel cuore degli altri, non può
che giungervi, senza tuttavia cogliere tutti gli estremi, a partire dalle azioni
e dalle parole. Ne consegue che le azioni dei giusti sono nelle mani di Dio
perché lui conosce i cuori: lui solo è il loro giudice e a lui essi si appellano
(Cf. Ps 17,1; 1Cor 4,3); e ancora ne consegue che il giusto è riconosciuto tale
da quelli che vivono riconoscendo Dio.
Chi è in vita può cambiare, chi è
morto no. Così è meglio un cane vivo che un leone morto. Un cane (in oriente)
era malvisto, ad esso è paragonato un reietto. Il reietto è però vivo, e se
anche dovrà morire, proprio il pensiero della morte lo può migliorare. Qoèlet
così dice che nella vita c’è sempre speranza di bene; perciò va sempre vissuta
in ogni condizione.
Su, mangia con gioia
il tuo pane
e bevi il tuo vino con cuore lieto,
perché Dio ha gradito le tue opere.
In ogni tempo siano candide le tue vesti
e il profumo non manchi sul tuo capo. |
Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua
fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte
nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole. Tutto ciò che la tua mano
è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché non ci sarà né attività
né calcolo né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per andare.
Tornai a considerare un'altra cosa sotto il sole: che non è degli
agili la corsa né dei forti la guerra, e neppure dei sapienti il pane e degli
accorti la ricchezza e nemmeno degli intelligenti riscuotere stima, perché il
tempo e il caso raggiungono tutti. Infatti l’uomo non conosce neppure la sua
ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al
laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui.
Anche quest'altro esempio di sapienza ho visto sotto il sole e mi
parve assai grave: c’era una piccola città con pochi abitanti. Un grande re si
mosse contro di essa, l’assediò e costruì contro di essa grandi fortificazioni.
Si trovava però in essa un uomo povero ma saggio, il quale con la sua sapienza
salvò la città; eppure nessuno si ricordò di quest’uomo povero. Allora io dico:
<E’ meglio la
sapienza che la forza,
ma la sapienza del povero è disprezzata
e le sue parole non sono ascoltate>.
Le parole pacate dei sapienti si ascoltano
meglio
delle urla di un comandante di folli.
Vale più la sapienza che le armi da guerra,
ma un solo errore può distruggere un bene
immenso.
10 Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere:
un po’ di follia ha più peso della sapienza
e dell’onore.
Il cuore del sapiente va alla sua destra,
il cuore dello stolto alla sua
sinistra. |
Qoèlet invita decisamente il suo
lettore alla letizia del cuore, perché se lo ha seguito nel suo dire che ha già
cambiato modo di vivere e Dio ha già gradito le sue opere. Lo invita a
perseverare nel bene (vesti bianche) oltre che nella gioia (profumo). Lo invita
a godere della vita con la sua sposa. (Cristo darà agli uomini la sua gioia;
Cf. Gv 15,11). La vita negli inferi - dice Qoèlet - sarà buia, monotona.
Questa era la concezione che gli ebrei avevano dell'aldilà. Non mancava però la
speranza di un futuro incontro con Dio nel cielo (Cf. Gb 19,26-27). Non mancava
poi la consapevolezza di una eterna dannazione (Cf. Is 66,24).
Qoèlet osserva che nella vita non
riescono sempre i migliori, per cui non si può guardare alla riuscita di un uomo
come fatto che ne contraddistingua con certezza il valore: “Il
tempo e il caso - cioè
l’opportunità felice - raggiungono
tutti”.
Qoèlet insiste sulla non
conoscenza del futuro, per cui l’uomo non conosce se e quando sarà colpito da
una sventura: “la sua ora”.
Qoèlet presenta l’ingratitudine
verso un uomo saggio, ma povero, da parte degli abitanti di una città salvata
dal suo consiglio. Qoèlet ha riflettuto su questo fatto e afferma ancora la
superiorità della sapienza sulla forza, tuttavia deve ammettere che accade che
la sapienza del povero è disprezzata, poiché quel saggio povero venne ascoltato
sotto la spinta di un disastro certissimo, ma subito ottenuta la salvezza quel
saggio non fu più ascoltato, anzi venne dimenticato.
Le parole pacate dei saggi sono
penetranti e ascoltabili più delle urla di chi ha successo tra i forsennati.
Tra il comportamento del sapiente
e quello dello stolto c’è opposizione. Chi è sapiente non può credere che
seguire anche per un sol tratto il percorso dello stolto possa risultare
inosservato o utile.
E anche quando lo stolto cammina per strada, il suo cuore è privo
di senno e di ognuno dice: <Quello è un pazzo>.
Se l’ira d’un potente si accende contro di te, non lasciare il
tuo posto, perché la calma pone rimedio a errori anche gravi.
C’è un male che io ho osservato sotto il sole, uno sbaglio
commesso da un sovrano: la stoltezza viene collocata in posti elevati e i ricchi
siedono in basso. Ho visto schiavi andare a cavallo e principi camminare a
piedi, per terra, come schiavi.
Chi scava una fossa
vi può cadere dentro
e chi abbatte un muro può essere morso da
una serpe.
Chi spacca pietre può farsi male
e chi taglia
la legna può correre pericoli. |
Se il ferro si ottunde e non se ne affila il taglio, bisogna
raddoppiare gli sforzi: il guadagno sta nel saper usare la saggezza. Se il
serpente morde prima d’essere incantato, non c’è profitto per l’incantatore.
Le parole del saggio
procurano stima,
ma le labbra dello stolto lo mandano in
rovina:
l'esordio del suo parlare è sciocchezza,
la fine del
suo discorso pazzia funesta. |
L’insensato moltiplica le
parole, ma l’uomo non sa quello che accadrà: chi può
indicargli ciò che avverrà dopo di lui?
Lo stolto si ammazza di
fatica,
ma non sa neppure andare in città.
Povero te, o paese, che per re hai un ragazzo
e i tuoi principi banchettano fin dal mattino!
Fortunato te, o paese, che per re hai un uomo libero
e i tuoi principi mangiano al tempo dovuto,
per rinfrancarsi e non per gozzovigliare.
Per negligenza il soffitto crolla
e per l’inerzia delle mani piove in casa.
Per stare lieti si fanno banchetti
e il vino allieta la vita,
ma il denaro risponde a ogni esigenza.
Non dir male del re neppure con il pensiero
e nella tua stanza da letto non dir male del potente,
perché un uccello del cielo potrebbe trasportare la tua voce
e un volatile riferire la tua parola.
|
Lo stolto anche quando è sulla via ed
è osservato da tutti continua ad essere dissennato, accendendosi di furore
contro chi lo riconosce per stolto e gli lancia l’accusa di essere pazzo.
Agitarsi, perdere la
calma, fare gesti drammatici perché un potente si è risentito di un’azione
contro di lui, non porta se non ad aggravare tutto. Mantenere il proprio posto e
la calma invece placa le offese anche gravi, perché si dimostra riflessione,
compostezza, umiltà, e alla fine colui che è stato offeso deve pensare che anche
lui ha fatto i suoi errori.
Se l’errore è
sempre criticato e punito nel suddito, non così è per il sovrano; anzi, la
follia è spesso collocata in luoghi alti, mentre gli abili se ne devono stare in
basso. Qoèlet ha visto l’impensabile: “Schiavi
andare a cavallo e principi camminare a piedi, per terra, come schiavi“.
Se uno tende
un’insidia deve temere di cadere nella fossa che ha scavata. Se uno demolisce
una situazione deve aspettarsi la possibilità di essere colpito: deve prepararsi
alla reazione subdola e velenosa di qualcuno.
La saggezza fa
essere accorti nell’operare. Prima di intraprendere un’iniziativa bisogna
predisporre con cautela tutto, altrimenti ne viene rovina.
Il saggio si
attira benevolenza; se però cede a volere la popolarità entra in contatto con lo
stolto. All’inizio il discorso con lui sembrerà accettabile, ma poi diventerà
funesto e il risultato sarà che il saggio si troverà coinvolto e in rovina.
L’insensato è
ciarliero, quando parla dice pure cose sagge in sé, ma le troppe parole lo
tradiscono.
La stanchezza
che lo stolto prova nell’operare ha come sorgente la sua pigrizia e ill non
sapere trovare la gioia dell’operare. E’ tanto indolente che non sa neppure
affrontare uno sforzo ricco di prospettive come quello di andare in città.
Il paese che
per re ha un ragazzo, non accorto come in 4,13, ma inesperto e manovrabile, ha
pure principi che banchettano fin dal mattino. Quel paese è esposto a gravi
guai.
Il paese che
invece ha per re un uomo libero, cioè non condizionabile, e ha principi sobri, è
un paese felice.
Se le cose
vanno male in un paese o in una famiglia, la ragione è da ricercarsi nella
lentezza in cui si corre ai ripari.
La letizia non
si può cercare nell’inazione, ma nell’operosità. La letizia ha momenti forti nei
banchetti, ma essi si fanno con il denaro, che non può essere ottenuto con la
pigrizia.
Nell’espressiva immagine del volatile, si ha la presentazione di come il
re possa venire a sapere - con più facilità di quanto uno immagini - cose che
uno credeva di aver tenuto occulte.
11
Getta il tuo pane sulle acque, perché con il tempo
lo ritroverai. Fanne sette o otto parti, perché non sai quale sciagura potrà
arrivare sulla terra.
Se le nubi sono piene d'acqua,
la rovesciano sopra la terra;
se un albero cade
verso meridione o verso settentrione,
là dove cade rimane.
Chi bada al vento non semina mai,
e chi osserva le nuvole non miete. |
Come tu non conosci la via del soffio vitale né
come si formino le membra nel grembo d'una donna incinta, così ignori l'opera di
Dio che fa tutto.
Fin dal mattino semina il tuo seme
e la sera non dare riposo alle tue mani,
perché non sai quale lavoro avrà buon esito,
se questo o quello,
o se tutti e due andranno bene. |
E’ necessario
affrontare una certa misura di rischio nella vita: “Getta
il tuo pane sulle acque”.
Bisogna però non rischiare tutto in una direzione, perché se si fallisce il
fallimento è completo. Il fallimento è sempre infatti possibile dal momento che
non si può sapere “quale
sciagura potrà arrivare sulla terra”,
sì da prendere le adeguate misure.
Uno, da
diversi indizi e per un determinato momento, può farsi un quadro approssimativo
del futuro, come guardando le nubi piene d’acqua si può arrivare a dire che la
rovesceranno a terra, così si potrà salvare il salvabile.
Un albero può
cadere in molte direzioni, ma quando è caduto là rimane, così bisogna stare
attenti subito in che direzione cade l’albero (la situazione sfavorevole) per
sottrarvisi, perché dove cade rimane con il danno causato.
Chi si
aspettasse segni più che sicuri che tutto andrà bene non farà mai niente. Se uno
badasse al vento, che può esserci o no, e volesse dal vento indizio certo non
seminerebbe mai.
Come andranno
le cose è incerto, tuttavia l’uomo deve sapere che Dio ha su di lui un disegno
di salvezza eterna, anche se egli non lo conosce compiutamente. Del resto l’uomo
non sa come avvengono tante cose che pur avvengono: “Come
tu non conosci la via del soffio vitale (ruach)”,
cioè lo stabilirsi dell'anima.
Il lettore è
invitato a non adagiarsi, a non fare la semina e poi stare inerte ad aspettare
il raccolto, ma ad operare ancora, dopo aver seminato, perché possa avere in un
altro lavoro un margine di sicurezza dagli imprevisti della stagione.
Dolce è la luce
e bello e per gli occhi vedere il sole.
Anche se l’uomo vive molti anni,
se li goda tutti,
e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti:
tutto ciò che accade è vanità.
Godi, o giovane, nella tua giovinezza,
e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.
Segui pure le vie del tuo cuore
E i desideri dei tuoi occhi.
Sappi però che su tutto questo
Dio ti convocherà in giudizio.
Caccia la malinconia dal tuo cuore,
allontana dal tuo corpo il dolore,
perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.
12
Ricordati del tuo creatore
nei giorni della tua giovinezza,
prima che vengano i giorni tristi
e giungano gli anni di cui dovrai dire:
<Non ci provo alcun gusto>;
prima che si oscurino il sole,
la luce, la luna e le stelle
e tornino ancora le nubi dopo la pioggia;
quando tremeranno i custodi della casa
e si curveranno i gagliardi
e cesseranno di lavorare le donne che macinano,
perché rimaste poche,
e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre
e si chiuderanno i battenti sulla strada;
quando si abbasserà il rumore della mola
e si attenuerà il cinguettio degli uccelli
e si affievoliranno tutti i toni del canto;
quando si avrà paura delle alture
e paura si proverà nel cammino;
quando fiorirà il mandorlo
e la locusta si trascinerà a stento
e il cappero non avrà più effetto,
poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna
e i piagnoni si aggirano per la strada;
prima che si spezzi il filo d’argento
e la lucerna d’oro s’infranga
e si rompa l’anfora alla fonte
e la carrucola cada nel pozzo,
e ritorno la polvere alla terra, com’era prima,
e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
tutto è vanità. |
La vita è
bella e l’uomo goda pure dei suoi giorni, ma non stoltamente come se non ci
potessero essere nel futuro giorni difficili. Il
giovane non sia problematico e triste, ma stia lieto, considerando però che Dio
lo convocherà a giudizio. Il giovane si
ricordi del suo Creatore in modo da crescere nell’amore per lui perché ben
presto subentrerà la vecchiaia con i suoi malanni e dovrà lasciare le gioie
della giovinezza: Perciò se non sarà cresciuto nel Signore sarà nella tristezza.
Al contrario se si sarà ricordato di lui nella giovinezza nella vecchiaia avrà i
frutti della saggezza. Una
concatenazione di immagini descrive il decadimento dell’uomo verso la morte. La vista si
abbasserà. Le mani
tremeranno, le gambe non sorreggeranno, i denti cesseranno di essere validi e
saranno in pochi, le pupille so offuscheranno. La parola sarà
rada (i battenti sulla strada sono le labbra). I cibi non verranno presi
che con lentezza: “Si
abbasserà il rumore della mola”. Le salite
faranno paura e così le ombre della strada, perché non ci si potrà difendere dai
pericoli. I capelli diventeranno bianchi (il mandorlo). Il corpo si
trascinerà lento. Il piacere della tavola non ci sarà più (il cappero).
Arriveranno i piagnoni a intonare le lamentazioni. La lucerna
d’oro accesa e appesa al trave con un filo d’argento cadrà a terra spegnendosi.
Se un pozzo ha la carrucola funzionante e accanto un’anfora intatta è segno di
presenza di vita. Se però la carrucola è caduta nel pozzo e l’anfora è rotta si
ha un’immagine di morte. Il “soffio
vitale”
(ruah) dell'uomo torna a Dio. Nel “soffio
vitale”
dato da Dio all'uomo viene espressa la vita dell'uomo che proviene da un'anima
infusa da Dio (Cf. Gn 2,7); non così per l'animale (Cf. Gn 2,19).
Epilogo
Oltre a essere saggio, Qoèlet insegnò al popolo la scienza; ascoltò, meditò e
compose un gran numero di massime.
Qoèlet cercò di trovare parole piacevoli e scrisse con onestà parole veritiere.
Le parole dei saggi sono come pungoli, e come chiodi piantati sono i detti delle
collezioni: sono dati da un solo pastore. Ancora un avvertimento, figlio mio:
non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo.
Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi
comandamenti, perché qui sta tutto l'uomo.
Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene
o male.
L’autore del
libro si qualifica come ammiratore di Qoèlet. Dice che le parole dei saggi sono
“come pungoli, e come chiodi piantati”. In tal modo dà la chiave di
lettura del libro che, appunto, procede per pungoli e chiodi piantati.
Le raccolte
degli autori saggi sono luce data dal Pastore supremo.
La conclusione
di tutto è: “Temi
Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l'uomo”.
E non è
indifferente nelle conseguenze eterne il fare il bene o il male. Dio infatti
citerà in giudizio ogni azione, ogni sentimento e pensiero: “Tutto
ciò che è occulto, bene o male”.
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